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Autore: leo rugens    24/11/2012    9 recensioni
Si era stufato del mondo così annoiato, monotono, grigio. Smettere di crescere, rimanere piccolo, con la bocca sporca di cioccolato, i pantaloncini sopra il ginocchio,il cerotto colorato sul taglietto fatto mentre giocava al parco era il suo unico desiderio. Voleva prendere l’ingenuità e portarla via da quel mondo sempre più apparente e corrotto, farlocrollare giù come un vecchio muro di pietra, ridurlo in pezzi. Louis doveva scoppiare come le bolle di sapone, sparire nell’aria in un tripudio di colori, capire, iniziare a vivere.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
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leo rugens' stories 2012 ©
Disclaimer: Questa storia è stata scritta per mero diletto personale e per quello di chi vorrà leggerla.
Non si tenta in alcun modo di stravolgere il profilo dei caratteri noti.
Se copiate, giuro che vi prendo a sprangate.


Vorrei solo dire a tutte le shippers (Ziam, Larry, Klaine che siano) che le amo incondizionatamente.
E che l'amore non ha regole, almeno, secondo la logica umana.
Niente, smetto di fare la profonda e cercatemi sui social, su, sono nella bio del mio profilo! :)


Sun.


 
 
A tutti gli omofobici, alle anti shippers. a tutti quelli che credono che l'amore sia a senso unico.
A tutti quelli che non sanno vedere, sentire, amare.


 
They only left keys and chess.


Harry.

