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Autore: RaspberryLad    02/12/2012    2 recensioni
E' più facile cambiare o dire di farlo? Søren non lo sa, ma, grazie ad un amico, una girandola e una bottiglia di birra, sa che lo scoprirà, prima o poi. Dovessero anche passare anni.
[Partecipante al Worldwide contest indetto da Yuki_, in attesa di giudizio]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore:  RaspberryLad
Titolo: Flying
Paese scelto: Danimarca
Fandom/Originale/RPF: Originale
Tipologia: One-shot
Rating: Giallo
Genere: Introspettivo, Generale
Avvertimenti: Slash, linguaggio un po’ colorito
Introduzione: Dire di cambiare sembra molto facile, cambiare davvero no. Ma S
øren vivrà sulla sua pelle quanto ciò sia falso e solo un’apparenza, complici un buon amico, una girandola e una bottiglia di birra.
NdA: A fine capitolo.

 

 

Flying

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Layers of dust and yesterdays

Shadows fading in the haze of what I couldn’t say

And though I said my hands were tied

Times have changed and now I find I’m free for the first time

Feel so close everything now

Strange how life makes sense in time now.

– Flying, Anathema –

 

 

 

Sometimes I feel like throwing my hands up in the air

I know I can count on you.

– You’ve Got The Love, Florence + The Machine –

 

 

 

 

 

Io ed Emil siamo amici da tanti anni. Nella nostra amata København1 non è necessariamente facile conoscersi, neanche tra coetanei: vedi te, in una città popolosa come la nostra. Nonostante ciò, abbiamo avuto la fortuna di conoscerci già al børnehave2 e a creare un legame molto forte. È stata una vera e propria fortuna conoscerlo: nonostante abitassimo nello stesso quartiere, non era detto che ci saremmo conosciuti. Se non ci fosse stato già il nostro legame, avremmo rischiato di non vederci mai, visto che, crescendo, siamo diventati molto diversi. Lui è il classico secchione che ha sempre preferito star da solo (o con me) a leggere libri piuttosto che uscire e andare in un pub con qualche compagno. Ha amici, ovviamente, ma sono molto simili a lui – per il famoso criterio del chi va con lo zoppo impara a zoppicare – tanto che, circa una volta a settimana, si chiudono in casa a fare una partita a Risiko! Che stress.

Tanto lui non ama la vita mondana, tanto io ci sguazzo dentro. Non sono mai stato uno preciso e organizzato come lui, molto spesso il cervello me lo dimentico spento. Potrei definirmi un artista: se c’è un’arte creativa, si può essere certi che mi piaccia o che la pratichi. Mi piace l’arte, mi piace la musica, che sia classica o moderna, pop o rock, elettronica o metal, che differenza fa! E sono sempre stato un animale da compagnia. È difficile vedermi da solo a leggere, a meno che non sia a casa, o con Emil, appunto. Per la scuola mi fermo ovunque a chiacchierare con qualcuno, alla fin fine mi basta poco per conoscere gente. Non trovo, però, tutte le persone stimolanti, anzi. Forse è anche per questo che gli voglio così bene, perché è lui a stimolarmi.

Ricordo ancora quando ho iniziato a suonare il basso, avevo dodici o tredici anni e avevo iniziato ad ascoltare assiduamente rock. Diciamo che ero entrato nella mia fase da adolescente “devo distinguermi da chiunque ho intorno”, benché possa sembrare prematuro. Emil anche è un buon ascoltatore di musica, lo concentra e lo rilassa, ma forse questo anche per merito mio, detto col senno del poi. Gli avevo raccontato di come mi piacesse il basso, di come  mi sembrasse che desse il ritmo, ben più della batteria, di come riempisse il suono. Tra l’altro, il basso è uno degli strumenti meno suonati, forse è reputato troppo di nicchia. Lui, candidamente, mentre leggeva Guerra e Pace – ecco, io a dodici anni non ci sarei riuscito, e in realtà non ce la farei neanche ora! – mi disse, candidamente: – Beh, se lo reputi tanto interessante, perché non lo inizi a suonare?

