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Autore: e m m e    03/12/2012    10 recensioni
È opinione comune che, dopo il suo finto suicidio, Sherlock torni da John nel giro di tre anni.
La verità, però, è che non se n’è mai andato. Non realmente.
[Per il Big Bang Italia]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson , Mary Morstan, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Noticina iniziale: Sembra che siano nate un sacco di persone in questo periodo. Per esempio, mercoledì scorso era il compleanno di quella bella personcina che risponde al nome di Trick. Alla quale, ovviamente, questo capitolo è dedicato. <3

Capitolo III

Daralis Holmes sapeva perfettamente che una madre, per quanti figli possa avere, non sarà mai in grado di amarli tutti con la stessa identica intensità.
È orribile e disdicevole ammetterlo, ma dopotutto lei faceva parte di una famiglia che per natura tendeva a ricercare la verità in ogni sua forma, quindi aveva ammesso con se stessa quella piccola verità da ormai molti anni e si era rassegnata ad avere come figlio prediletto quello che immancabilmente generava in lei più preoccupazioni.
Sin da piccolo Sherlock era stato un bambino irrequieto e strano, terribilmente strano. Proprio come era stata lei da giovane. Così aveva avuto il suo bel da fare per tenerlo a bada, con il prezioso aiuto di Mycroft, nonostante lei e il figlio maggiore non si trovassero quasi mai d’accordo visto che lui era molto più simile al padre.
Crescendo, Sherlock non era migliorato affatto: c’era stato quello spiacevole periodo della sperimentazione di droghe, dal quale Mycroft l’aveva risollevato a stento, e quel suo morboso interesse per i casi di omicidio più efferati che si potevano trovare nella City.
Certo, Daralis Holmes avrebbe dovuto capire che, date le preferenze per il macabro che suo figlio minore aveva avuto sin da bambino, da adulto non sarebbe cambiato molto, ma aveva sempre mantenuto la segreta speranza che un giorno il suo Sherlock riuscisse a trovare quella persona speciale in grado di stargli accanto senza provare l’irresistibile impulso di ucciderlo e occultarne il cadavere.
Aveva quasi perso le speranze che il suo secondo e geniale figlio potesse alla fine trovare il suo granello di serenità e si era quasi rassegnata a vederlo rimanere una foglia dispersa trascinata dal vento, quando nella sua vita era comparso dal nulla John Watson.
Daralis Holmes non aveva mai apprezzato tanto un uomo – ad eccezione del suo povero marito, che riposi in pace – quanto apprezzava John Watson; e tutto questo senza avergli mai rivolto la parola.
Il suo rapporto con Sherlock non le permetteva di vederlo molto, visto che lui sembrava disprezzare ogni singola visita che Mycroft gli imponeva di fare alla sua povera mamma, ma da fugaci monosillabi del minore, descrizioni accurate del maggiore e un bel po’ del suo naturale spirito d’osservazione si era resa conto che John Watson non solo era estremamente importante per Sherlock, ma che oramai era rimasto l’unico essere umano al mondo in grado di rendere Sherlock un po’ più – appunto – umano di quello che era stato fino ad allora.
Daralis era sempre una Holmes e poco le interessava il risvolto sentimentale della faccenda: che i due fossero semplici amici, fratelli, amanti, innamorati era indifferente. Quello che contava era che Sherlock ritrovasse il pizzico di umanità che da bambino ancora possedeva.
Essendo peraltro una donna non aveva tardato a comprendere che in gioco ci fosse qualcosa di più del semplice affetto fraterno a legare i due uomini, ma Sherlock era sempre stato così restio a parlare dei propri sentimenti – o cielo! Quali sentimenti? – che Daralis si era trovata suo malgrado impreparata quando aveva iniziato a percorrere quel terreno che suo figlio si rifiutava di percorrere per conto proprio.
Sherlock non si era mai interessato, se non per scopi puramente scientifici, al rapporto con l’altro sesso – o in questo caso con lo stesso sesso, ma il significato era il medesimo – e quindi la stessa Daralis non sapeva bene come tirare fuori l’argomento in sua presenza.
Decise alla fine di non tirarlo fuori affatto e di agire come sempre avevano agito tutti gli appartenenti alla sua famiglia: per conto proprio, di nascosto e in modo probabilmente dannoso per John o chiunque altro fosse stato tirato in ballo.
Tuttavia, proprio quando era pronta a fare il primo passo per fare in modo che i due giovani si rendessero conto che il loro rapporto aveva raggiunto un punto morto ed era necessario ravvivare la situazione, Sherlock aveva avuto la brillante idea di fingere il proprio suicidio, mandando a monte tutti i piani della sua cara mamma.
Conseguentemente a questo fatto, oltre allo shock che John Watson aveva dovuto subire, oltre a una sorella incapace che aveva pensato di essere in grado di prendersi cura di lui e oltre alla decisione di Sherlock di continuare a fingersi morto per altri tre anni e distruggere tutte le organizzazioni criminali del mondo o roba simile, Daralis Holmes si era trovata a far fronte a quel non semplice ostacolo di nome Mary Morstan, una sprovveduta di alto livello che aveva pensato di rimanere incinta e accalappiare l’uomo che era destinato a suo figlio.
Ora, Daralis era una donna notoriamente decisa – non per niente era l’unica donna che Mycroft temesse davvero – ma non aveva il cuore di uccidere una ragazza incinta pur nel magnanimo tentativo di liberare John Watson da quel pesante fardello e rendere la strada sgombra al minore dei suoi figli. O almeno, non aveva certo intenzione di farlo con le sue mani.
L’unica soluzione che aveva trovato era quella di tenere vivo nel cuore di John il ricordo di Sherlock, in attesa che una qualche disgrazia capitasse alla cara Mary Morstan o che John si rendesse conto di essersi legato a un’insulsa ragazzetta senza spina dorsale.
Purtroppo però, esattamente tre anni dopo la “morte” di Sherlock, né lei aveva subito qualche grave incidente, né John si era ravveduto, né, per parte sua, Sherlock aveva la benché minima idea di tornare sul campo di battaglia.
Anzi, secondo Mycroft quello scellerato si trovava da qualche parte in Italia a risolvere un problema che aveva gettato nel panico il Vaticano.
Come se Sherlock fosse mai stato credente, poi.
In realtà le preghiere di mamma Holmes, che chiunque altro al mondo avrebbe trovato ciniche e calcolatrici tranne lei stessa e forse i suoi figli, si avverarono proprio pochi giorni dopo l’anniversario del funerale di Sherlock, che John Watson aveva commemorato rimanendo tutto il giorno in casa a giocare con il figlio e a cercare disperatamente di non posare gli occhi sul teschio che ancora non si era deciso a buttare nella spazzatura.

