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Autore: lubitina    01/12/2012    1 recensioni
Io, il senza nome, il Nessuno. Ho vissuto una vita strana, confusa. Ho inghiottito gli incubi, e gli incubi sono entrati in me. E mi hanno ucciso.
Questa è la mia storia. Abbiate pietà di me.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E' la prima lettera che scrivo. La indirizzo a te amico mio,e non mi aspetto una tua risposta,perché so che quando l'avrai finita di leggere,allora la mia vita sarà spirata via assieme alle sue parole. Ed è anche la prima volta che racconto di me,e voglio farlo con te,amico mio,perché sei l'unico che abbia mai avuto tra gli uomini. I miei ricordi son la cosa più preziosa che io possa donarti,e abbine cura,perché son l'ultima traccia di me che il mondo conserverà. E non voglio morire in silenzio,come un fiore che nasce e appassisce in un campo perduto,ma nella mia morte indegna voglio conservare l'onore che ho avuto in vita. So che se non immortalassi le mie facezie su carta,esse sparirebbero come la parola che smette di risuonare dopo pronunciata,e seppure le urlassi,ed implorassi Dio perché qualcuno mi ricordi,sarebbe inutile e vano,perché il mondo oblia e mescola tutto nella sua incessante cacofonia,e quel tutto va perduto. Ed è una cacofonia assordante quanto il silenzio della vecchiaia e della morte.
Temo l'oblio più della fine,perché si smette di esser vivi solamente quando anche l'ultimo uomo avrà dimenticato la memoria di sé. Temo il silenzio dell'ultimo sonno più della luce di quella Luna che forse non vedrò mai più.
Ti affido la mia anima stanca con i miei ricordi,e abbine cura,perché di me,come di te, rimarrà soltanto qualche riga d'inchiostro e un mucchio d'ossa secche,prima rose dai vermi,poi sbiancate dal sole degli infiniti mezzogiorni.
 
 

 
Ora ti parlerò della mia giovinezza,sperando di non annoiarti.
Nacqui un giorno non troppo lontano in quel paesino sperduto nel Sud,dove il sole splendeva tutto l'anno. Mia madre mi raccontò che avevo gli occhi aperti: e appena uscii dalla sua pancia,cacciai uno strillo,disse poi,quasi a suggellare la mia venuta al mondo. Le levatrici gridarono al miracolo,alla nascita di un nuovo futuro condottiero per il paese. Era  una primavera odorosa ed io un bambino roseo,dopo pochi mesi,con folti capelli neri.
Fui battezzato nella minuscola chiesa del paese,nella piccola piazza principale,e quando il prete mi immerse nell'acqua,reiterai l'urlo,tanto che le vecchiette in chiesa mormorano poi che ero nato con un diavolo dei campi di grano dentro,ucciso dall'acqua santa nel momento in cui urlai. Mia madre ne fu fiera,allorché la potenza dello Spirito Santo aveva sconfitto il male,e poteva star sicura che avrei avuto una coscienza retta,una volta cresciuto,e che non ci sarebbe stato mai più bisogno di un esorcismo. Nel paese si continuò a mormorare a lungo sulla mia nascita,mentre gli spettri dei diavoli dei campi di grano aleggiavano nelle notti umide.
Crebbi con quella diceria addosso,e quando passavo per le strade,ormai cresciuto,se aguzzavo l'orecchio potevo ancora ascoltare i mormorii soffusi del paese al mio passaggio.
 