Ecco, forse il ruolo di Emil nella mia vita è sempre stato quello di mettere ordine alle mie idee. Il mio, invece, era scombinare i suoi piani. L’estate scorsa, ho preparato a sua insaputa un weekend a Stoccolma, solo io e lui. Lui si era fatto un piano di letture e ascolti musicali per una recensione – è redattore in una webzine, tra le altre cose, ed è bravissimo, ha proprio un senso critico mostruosamente preciso, ma non ci si poteva aspettare niente di diverso – ma lo tirai fuori dalla sua stanza, gli preparai una valigia davanti al suo viso perplesso e lo portai a prendere l’aereo. Tra l’altro, ricordo ancora il dialogo con la madre, una donna rude e forte, ma solo all’apparenza, visto come passasse sopra ai miei colpi di matto. La signora Stefansson era in cucina, intenta a preparare il Røgrod, per cucinarci una torta – mi sono sentito anche discretamente in colpa, in quel momento – quando ci sentì scendere le scale con una certa fretta. Si affacciò sul corridoio e ci chiese: – Emilchen, Søren, dove state andando? Quando tornate?

På søndag! Andiamo a Stoccolma!

Uscimmo così, davanti al viso esterrefatto della signora Stefansson, e iniziammo a correre verso la stazione, per prendere il treno per l’aeroporto. Appena seduti su quello, scoppiammo a ridere come due ragazzini, come se fossimo ancora stati ai tempi in cui avevo iniziato a suonare il basso. Tra l’altro, Stine non la prese per niente bene: al figlio disse poco, ma più perché mi presi tutta la responsabilità della situazione. Aveva ragione, forse avevo esagerato, ma la felicità che avevo provato quei due giorni assieme al mio migliore amico era indefinibile.

Tante volte siamo stati scambiati per fidanzatini. Emil è sempre stato un ragazzo timido o comunque poco propenso allo scherzo, ma quando si trattava di me, iniziava a parlarmi con una lingua biforcuta per prendermi in giro, al che io iniziavo a rispondere a tono e cominciavamo a spintonarci e a sfotterci. La sua metamorfosi in mia presenza incuriosiva tutti, a scuola, ma sembrava strana addirittura a me, pur conoscendolo molto bene. Probabilmente aveva solo bisogno di tanto tempo per sciogliersi e con me aveva superato la fase di timidezza e riserbo. Persino la signora Stefansson si domandava se stessimo insieme o se avessimo fatto sesso, ma non aveva capito che Emil era, anzi è, completamente eterosessuale e che il nostro rapporto poteva anche essere d’amore, sì, ma puramente fraterno. Avevamo fatto qualcosa – seghe in coppia, sostanzialmente – ma più per curiosità che per attrazione, e comunque non c’eravamo spinti oltre. Persino io, che a differenza sua apprezzo i maschi e molto, non riuscivo a trovare la cosa eccitante. Cioè, eccitava, ma solo dal punto di vista dell’adrenalina, per aver fatto qualcosa di molto intimo insieme, ma non era qualcosa che mi arrapasse, detto in termini spiccioli. Non sarei mai riuscito a farci qualcosa in più, neanche se lui mi avesse chiesto di provare.

A tal proposito, era la mia spalla ed io la sua. È stato con due o tre ragazze col mio aiuto, mentre lo rendevo interessante – come se non lo fosse già stato di suo! – agli occhi della lei del caso, e lui aveva necessariamente voluto ricambiare, cercando di trovarmi un ragazzo. Era divertentissimo, perché lui cercava di tastare il terreno per me e una o due volte si ritrovò i ragazzi che provava a rimorchiarmi – sicuramente uno alla festa di Linda dell’anno scorso, un altro al mare l’estate prima – che invece erano ben più interessati a lui. E non gli avrei mai dato torto, visto il suo metro e ottanta e il suo aspetto così terribilmente danese, ma con i capelli neri. Un figo, non penso ci sarebbe altro termine per definirlo. Gli occhiali, tra l’altro, lo rendevano più gnocco, neanche fosse una segretaria. O un nerd. Tra l’altro, con il tizio alla festa di Linda, ci pomiciò pure, senza ritegno. Forse non era così tanto etero, ma era un puro e semplice dettaglio.