Stringeva forte il pugno, le nocche sbiancavano. Il vento, leggero, accarezzava la sua pelle. Pelle fredda, morta, piena di cicatrici, di macchie di inchiostro, che fino a qualche anno prima bruciava sotto il suo tocco, il sangue che ribolliva, i neuroni che riuscivano solo a pensare il suo nome. Lui era ovunque: nel suo stomaco, facendolo stringere per i troppi baci, la troppa dolcezza, nelle sue gambe, facendogli mancare l’equilibrio per la troppa foga nel togliere i vestiti, la troppa passione, nel suo cuore, facendolo battere a ritmi impossibili per i troppi sussurri concitati mentre erano impegnati a viversi, il troppo amore. Si sentiva sperduto in quella foresta fittizia che era il mondo, come se tutti indossassero delle maschere bianche inespressive, come se i corpi fossero cuciti con toppe di pregiudizio, come se il sangue fosse bianco, fosse odio. La luce non arrivava, il suo odore non lo svegliava la mattina, la sua mano sulla spalla: tutto svanito.
Harry aspettava, circondato dalle tenebre, il loro sguardo puntato addosso come se fosse la preda del leone, l’occhio del ciclone. La foresta si infittiva, la nebbia calava sempre più pesante, le maschere aumentavano, aumentavano, aumentavano.
La luce era sparita, Harry non si azzardava nemmeno a cercarla.
L’orgoglio è la peggiore paura, la consapevolezza di star perdendo tutto ma di non volerlo ammettere,  l’aspettare e il non veder arrivare, lo sperare negli altri e venirne delusi, di nuovo, il difetto che tutti ammettono ma che nessuno pensa di avere. È quella notte di metà luglio, dove hai bisogno della felpa pesante perché alle due ti congeli a guardare fuori.
Harry sperava di addormentarsi con le stelle e di non svegliarsi più, voleva vivere partendo dalla morte. Risalire il fiume al contrario, rivivendo la sua vita con lui, tornare bambino, quando piangeva per una sbucciatura sul ginocchio e non per uno squarcio sull’anima. Voleva guardare il mondo andare avanti;
spiare Niall che apriva la credenza e fregare alcuni biscotti di Liam per poi comprargli un pacchetto nuovo per i troppi sensi di colpa, guardare Zayn disegnare uno dei suoi soliti capolavori sui fogli degli spartiti di Niall per poi fare un ritratto di Demi e
buttarglielo sul letto sfatto a mo’ di scusa, seguire Liam che faceva l’ennesima, chilometrica twitcam dal computer portatile di Zayn, finirgli le ore sulla chiavetta per internet, rifornirlo di pastelli, pennelli, tele, libri per farsi perdonare.
Osservare sua mamma stendere i panni nel giardino dietro casa sua, a Holmes Chapel,
i capelli che le mulinavano intorno al viso, le mollette nella mano destra, l’odore di casa che aleggiava nell’aria, ascoltare Edward mentre componeva il suo ennesimo successo, desiderare di suonare la chitarra come lui, di colorare il mondo come solo lui e i suoi capelli rossi sapevano fare.
Crescere la piccola Lux, vederla diventare una bambina, una ragazza, una donna, leggerle negli occhi, per vedercisi impresso, per essere riuscito a lasciare un segno. Un Hally che aveva fatto qualcosa di buono per qualcuno, che non aveva combinato l’ennesimo danno, che aveva regalato un sorriso. Voleva smettere di essere un ingranaggio dell’orologio, voleva fermarsi, fermare il tempo, afferrare quella manciata di momenti che erano davvero valsi qualcosa nella sua vita. Smettere di pensare, pensare, pensare, di dire vorrei. Usare l’indicativo, essere certo di quello che fare, smetterla di volere. Voleva sparire.
Il vento soffiava fra l’erba, i rami degli alberi, i suoi capelli.
Le stelle iniziavano a spegnersi, il sole cominciava a fare capolino oltre le montagne.
Le unghie che graffiavano la pelle del petto lasciato scoperto dallo scollo della maglietta di cotone, gli occhi che brillavano di lacrime, stanchezza, solitudine, prigionia. Quello era Harry Styles: l’usignolo nella gabbia dorata, rinchiuso lì per esibirsi. Cantare finché aveva fiato, cantare perché in fondo sapeva fare solo quello, per chiedere aiuto, avere in cambio applausi, sorrisi, grida. Il non essere capito che lo portava a cantare più forte e riceveva fama, soldi, privilegi. Avrebbe voluto una misera chiave per aprire la gabbia e andarsene, una valigia di cartone stretta nella mano, i Rayban calcati sul naso, la suola delle Converse che faceva scricchiolare la ghiaia.
Le sbarre iniziavano ad essere strette, le ali sanguinavano. Ed eccola, la libertà.
Tiepida come il primo raggio di sole, unica come l’ultima stella della notte che si vedeva in cielo, bella come le sue braccia che lo stringevano forte.
Si strinse la vita come lui soleva fare, chiudendo gli occhi e immaginandolo forte.
L’azzurro dei suoi occhi venne preso dal cielo, il castano dei suoi capelli dalla corteccia dell’albero vicino, la voce dallo sciacquio del mare, il sorriso dal bianco degli scogli.
Sospirò, facendo un altro passo verso il dirupo, gli occhi ancora stretti, come se lui potesse scappargli dalla mente ei voltò verso il mondo, osservandolo bene per l’ultima volta. Spalancò piano le braccia, come fanno gli uccellini quando imparano a volare.
Il cielo accolse il verde dei suoi occhi per l’ultima volta, come se lui lo stesse guardando e fu  un attimo.
Harry rivide la sua vita in pochi secondi, le immagini negli occhi, i gesti nelle mani, i passi nei piedi, i sentimenti nel cuore. Sapeva che la gabbia era aperta e lui poteva finalmente volare via, via dal buio, dall’indifferenza, dai frammenti della sua anima.
Fu  una scarica d’adrenalina il salto che seguì e non sentì niente quando toccò il fondale roccioso del mare diversi minuti dopo. Harry volò via così: le braccia spalancate, l’azzurro impresso negli occhi, un “Louis” sulle labbra, una risata nelle orecchie, la libertà tanto agognata nell’anima.