***

E-mail ricevute.
1 Non letto.

Da: Molly Hooper. Oggetto: (nessun oggetto). 27 Dicembre 2013

Sherlock,
mi hai detto di occuparmi di John e lo sto facendo.
Ma tu dovresti tornare: le cose si stanno facendo difficili per lui.
Ieri è venuto anche tuo fratello a chiedermi di contattarti. Non gli ho dato questo indirizzo, come mi avevi detto, ma mi è sembrato preoccupato.
Non capisco perché tu non voglia tornare, non capisco perché tu non voglia dire a John che sei vivo, ma tanto non capisco mai niente di quello che fai.
Solo, ti prego, ha bisogno di te.
Molly.

***

La vita sociale di Molly Hooper era ridotta all’osso sin da quando aveva iniziato a frequentare la facoltà di medicina, quindi lei stessa non trovò strano che il suo capo le avesse assegnato il turno di notte del 31 dicembre, quando la maggior parte della gente – quella normale – era in giro a festeggiare la morte di un anno e l’inizio di quello nuovo.
Se le fosse andata bene, Molly avrebbe festeggiato la morte di qualche tizio su cui fare l’autopsia, tanto per ingannare l’attesa dell’alba.
In realtà il tizio con cui si trovò a ingannare l’attesa dell’alba non era affatto morto, ma per quanto la riguardava poteva anche esserlo, dato che non lo vedeva da più di tre anni.
Accese la luce del laboratorio con un sospiro afflitto e solo quando ebbe finito di indossare il proprio camice bianco si accorse della figura che stava seduta in un angolo, i piedi comodamente incrociati sul tavolo.
All’inizio si spaventò, poi lo riconobbe e si spaventò ancora di più.
« Sherlock! » quasi gridò, sconvolta.
« Ho ricevuto la tua mail » spiegò lui con voce piatta.
« Ma... io credevo- l’ho spedita solo due giorni fa! »
« Sono appena arrivato, difatti. Sarei tornato prima, ma dalle tue parole ho dedotto che John non corresse pericolo immediato e c’erano delle questioni che dovevo concludere. »
Molly si fece avanti nella stanza e si sedette su uno sgabello libero.
Si mise le mani in grembo, senza saper bene che cosa dire o che cosa fare. Innumerevoli volte aveva immaginato quell’incontro nella sua mente, e innumerevoli volte aveva formulato gruppi diversi di parole intesi a comunicare lo stesso concetto: “quando ti deciderai a tornare da lui?”
Ormai Molly aveva rinunciato alla speranza di poter entrare nel cuore di Sherlock, non perché lui non ne possedesse uno, come la maggior parte della gente tendeva a credere, ma perché quel cuore era interamente occupato da John e Molly non si sentiva in grado nemmeno di tentare di spodestarlo.
« Sai che cosa è successo? » domandò Molly a quel punto, riportando lo sguardo su di lui. Di solito era in grado di scoprire le cose prima di chiunque altro e per questo la ragazza si stupì quando lo sentì rispondere, a malincuore, che non lo sapeva affatto.
« Mi sarei informato da solo, ma preferisco che sia tu a raccontarmelo. »
Molly annuì, come se la cosa avesse perfettamente senso, e iniziò: « Io e Mary siamo diventate amiche, in un certo senso... quando esce con il bambino l’accompagno, a volte. Oppure andiamo al cinema insieme o faccio loro da baby-sitter. Per farla breve, Sherlock, una settimana fa Mary mi ha telefonato e mi ha detto che- che, ecco, si è ammalata. »
Entrambi sapevano bene che non era lei il problema, entrambi sapevano bene che tutto ruotava attorno a John e che, di certo, non si trattava di una banale influenza di stagione.