Con tutto il piacere che mi facesse il suo aiuto per trovarmi un tipo, però, mi è stato senza dubbio più d’aiuto quando finivano per mollarmi. È successo varie volte, prima con quell’altro Emil tre anni fa, poi con Oliver qualche mese dopo, poi con Mikkel. Ma soprattutto con Mathias, pochi giorni fa.

 

 

 

 

 

 

Definirmi di pessimo umore era un puro e semplice eufemismo. Non sono mai stato uno troppo fortunato in amore, diciamo anche che la mia vita sentimentale è sempre andata uno schifo. La colpa è anche mia, ma non perché penso di richiedere troppo, a livello di attenzioni e tutto. Boh, sembro diventare insopportabile, senza volerlo; che poi, a dirla tutta, neanche mi sembra di esserlo. Forse sono poco interessante, forse sono uno che dà troppo – o troppo poco ­– ma sicuramente non so qual è il problema. Il fatto è che me la prendo regolarmente in quel posto – e non come vorrei – e tutto ciò mi frustra, anche perché non riesco a capire cosa io faccia di preciso, per ritrovarmi in una situazione del genere. Dopo tre storie serie finite a donne di facili costumi, dopo un arco di tempo simile (qualche mese, otto o nove) tra l’altro, è anche normale che inizi a pormi delle domande. Con Mathias sembrava andare diversamente, e ritrovarmi punto e daccapo mi ha massacrato, senza mezzi termini. Eravamo a pranzo fuori, in un ristorante, avevamo deciso di uscire per festeggiare assieme il suo primo esame all’università, ma era strano, avevo quasi pensato non si sentisse appagato. Cercai di fargli discretamente – a modo mio – compagnia, senza chiedergli cosa lo affliggesse. Avevo imparato con Emil che non si possono costringere le persone a dire ciò che non vogliono e che conviene aspettare che sia l’altro a confidarsi. Troppe volte avevo fatto quest’errore, e, infatti, con Oliver c’eravamo lasciati per la mia troppa insistenza – che aveva preso per gelosia, peraltro – tanto che avevo deciso di dare più spazio.