Mia madre. Lei era una donna forte. Aveva 18 anni quando rimase incinta,di un uomo che non conosceva,e che le aveva strappato la fanciullezza in un granaio,durante una notte di calura estiva,una notte che lei sempre ricordò come un incubo. Era bella,mia madre,con lunghi capelli neri e la pelle chiarissima,gli occhi viola come i petali di un iris;ed era giovane,innocente,e di sicuro fascino,per i grezzi uomini dei campi di grano del sud. Aveva un carattere indomabile,mi raccontò mia nonna: era impossibile costringerla a far qualcosa,come era impossibile riuscire a far affievolire la fiamma metallica nei suoi occhi indaco,che non si spense mai neppure dopo la violenza.
Allora lei,povera e col ventre che sarebbe cresciuto,scelse di tenermi con sé,e non so se ringraziarla o meno,ora come ora. Ammirerò però fino alla mia morte il suo coraggio.
Non so se ebbe altri uomini dopo colui che fu il mio padre naturale,non me ne parlò mai né mai io venni a saper qualcosa a riguardo;nè tantomeno mai mi interessò,perchè chi usa violenza non è degno neppure di esser riconosciuto dagli altri figli di Dio come tale. So però,perchè è ciò che ho potuto toccare con mano,che lei si rimboccò le maniche e  aprì nello sperduto paese il primo e unico commercio di strumenti musicali,perchè sapeva suonare il pianoforte come se fosse Dio a muoverle le dita affusolate. Col tempo,seppi poi,l'attività si ingrandì,fino a poterci consentire un ottimo tenore di vita. Era una donna forte,mia madre. Una vera donna del sud.
“Sei indiavolato,figliolo mio. Sei nato indiavolato!”,diceva lei,quando una volta cresciuto,mi perdevo nel fare qualche marachella. Io non capivo,perchè il diavolo per me era un individuo rosso e lucido,con un forcone in mano,che si nascondeva nei campi di grano,come dicevano i vecchi,e uccideva le pecore succhiandone il sangue. I campi di grano dorati si perdevano a vista d'occhio,con le loro stradine nel mezzo,che conducevano a città lontane. Il vero diavolo,però,scoprii,non è quello che raccontano nelle leggende i vecchi: è quello che è dentro ogni essere umano,quello che dimora assieme all'angelo nella coscienza più intima,e che se prende il sopravvento divora da dentro,fino a far implodere la creatura,e distruggere tutto ciò che ha attorno.
 
 
Cominciai,un bel po' di anni dopo, a farmi i primi compagni di giochi,e ci divertivamo a legare col cappio al collo le lucertole,e portandole così,come cagnolini;facevamo le gare di corsa,finchè non eravamo stanchi e sudati,e questo lo ricorderai sicuramente,amico mio,perchè tu eri già con me.
E ricordo allora le giornate estive della mia infanzia: ricordavo la calura,il sudore che scendeva a goccioline lungo la schiena; la bellezza accecante del sole dell'alba,e l'amaranto del tramonto,che si specchiava nelle pozze lasciate per le strade polverose dai temporali;e i vecchi seduti nelle pozze d'ombra degli alberi di ciliegio,con i loro sigari in bocca e i loro occhi che narravano d'altri tempi. C'erano poi,in quelle strade polverose,gli altri bambini che giocavano,sporchi di terra,e le loro madri che urlavano dalle finestrelle delle casette schiarite dal sole,con quelle silenziose lucertole che si crogiolavano sulle pietre ai bordi. I moscerini che svolazzavano attorno a qualche fico caduto,il canto stanco di un uccello.
Ricordo le sieste interminabili,e ogni tanto qualche delicata melodia di pianoforte scuoteva il silenzio con le sue vibrazioni leggere ,quasi raffreddando l'aria bollente.
Io crebbi allora di pari passo con la musica,di cui mia madre è sempre stata la prima e unica vera maestra,tanto che tutt'ora la considero una Musa antica; lei mi insegnò i nomi delle note,mi fece scoprire le vibrazioni delle corde del pianoforte,alle 5 linee con i 4 spazi,e mi introdusse il mondo che all'interno di esse si poteva creare.
Mia madre mi aprì la mente,mi donò una sensibilità dolorosa.
Lei mi diede le chiavi per un mondo fatto solo di suoni,castelli di suoni,persone che possedevano corpo solo creato da vibrazioni;un mondo colorato dall'armonia. Fiumi interi che scorrevano in un unico sol,gocce di pioggia che cadevano tra re diesis e do. La struggente bellezza del sud, trasfigurata in musica dalla mia mente di bambino. Quello,quel luogo di fantasia,è l'unico mondo che,amico mio,posso sentire ancora mio,quando ascolto i canti degli uccelli tra gli alberi frondosi. Niente è più mio.
 