Tutto quello che Harry lasciò fu una chiave arrugginita sulla scrivania di camera sua.
Per ricordare che la gabbia è dorata solo in apparenza e, in realtà, le sbarre sono piene di ruggine, graffiano, feriscono.
Puoi tentare tutte le chiavi che vuoi: solo la peggiore riuscirà ad aprirla.



Nel frattempo.


Louis.

Sfiorava delicatamente le foto dell’album, quasi avesse paura a toccarli, i ricordi. Come se svanissero in una nuvola di polvere, come se la carta lucida delle foto potesse sgretolarsi. Lo tormentavano ogni giorno, gli spaccavano il cuore, gli facevano ingoiare l’amaro delle lacrime. I ricordi che qualche anno prima non aveva, le sue fossette che comparivano appena i loro sguardi si incrociavano, il suo respiro contro la spalla la mattina quando si svegliava, la sua giacca sempre appoggiata sulla sedia della cucina.
Lo rivedeva in ogni cosa: nel telecomando della televisione quando non funzionava, perché quando quello faceva le bizze lui iniziava a batterlo nervosamente contro il palmo della mano o si alzava sbuffando dal divano e iniziava a cercare le pile di ricambio nel mobiletto del corridoio, nella sua tazza da tè preferita, perché quando lo vedeva nervoso andava in cucina e apriva una confezione di Twining mentre faceva scaldare l’acqua e improvvisava un qualche dolce da accompagnare alla bevanda, nel tubetto del dentifricio aperto sul mobile del bagno che lui richiudeva alzando gli occhi al cielo e borbottando della testa perennemente fra le nuvole che Louis si ritrovava. Si sentiva una barchetta di carta sul pelo dell’acqua, che galleggia finché rimane leggera. Iniziava, però, ad appesantirsi, ad avere troppe responsabilità: non le voleva. Sognava la corrente, arrivare al mare, ma tutto rimaneva lì. La barchetta desiderava con tutta sé stessa la calma, la profondità degli abissi. I pesi la trattenevano lì dov’era e iniziava a imbarcare acqua: stava affondando, e non c’era niente e nessuno che potesse aiutarla. Lasciava che il vento trinciasse le vele, che l’acqua distruggesse la carta, rimaneva lì, aspettando il mare, aspettando che il sale sciogliesse le sue responsabilità facendole diventare polvere, la corrente che l’avrebbe portata verso casa. Niente voce roca che gli sussurrava qualcosa la notte, niente Converse lasciate slacciate ai piedi del letto. Sperava, sperava che tutta quella massa d’acqua intorno a lui evaporasse, che la seconda stella a destra si accendesse, come fuoco, nel cielo. Louis non si muoveva, paziente.
La speranza è il peggior tipo di coraggio: il peggiore in quanto più spontaneo, incoerente e difficile da imparare. Di speranza, non ce n’è mai troppa, né troppo poca. Non è niente di certo, è qualcosa che ti spinge a desiderare. È quella notte di metà luglio in cui ti siedi sul balcone avvolto in una coperta e aspetti l’ennesima alba perché, tutti lo sanno,  l’ultima stella che si spegne prima dell’arrivo del Sole è Neverland. Louis la fissava, ardente, la voglia di volare sul pelo dell’acqua, di urlare dalla cima delle montagne, del vivere secondo le sue regole, voler esplorare il mondo da sopra le nuvole, fare scherzi alla gente.
Nascondere la chitarra di Niall per vedergliela cercare in preda al panico, le mani fra i capelli, il telefonino premuto contro l’orecchio, la risata di Luke che arrivava lontana, metallica, soffiare piano in faccia a Liam mentre si allenava in palestra, correva nel parco, parlargli della vita anche se sapeva che non lo poteva sentire. Rompere le punte delle matite di Zayn, stappargli le pagine dei troppi libri che leggeva, fargli capire che lui era ancora lì, a rompergli le palle.