Effettivamente, poi, mi ha detto qual era il motivo per cui era nervoso: me. Mi ha mollato appena prima di pagare il conto – ed io son convinto che l’avesse fatto per pagare separatamente, ma sono io malfidato – dicendomi che si era innamorato di un quattordicenne e che, per non farmi soffrire, aveva deciso di lasciarmi. Non ho chiesto niente: se fosse gay, se ci stava (il tipo), quanto tempo era che ci pensasse. Niente, non ho avuto il coraggio di chiedere niente, o, comunque, non avevo la voglia di farlo. Non importavano i se e i ma, l’unica cosa importante era che mi stava mollando. Sembrava proprio che non fossi interessante, anche Mikkel mi aveva lasciato per la stessa motivazione, e so anche per certo che col tizio ci stava già scopando, ma meglio non pensarci. Io e Mathias ci siamo salutati là: lui era imbarazzatissimo, cercava di non guardarmi – non riuscendoci – e preferiva non parlare. Mi ha detto che era meglio se non ci fossimo visti per un po’ – ma dai! Non ci sarei mai arrivato senza che tu me lo dicessi! – e che mi augurava di essere felice. Ha avuto la decenza di non darmi un bacio d’addio, ma penso che così facendo non abbia aiutato me a sfogare quello che sentivo. Forse aveva paura, non so, ma non m’interessa nemmeno. Sono tornato a casa, son riuscito a evitare gli sguardi di mia madre, che altrimenti mi avrebbe sicuramente chiesto cosa fosse successo, almeno a giudicare dal mio aspetto allucinato allo specchio. Mi misi a studiare, tutto con apparente tranquillità. Sapevo bene, però, che era tutta apparenza e che fosse dovuto più al trauma – visto che il cambiamento sembrava essere avvenuto da un giorno all’altro – piuttosto che reale indifferenza. Lo capii quando, finito di studiare, mi ritrovai a osservare il soffitto della mia stanza, che avevo dipinto con mio padre di celeste, visto che in bianco mi metteva troppa ansia. Era un momento troppo riflessivo per essere normale, penso che avessi lo sguardo vacuo e sono sicuro che la mia testa si rifiutasse di pensare. Sentivo solo le lancette dell’orologio muoversi, per il resto non sentivo rumori, né provavo sensazioni. Mi sembrava di essere in trance, e il pensiero – successivo, in realtà – che fosse per un ragazzo mi spaventava da morire, perché voleva dire che mi stavo annullando o che, peggio, provavo sentimenti solo in funzione di qualcuno. Per dire, sentirsi in trance per una canna o aver bevuto – un po’ – troppo era normale e anche plausibile, ma il pensiero che fosse per un altro individuo in quanto fosse lui era parecchio inquietante. Il mio tentativo di reazione fu blando, va detto: mi misi a suonare Without You I’m Nothing dei Placebo al basso, tanto per essere un po’  più felici. Per carità, bellissima canzone, ma non era proprio il massimo per l’occasione, no. Anche se, effettivamente, meglio triste che catatonico, anche cercare di uscire dall’impasse nel male è una forma di reazione, d’altro canto.

Le note scorrevano, la stavo ormai quasi suonando meccanicamente, e le parole mi s’imprimevano in testa. You never see the lonely me at all. I, take your plan, spin it sideways. Neanche mi accorsi, quasi, di essere scoppiato a piangere, e più suonavo, più piangevo. Non mi sentii meglio, ma senza dubbio mi accorsi di essere di nuovo in me.

 

 

 

 

Ho sentito cosa suonavi prima. Alle sette vieni a casa mia e non tollero rifiuti. E.

 

 

 

 

Non so come Emil abbia fatto a capire che stessi male. O meglio, non so come abbia sentito che suonavo Without You I’m Nothing, visto che ero certo che non fosse in casa in quel momento. Forse si era accorto che non avevo passato il pomeriggio a provocarlo e a disturbarlo e che tutto ciò non significasse niente di buono. O forse era solo empatico nei miei confronti, e in tal caso mi preoccupava farlo star male. Capii che non ci fosse alcuna possibilità di scampare all’invito ­– bel coraggio a chiamarlo in quel modo, ma vabbè, a questo punto poteva direttamente puntarmi una pistola alla tempia – di Emil, anche perché sapeva essere molto ostinato. Volendo anche metterla su un piano di coppia – noncipensare – lui non sapeva coprire il mio ruolo di cazzone così facilmente. O, ancora meglio, non voleva vedermi in un ruolo che non era il mio e che non mi si addicesse.

Mi feci forza e mi preparai a uscire, con mio grande disappunto. Uscire di casa voleva dire notare come non cambia il mondo perché due persone si lasciano. Lo so, è un pensiero terribilmente deprimente e anche immaturo, volendo, ma in quel momento, mollato per la quarta volta in relativamente poco tempo, e con la stessa scusa, uno deve porsi qualche domanda e cercare di cambiare. Vedere tutto uguale a come lo si è lasciato non aiuta, perché ti fa credere che il problema sia fuori, non dentro di te, oppure che tutto ciò che fai sia inutile, tanto da indurti a non far nulla e a non sprecare energia. Per esperienza personale, l’immobilismo non aiuta. Mai.