 
Le donne,poi,le donne! Le splendide donne della nostra patria,con i lunghi capelli corvini,e l'odore del fumo sulla pelle scurita dal sole;la voce arrochita dalle urla verso i figli,i mariti,e dai sigari sottratti a questi,e fumati di nascosto durante le segrete passeggiate tra comari.
Le donne amiche di mia madre,le donne con cui tutti noi avremmo poi perso la verginità,tronfi d'orgoglio come giovani galletti,appena scoperto ciò che è la vera droga di ogni uomo.  E qui ecco che appare l'unica donna che io abbia mai amato..si chiamava Sibilla,e aveva la pelle scura e brillanti occhi verdi,ed un mistero profondo attorno.
Un pomeriggio di primavera stavo andando dal prete. Sì,quel prete,con il potere dell'acqua santa; eppure amico mio,era la persona più colta del villaggio. Avevo trovato,in soffitta,lo spartito di una messa il cui coro era cantato in una lingua che non conoscevo,e che nessuno conosceva. E la cosa mi affascinava,mi affascinava molto.
 “Confutatis maledictis, flammis acribus addictis, voca me cum benedictis. Oro supplex et acclinis, cor contritum quasi cinis, gere curam mei finis”,scrissi su un foglio. Il cielo era terso,l'aria intrisa di profumo di viole.
La chiesa del mio paese natio era piccola,con l'aspetto di una capanna in muratura,che poteva crollare da un momento all'altro con le violente raffiche di vento che c'erano in inverno. Accanto c'era la casetta del prete,una piccola bicocca coperta d'edera verde,che quasi nascondeva la porticina. Bussai,e appena udii la risposa da dentro,entrai. La luce era poca,e tutto era immerso nella penombra. Ero elettrizzato.
“Ciao,ragazzino del diavolo.”- solevano chiamarmi così,come tu sai,i miei compaesani.
“Salve,signore.”,risposi io,dondolandomi sui talloni e nascondendo il foglio dietro la schiena. “Avrei da chiederle un favore.”
L'altro fece un cenno d'assenso,dall'abito talare nero,incrociando le dita sull'addome.
“Ecco,questo..-glielo porsi- Lei sa che mia madre è musicante,e ha ritrovato in un armadio all'interno della sagrestia, forse un segno dell'Altissimo, un antico spartito , il cui coro è cantato in una lingua che io non so comprendere,che a scuola non insegnano. “
Quello mi guardò con sguardo indecifrabile,uno sguardo che non sembrava dettato dagli occhi,ma da qualche sommovimento all'interno del suo animo,di cui le iridi azzurre sbiadite erano solo uno specchio. “ E' la lingua degli Antichi. Viene insegnata soltanto all'interno delle scuole dell'Ecclesia,e noi ministri di Dio in terra non possiamo rivelarla. Essa è la madre di tutte le lingue,e l'Ecclesia ne vietò l'insegnamento fin dal 2000. Tutti i libri che ne contenevano traccia furono bruciati.”
“Ma perchè?”- ero incuriosito,molto incuriosito.
“Il popolo che la parlava,come ora sto facendo io con te,adorava idoli sacrilegi,che l'Ecclesia scacciò fin dalla notte dei tempi della nostra civiltà. Però,circa un secolo fa,alcuni tornarono a dedicarsi a quelle false divinità blasfeme;allora l'Istituzione decise di intervenire,ed il nostro Sommo in persona guidò la crociata contro di esse,come nei tempi più antichi i nostri guerrieri recuperarono la Croce del Figlio in Terra Santa.-continuò a parlare,infervorato,e molte delle parole che pronunciò le compresi solo dopo molto tempo e dopo molte letture- Quella disgustosa setta fu abbattuta,tutti i loro sacerdoti furono uccisi. Non ne rimane traccia,e solo noi Ministri in Terra sappiamo in dettaglio ciò che accadde. Ora va'-e lì,l'uomo strizzò gli occhi,come se riemergesse da una visione,alzò il dito e indicò la porta- e dimentica ogni cosa che ho detto.”
Ricordo benissimo il volto dell'anziano uomo che mi battezzò,e mi tolse il diavolo dal corpo,mentre pronunciava quelle poche cose: sul suo viso le rughe apparivano assai più profonde,e aveva lo sguardo di un uomo sconfitto dal Tempo,e nei suoi occhi azzurri spenti e infossati si poteva leggere l'amarezza di possedere una conoscenza enorme,ma di non poterla condividere. Ero appena adolescente,ma potei comprendere e cogliere quell'animo anziano e tormentato,un animo che non credeva in ciò nel quale aveva consacrato la sua vita terrena,che piano piano veniva uccisa dall'apatia dell'inutilità. Ricordo tutt'ora a memoria quella breve conversazione,e un pensiero lieve mi attraversa la mente,ora come ieri.
L'ira di Dio,quando arriverà il Gran Giorno,sarà terribile.
 