Accarezzare la guancia di Lottie, consolarla per l’ennesima delusione avuta nella vita, stringerla forte, mormorarle quanto tenesse a lei, salutare Eleanor dalla finestra, ringraziarla per essergli stata vicina mentre lo vedeva innamorarsi di qualcun altro.
Si era stufato del mondo così annoiato, monotono, grigio. Smettere di crescere, rimanere piccolo, con la bocca sporca di cioccolato, i pantaloncini sopra il ginocchio,il cerotto colorato sul taglietto fatto mentre giocava al parco era il suo unico desiderio. Voleva prendere l’ingenuità e portarla via da quel mondo sempre più apparente e corrotto, farlocrollare giù come un vecchio muro di pietra, ridurlo in pezzi. Louis doveva scoppiare come le bolle di sapone, sparire nell’aria in un tripudio di colori, capire, iniziare a vivere.
La città iniziava a svegliarsi, l’odore di pioggia impregnava l’aria, il rumore delle macchine riempiva le orecchie, il sole iniziava pigramente ad alzarsi in cielo, le stelle a spegnersi. Una, due, cinque, ventiquattro.
Louis contava, aspettava. Era solo l’ennesima marionetta del teatrino, lo scacco che si muoveva sulle caselle nere ed era giunto il momento dello scacco matto: agli altri, alle responsabilità, alla vecchiezza dell’anima. Il momento di disarmare il mondo, farli finire nella tempesta di polvere. Le mani stringevano la ringhiera, il nero gli macchiava le dita di buio, di cattivo, di falso. Louis Tomlinson non era che un attore. Fingeva indifferenza,tentava di portare la maschera bianca ma non riusciva ad indossarla. Recitare per cercare di non ferirlo, di non ferirsi, con la conclusione di uccidere dentro entrambi, per sembrare forte, scoppiare in lacrime appena il sipario calava, ricevere complimenti, critiche positive, ammirazione di gente che non capiva che in quel momento si era messo a nudo davanti a loro. Lui si spogliava ancora di più, si lasciava leggere come un libro, ma era in una lingua che nessuno aveva ancora decifrato. In cambio aveva ruoli, spettacoli, compagnie teatrali prestigiose. Avrebbe voluto solo vincere la partita a scacchi, la forza di combattere, di andar via tenendogli la mano mentre camminavano per strada, un sorriso sulle labbra, i brividi sulla pelle, l’anima ricucita alla perfezione. La barchetta,oramai, si era disfatta, la carta affondava, le vele volavano via. Ed eccola, la forza, viva come Londra, armoniosa come una canzone, tranquilla come un fiume che scorre, delicata come i suoi baci.
Con la mano si sfiorò la clavicola, la guancia, il naso, la mascella e i segni che lui aveva lasciato riapparirono nella memoria di Louis, le palpebre serrate, i piedi saldi sulla ringhiera. Li riaprì, piano. Lui era nel verde delle foglie degli alberi del parco, nella maglia dei Pink Floyd appesa sullo stendino della casa di fronte, nell’odore del pane appena cotto che arrivava al suo naso. Alzò lo sguardo verso la stella, che in quel momento brillava più che mai e sorrise un sorriso vero. Peter Pan era tornato, Peter Pan volava via finalmente. Saltò nel vuoto, le gambe unite, le braccia aperte, pronto per decollare verso Neverland, la risata sulle labbra e nel cuore, un “Hazza” pensato con tutto sé stesso prima dello schianto finale, la forza che scorreva al posto del sangue.

Tutto quello Louis aveva lasciato era uno scacco sul tavolo di vetro dello studio.
I bianchi muovono sempre per primi, e la prima mossa è sempre la più difficile ma la battaglia deve essere vinta; devi sacrificare pezzi su pezzi, vederli sparire, non tornare più indietro.
Puoi tentare tutte le mosse che vuoi: alla fine devi fare scacco matto.

 
*****

Il primo banner della storia, fatto da Lena :)




 
  
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