Il giorno era il 12 dicembre 2011, per cui faceva parecchio freddo. In Danimarca fa sempre freddo, più che in Germania, ma basta farci l’abitudine e non c’è problema. Scendo ogni estate in Germania, da dei cugini di mia madre che abitano vicino ad Ansbach, ché lei dice che è necessario che io sappia il tedesco,  perché “senza lingue non si va da nessuna parte”. Bellissimo, ma sotto costrizione io non riesco a fare le cose, perché mi annoio, m’innervosisco. Forse sono un po’ limitato, è vero, però non è niente che non si possa cambiare. Lì, pur essendo comunque in mezzo al continente, fa più caldo e tira molto meno vento. Io non sto tranquillo quando qui in città, soprattutto sul lungomare, indosso un cappello, per il terrore di vederlo volare via con una folata più forte. M’infilai le scarpe, mi chiusi il cappotto e uscii, diretto dal mio amico, che speravo non avrebbe fatto domande precise, poiché il dover rispondere seccamente sarebbe potuto essere non facile, né soprattutto divertente. Mi sfregai le mani: avevo dimenticato i guanti proprio a casa sua il giorno prima ed era una bella scusa per andare a recuperarli. Ero un po’ in anticipo, però, troppo preso dai pensieri per poter aspettare seduto sul letto – e magari rischiare di arrivare in ritardo senza accorgermi dell’ora. Decisi di fare un giro sull’Amager Strandvej3, a osservare un po’ se ci fosse gente. In realtà ne trovai davvero poca: per la maggior parte si trattava di studenti universitari intenti ad andare, in gruppo, a casa di qualcuno di loro. C’è anche da dire che fosse un po’ tardi per girare, considerando che tante persone, magari, stavano ancora cenando.4 Mi sedetti su una panchina sotto ad un tiglio – spoglio ­– ad osservare le poche biciclette passare, come se fossi in attesa di qualcosa di non ben definito. Col senno di poi, mi viene da dire che fossi una sorta di riproduzione di Waiting for Godot di Beckett, visto che attendevo così, senza neanche troppo senso e senza voglia, stavo aspettando giusto per aspettare. Quando mi accorsi che era forse ora di alzarsi e di andare da Emil – prima che chiamasse, nell’ordine, un investigatore privato, la polizia e un’ambulanza, che ci sta sempre bene – mi incamminai per Italiensvej, costeggiando tante case di mattoni, così simili l’una all’altra. Poteva quasi sembrare un’illusione ottica, poteva sembrare quasi infinita la strada…

Søren, ti sei bevuto il cervello? Ma ti rendi conto di come stai pensando? Te ne rendi conto? Non sembri neanche tu. Dov’è finito il cazzone che fa casino? Questo tipo riflessivo non sei tu. Questo non è riflettere, è subire passivamente la vita. Sveglia!

 

Ci mancava solo la mia coscienza a farmi la predica.

In tutta quell’atmosfera fatta di mattoni, arrivò quasi dal nulla – chissà quanto tempo è passato, mentre ascoltavo la mia coscienza – un ragazzo. Portava in mano una maschera di un coniglio, aveva una bombetta e una camicia in tartan e camminava a velocità sostenuta. Non so il perché ma lo seguì da lontano. Il cielo ormai era buio e l’atmosfera era rischiarata semplicemente dai lampioni e dalle lampade accanto agli ingressi delle case. Lo sentivo canticchiare una canzone, mi accorsi di riconoscerla ma non mi veniva il titolo. Non so, era piacevole che qualcosa riuscisse a fermare quell’immobilismo che traspariva dalla via deserta. Mi misi a cercare, a testa bassa, la canzone sul mio mp3, continuando a camminare. Dopo qualche minuto la trovai, era Eyes on Fire dei Blue Foundation. Me la ricordavo bene, mi era stata consigliata da Emil un pomeriggio di qualche mese fa, anzi, forse anche di più, ma comunque appena dopo che mi aveva mollato Mikkel. Ero di pessimo umore ed Emil, dopo il mio rifiuto di parlare, aveva cercato questa canzone su Youtube per farmela passare, andando, nel frattempo, in salotto ad aspettarmi per quando avrei – testuali parole – “finito di fare il coglione”. La finezza, insomma.