Così,quella sera di primavera,avevo la mente occupata da fantasticherie riguardo quell'antica gente,così misteriosa,e così diversa da come appariva a me,durante la mia adolescenza,la gente che era attorno a me,e la gente della lontana capitale,di cui avevo solo sentito parlare dai mercanti che ogni tanto ritornavano dai loro lunghi viaggi. Ne ero così incuriosito,che pensai,che quando fossi tornato a casa,l'avrei sicuramente chiesto a mia madre,che per me era l'unica vera depositaria della conoscenza.
 
Tornavo a casa,attraversando la via principale del mio paese natio,quando sentii un urlo di donna,provenire da una casetta come le altre,affacciata sulla strada su cui mi trovavo. Ho sempre avuto troppa curiosità per ogni cosa che non riuscivo a spiegarmi nell'immediato in cui la avvertivo,e son sempre finito per infilarmi in cose che di certo non mi riguardavano.
Allora,bussai a quella porta,ed un occhio,un pezzo di naso,alcuni ciuffi di capelli,e una mano poggiata sul legno,apparvero. La figura poi apparve completa,da dietro la porta,e appoggiò vezzosamente una mano su un fianco,il sinistro,per la precisione. Indossava un semplice abito verde scuro,verde come i suoi occhi.
“Ciao,ragazzino del diavolo”.Ed io stetti zitto,zitto come qualunque uomo o donna che si trova davanti ad un qualcosa di meraviglioso,di inconcepibile,di lontano e di mitico,qualcosa che rimanda alle origini del genere umano e dei suoi potenti sommovimenti interiori. Bè,parlando povero,era una donna,ed era bella,il suo sguardo verde mi trafiggeva ogni istante,e ancora ora mi sovvengono parole sublimi al ricordo di quel momento. Ricordo che trattenni il respiro,e nel petto sentivo tamburellarmi il cuore come quando correvamo nei campi di grano,immaginando misteriosi diavoli cui sfuggire, e mi si stringeva lo stomaco,come se una mano forte l'avesse stritolato. Poi quella sensazione meravigliosa svanì,e mi giunse la coscienza di trovarmi di fronte ad un estraneo,donna o uomo che fosse,che aveva lanciato un urlo,che sapeva chi fossi,e che era tardi e che dovevo tornare a casa. E che ero piccolo,brutto,e ignorante,in confronto a tutti i ragazzi della mia età che sicuramente ora,nella capitale, bevevano vino in compagnia di donne bellissime,e chiacchieravano di argomenti che io neppure riuscivo ad immaginare.
Dovevo avere lo sguardo perso nel vuoto,e nelle visioni evocate da lei,perchè la giovane mi passò una mano di fronte agli occhi,e sorrise dolcemente. Quel sorriso,mi rimarrà impresso fino al momento in cui non ricorderò neppure qual'è il mio nome.
 
Allora lei mi sorrise,e ne abbozzai uno anche io.
“Ciao.. Ho sentito un urlo,e allora son venuto a controllare che tutto vada bene.”
“Sì,grazie.. Mi era solo caduta una teiera intera su di una mano”, fece lei,alzando una mano,che effettivamente era molto molto rossa.
“Oh,allora scusa l'intrusione”,risposi io mentre il rosso mi prendeva le guance. Mi sembrò fin da subito di parlare con un'amica stretta.
“No,ma non preoccuparti,ragazzino..”,accennò un sorriso,”Vuoi entrare?”
Accettai con un sorriso smorzato dal ritegno che ancora mi rimaneva.
Entrammo in casa,piccola ma accogliente e un lieve profumo di viole aleggiava nell'aria,ma non trovai da dove provenisse. L'interno era di legno,e lei mi fece accomodare su una sedia della piccola cucina. Ricordo i battiti martellanti del mio cuore,e il sorriso ancora mi nasce al pensiero.
“Torno subito”,disse,sparendo in un'altra stanza. Notai che aveva un accento strano,che non avevo mai sentito da nessun straniero.
Tornò poco dopo,tenendo in mano una piccola bottiglia,da cui proveniva un profumo che non conoscevo,piena di un qualche liquido.
Lei,sorridendo ma in silenzio,ne versò un po' in un piccolo bicchiere posato davanti a me. Profumava di miele.
Lei,senza una parola,se ne versò un goccio,e bevve dolcemente. Teneva gli occhi,verdi,verdi come l'erba dei campi di grano in inverno,fissi nei miei. Io mandai giù in un sol sorso,ed il sapore era buono,buonissimo. Me ne versò ancora,e ancora,ed io bevevo.
Poi,iniziò a girarmi la testa,e sentii la sua voce narrare una storia.
 