 

And just in time

In the right place

Suddenly I will play my ace.

 

Ricordo che, dopo averla sentita, mi alzai per andare da Emil a chiedergli scusa, con una domanda in mente: quando?

Quand’è che avrei dimostrato di non essere veramente quello che traspariva da me stesso? Come far capire il mio tentativo di essere migliore, una persona diversa? Come fare a spiegare di saperlo essere? Non lo sapevo allora, e dico la verità, non lo so tutt’ora. Però può essere presa come speranza, no?

Rialzai gli occhi, ma non rividi più il ragazzo. Probabilmente era ormai scappato via, o forse era entrato dentro una delle case. Poco male, mancava ormai poco per arrivare da Emil. Sperai vivamente che non avesse avvertito la madre che ero di cattivo umore o sarebbe stata la fine. Mi avrebbe fermato con tè, biscotti, chiacchiere da tavola e altre cose che, per carità, carine, piacevoli, la signora Stefansson era gentilissima, ma erano leggermente fuori luogo in quel momento. Arrivato lì davanti, suonai, guardandomi intorno, ed ero finalmente più tranquillo. Forse era la compagnia in arrivo a mettermi di buon umore? Boh. Mi aprì proprio la signora Stefansson, tra l’altro.

– Caro, ben arrivato? Vuoi un tè? Dei biscotti? Dimmi pure!

Appunto.

Fortunatamente, prima che potessi aprire bocca, arrivò il mio amico a salvarmi.

– Mamma, lascia stare, Søren deve venire con me. Non venire a portare tè o biscotti che andiamo in balcone, ok? Grazie. – Emil mi afferrò per un braccio e mi trascinò su per le scale, incurante dell’occhiata sbigottita della madre. Era troppo strano anche per i miei gusti, mai era stato così attivo.

Mi trascinò in balcone e m’indicò la sedia, in attesa di parlare. C’erano due birre sul tavolo e le luci erano rigorosamente spente. Speravo di aver un po’ di calore, ma evidentemente…

– Perché non dentro? – gli chiesi, sedendomi comunque. Immaginavo la risposta, e comunque mi aspettavo che non mi sarebbe stato a sentire.

– Perché va meglio così. – fu la laconica risposta. Sembrava quasi alterato, e anche questa era una novità.

– Come hai fatto a sentirmi?

– Passavo sotto casa tua, semplicemente. – sbuffò, prima di sedersi anche lui, di fronte a me. Aprì anche le birre per darci una lunga sorsata. – Ed io lo so che significa. Mathias ti ha mollato.

Brutale. In ogni caso, tacqui.

– Perché non me l’hai detto? Perché sei stato una giornata a macerarti? E a cosa hai pensato? – continuò, avvicinando la sedia a me e sedendosi accanto. Potevo sentire la sua gamba destra contro la mia.

Sbuffai. – Ho pensato al fatto di essere sbagliato.

– E che non lo sapevo? – si alzò e iniziò a camminare sul balcone con la birra in mano, cercando di trovare – palesemente – il modo più adatto per esprimersi. – Søren, mi spieghi perché continui a farti del male così? Perché cerchi di trovare negli altri quello che non credi di trovare in te? Me lo spieghi?

– Credi? – riuscii solo a replicare.

– Sì, credi. Tu credi di essere sbagliato quando, cazzo, non lo sei.

Si avvicinò a me, mi prese il viso tra le mani perché lo guardassi dritto negli occhi. Soffriva e tanto, per come stavo, ed era l’ultima cosa che avrei voluto vedere. Lo invitai a sedersi di nuovo e gli presi una mano, per farlo calmare. Era fuori di sé e si vedeva. Voleva vedermi felice, e il fatto che a renderlo furioso fossi io, mi faceva vergognare come un cane.

– Sarà vero. Ma perché allora vengo mollato tutte le volte per lo stesso motivo? Perché?

– Sai, caro, non tutti vedono i cambiamenti, anche perché cambiare, non è radicale, ma è un pezzettino che si aggiunge ogni singolo giorno, e per lo più senza che si veda. Dire che si cambia è facile, a posteriori, ma durante si sembra sempre gli stessi. Un giorno ti accorgerai che non sei la stessa persona che eri prima, e che neanche oggi sei la stessa persona che eri ancora prima. Si cresce anche in questo. Sai perché si dice che niente è per sempre?

– For… – cercai di intromettermi, ma lui proseguì imperterrito. Ma che bravo, mi sta facendo la predica a monologo.

– Perché nella vita qualcosa cambia, che lo si voglia o meno. Che accada a noi, o ad altri. Se qualcosa potesse rimanere davvero immobile, potremmo immaginare che esista anche il moto perpetuo in natura, no? Ma si sa che non è possibile, ergo è sempre possibile che si cambi.

– Interessante. – borbottai, non perché non fossi convinto, ma perché sembrava un… cattedratico, ecco la parola più giusta. Quando aveva i suoi attacchi da saccentone, lo ammetto, m’innervosiva abbastanza. Però non erano atteggiamenti che potessero rompere il nostro rapporto, anche perché era raro, e quando lo faceva, era tendenzialmente perché era molto infervorato. Se era infervorato, era qualcosa cui teneva. E in quel caso si parlava di me. Lo perdonai prima ancora di rendermi conto che mi stava innervosendo, quasi quasi. – Lo so che si può cambiare, ma non è detto che si cambi in tutto. Ci sono cose in movimento e altre stazionarie, no?

– Vero, ma è anche vero che può sembrare che siano ferme. È tutta percezione. Magari ciò che sembra stia cambiando non lo sta facendo. Ti faccio un esempio: hai presente le girandole? – mi disse, indicandone una che avevamo messo insieme su quel balcone.

– Certo, ne ho una davanti agli occhi! – ridacchiai, avvicinandomi a essa.

– Ti sei mai accorto che si muovono, anche senza che tu percepisca vento? Beh, è un po’ come con gli esseri umani. I veri cambiamenti non si percepiscono, non si comprendono. Un po’ come la Rivoluzione Francese. – ancora con questo atteggiamento da professore. Terrificante.

– Stai divagando. Ancora. – gli risposi, appoggiandomi alla ringhiera del balcone.

– Voglio dire che deve solo arrivare qualcuno che ti scopra e che ti faccia capire che non sei quello che pensi di essere, e che magari, addirittura, non lo sei mai stato. Tutto qui. – si avvicinò a me, appoggiandosi, ancora con la birra in mano, alla ringhiera. – Ci vuole calma. Punto. Anche se mi dispiacerà, quando qualcuno ti scoprirà, perché vorrà dire che non sono l’unico a sapere la persona speciale che sei.

Non l’aveva detto davvero.

– Cosa?

– Sei speciale, Søren. E ne sono fermamente convinto, solo tu non te ne rendi conto.

Mi porse la mia birra, brindammo e ci mettemmo a bere. Fu quella sera che capii davvero che lui credeva in me. Fu sempre quella sera che capii fin nel profondo che la nostra vita sarebbe proseguita insieme, ovunque saremmo andati. Ma fu solo una sera di pochi anni dopo quella in cui capii che aveva ragione, cazzo, se aveva ragione. Non potevo capirlo in quel momento: non quando ancora ero un liceale, non prima di vivere da solo – con lui – e sicuramente, non prima di aver accettato che stare con una persona può far male, chiunque essa sia. Ed era questo il messaggio che Emil, il mio Emil, mi stava lasciando in quel momento. Rimanemmo lì, in balcone, a vedere le stelle, sdraiandoci sulle mattonelle per terra, e sti cazzi del freddo. In quel momento, mi sentii veramente in pace con me stesso.