E' inutile,amico mio,che io ora ti narri per filo e per segno quello che Sibilla mi raccontò: lo ricordo come un vago sogno,poco netto e che presto sparisce.
Disse di provenire da molto lontano, da una terra al di là del mare,dove non batteva mai il Sole,il cielo era sempre ricoperto da nuvole grigie e il terreno da neve gelida che si scioglieva solo dove spuntavano stenti alberi grigi; disse di esser fuggita da quel luogo,con complessi stratagemmi,perchè era conscia che la sua anima non vi apparteneva. Lei amava il Sole,diceva,e vivere il presente. Disprezzava il suo popolo,creature grigie e dagli animi antichi,così antichi che quella terra,mi raccontò, non era mai mutata dall'inizio dei tempi. Era situata a nord,al di là del mare e delle montagne più alte, e l'oceano oscuro lambiva le sue coste. Lei era salita sulla prima barca che era diretta a sud,ed era impazzita di gioia quando,salendo sul ponte,aveva visto la luce piena e calda del Sole rifrangersi sul mare. Era poi scesa nel porto più vicino alla capitale,portando con sé la sua arte,la sua conoscenza e,cosa più importante,il suo dono: disse di saper legger nel futuro,come tutte le donne della sua razza. Fece un sorriso amaro,un sorriso che compresi venire da molto lontano ed essere molto più vecchio di quanto il suo volto non mostrasse.
Tutt'attorno a noi aleggiava un profumo di viole,misto a quello del miele.
“Ora sai la mia storia,ragazzino del diavolo,ma non ti ho raccontato un'ultima cosa: la mia terra è solo leggenda per voi del Regno Interno. Il vostro re,o quel che dice d'essere, impedisce qualunque contatto. Siamo pericolosi,dice. Noi Kymmeri siamo pericolosi,-rise amaro-eppure noi vediamo nel futuro,e i nostri antenati son vicini a noi,mentre la vostra Ecclesia non va oltre uno sciocco libro,in un popolo che non sa nulla di sé. Odio la mia gente,ma ne faccio profondamente parte. Ah,chiamami Sibilla. E prendi questo.” Mi colpì profondamente il suo modo aulico di parlare,cosa che io ho preso da lei.
La ragazza-o donna,chissà quanti anni aveva realmente?- mi porse un libro dalle pagine ingiallite,antiche. Lessi l'anno di stampa, 1994,ed il titolo, Odissea.
“Parla di un uomo e della sua vita,un libro che ho trovato tanto tempo fa,che descrive il mondo fuori dall'Ecclesia. Leggilo,ti piacerà.”
“Sì,lo leggerò,Sibilla..Hai uno strano nome.”
“E' tipico della mia gente. Nella vostra lingua antica significava 'manifestazione degli dei',sai?”
 
Continuai a vedere Sibilla,e avvenne ciò che era scontato fin dall'inizio,ma che io non potevo immaginare di certo: me ne innamorai. Passarono i mesi e persi completamente la ragione per lei,come lo si può fare soltanto per il primo amore,quello per cui si passano le notti a scriver poesie,e a comporre sonate di violino. Solo per lei.
E lei divenne il più grande mistero della prima parte della mia vita. Era nata in quel regno lontano del nord, la Cimmeria,come mi disse quel giorno in cui ci conoscemmo,in cui abitavano creature come lei. Si dilettavano con quella bevanda mielata, che seppi poi chiamarsi idromele. Miele e vino. Essi erano eternamente giovani;giovani,ma soltanto fino alla loro morte. Vivevano più di due volte un uomo normale,e infatti Sibilla aveva 35 anni quella sera di primavera. Ma più importante d'ogni altri cosa,i Kymmeri sapevano legger nel futuro. Lo sapeva anche Odisseo,e li odiava.
 
Ed io non ero che un bambino cresciuto troppo in fretta,e tenevo per mano la più bella donna del mio paesino. Tutti i ragazzi mi guardavano ammirati.
E le vecchie con i loro sussurri non si davan pace al mio baldanzoso passaggio. Ricordi,amico mio?
  
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