 

 

 

 

After the war we said we fight together

I guess we thought that’s just what humans do

– Anything Could Happen, Ellie Goulding –

 

 

I’m looking in the space

This time, this void

I’m making my way through the muddy minutes

The pull is in my muscle

The ache is in my bones.

– Breathe, Kylie Minogue –

 

 

 

 

 

1 Penso si capisse, ma il nome originale di Copenaghen, capitale della Danimarca.

2 Asilo, in danese. Nota più in generale: per il danese mi sono affidato – argh – a GoogleTranslate, ché, mio malgrado, non so (ancora) il danese. Sono proprio cosette minuscole, una parola qua e là o una frase stupidissima. Non son convinto della correttezza grammaticale, ma visto che mi è stato comunicato da chi lo studia che la grammatica danese non è troppo diversa da quella tedesca, ho tradotto Tedesco–Danese, nella speranza che sia più corretta possibile. Scusate lo sproloquio, ma era necessario.

3 La strada è di fronte ad una sorta di parco–spiaggia (Strand in tedesco, e sembra anche in danese, significa spiaggia) ed era adatta al tipo di atmosfera che mi stavo immaginando, cioè davanti al mare “aperto” su una strada.  Non è proprio mare aperto perché  dà sul canale (l’Øresund) che separa København (e quindi la Danimarca) da Malmö (e quindi la Svezia). Ho finito di fare il geografico pedante. Tra l’altro, è divertente per me immaginare che proprio lì passi Italiensvej, cioè Via Italia. ;)

4 Non so dire a che ora di preciso si ceni in Danimarca, ma dalle esperienze che ho di Paesi un po’ più a sud (Germania e Paesi Bassi), ho i miei forti dubbi che si ceni alle sette. Paese che vai, ora di cena che trovi.

 

 

 

 

Note dell’Autore!

Uhm. Non sono soddisfatto, dico la verità. Diciamo che doveva venire in maniera un po’ diversa, nelle mie intenzioni, ma Søren (ho fatto copia incolla di questa maledetta ø tutto sto maledettissimo tempo e sono snervato, tra l’altro. Ma farle facili le cose, mai, eh.) ha deciso di seguire la sua strada. Vabbè, non son riuscito a impedirlo, anche perché ho avuto scadenze a fermarmi. Nel caso di specie, la shot partecipa al “Worldwide Contest” indetto da Yuki sul forum di EFP e c’ho messo veramente TROPPO. La storia è basata su un Paese (la Danimarca, non ci sareste mai arrivati, vero?) e su un’immagine, una canzone e un piatto tipico scelti dalla stessa Yuki e che ho messo sparsi in queste nove pagine di storia. Tra l’altro, per l’occasione, ho fatto abuso di citazioni canore (a tal proposito, senza analizzare caso per caso che sono troppe, nessuna delle canzoni citate mi appartiene e non è utilizzata a scopo di lucro, e a buon rendere per gli autori), anche questo sotto influsso di sta sciagura di personaggio.

Non son soddisfatto, perché volevo fosse una cosa più riflessiva, e invece mi sembra molto un “tendiamo a segamentalizzare, yeeeeeeeeeeah”. Vabbè, che ci posso fare? Le cose non vanno mai come credi. (cit. Giorgia). E si vede anche da queste note di fine capitolo. Tra l’altro mi sento terribilmente in colpa perché non aggiorno niente da eoni e perché sono lentissimo a scrivere, ma l’uni mi snerva. Anzi che l’abbia finita questa. Sto scrivendo anche altro, eh, ma vediamo quando pubblicherò. Comunque volevo avvisarvi che Soren (mi sono rotto, perdonatemi) ed Emil ricompariranno, quando meno ve lo aspettate, ma torneranno. Spero anche in qualcosa più intellegibile di ciò.

Comunque vi saluto, che anche ste note sono senza capo né coda. Santa pace.

Alla prossima!

–RaspberryLad–

   
 
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