« Quando grave? »
« È- è leucemia, Sherlock, LMA... sai cosa- »
« Leucemia Mieloide Acuta » recitò Sherlock atono, « una tipologia che si sviluppa in fretta, i sintomi si mimetizzano con quelli della normale influenza: stanchezza, cefalea, dolori muscolari. La scoperta è avvenuta per... ma certo, analisi del sangue. È giovane a sufficienza per il ciclo di chemioterapia aggressiva. Risultati? »
« Ancora non ha finito la prima settimana. Il suo dottore è- John mi ha detto che il suo dottore è ottimista, ma... »
Sherlock si alzò in piedi, il suo volto era una maschera di cera bianca e immobile.
« John? »
La domanda era “come sta John?”, Molly lo sapeva bene, ma che cosa avrebbe dovuto rispondere?
Rimase a guardarlo dal basso all’alto, sentendosi, come sempre, intimidita.
« Farò quel che posso » disse infine lui, superandola e avviandosi verso l’uscita.
Molly non aveva idea di quello che il detective intendesse dire: lei lo aveva contattato solo perché tornasse e finalmente prendesse di nuovo il suo posto accanto a John, perché lo aiutasse a superare quel momento.
Sapevano tutti – anche Mary, accidenti! – che c’erano ben poche speranze: la malattia era in uno stato troppo avanzato ed era molto probabile che suo nonno paterno fosse morto proprio di LMA.
« Sherlock » esalò Molly, raggruppando tutto il suo coraggio, « devi tornare. »
« Sono tornato » le rispose lui senza voltarsi a guardarla, costantemente intabarrato nel suo cappotto scuro, le falde sollevate, il volto nascosto dall’ombra.
« Sai quello che intendo. »
« E tu non sai quello che stai dicendo. »
« Ha bisogno di- »
« Prova a pensare » soffiò Sherlock in uno dei rari, terribili momenti in cui perdeva la pazienza con Molly. « Prova a pensare a quello che succederebbe se io tornassi adesso. »
Molly si trovò gli occhi azzurri dell’uomo a pochi centimetri di distanza dal volto: come sempre lo vide leggere dentro di lei e scoprire tutte le sue carte nascoste, i suoi sentimenti, la sua palese pietà verso di lui e verso John.
Avrebbe voluto avere la capacità di trasformarsi in fumo e svanire nell’aria.
Non aveva idea di quello che sarebbe successo se Sherlock fosse davvero ricomparso in quel frangente. Forse John non avrebbe retto ai due colpi, subiti a così poca distanza l’uno dall’altro. Forse avrebbe retto benissimo e si sarebbe risollevato.
Oppure si sarebbe sentito diviso, obbligato a rimanere con Mary e desideroso di stare con Sherlock.
E se Sherlock era davvero giunto a quella conclusione, che cosa rimaneva del detective fatto di ghiaccio e razionalità che Molly aveva imparato a conoscere?
Nessuno dei due aggiunse più una parola e Molly stava riordinando le proprie carte con le lacrime agli occhi quando la porta del Barts sbatté, indicando che Sherlock se n’era andato di nuovo, mescolandosi con il mondo esterno, scomparendo dentro ad uno dei suoi travestimenti.
Molly inviò un messaggio carino a Mary, chiedendole come stava e se al bambino fossero piaciuti i fuochi d’artificio. Ma Mary non le rispose.

***

Attese un’altra settimana senza dare segni di vita né a Mycroft, né a Molly, né tanto meno a sua madre, evitando gli scagnozzi che il fratello aveva sguinzagliato per prelevarlo e facendosi ospitare da qualche vecchio cliente che gli doveva dei favori.
Ma alla fine, dopo un’attenta analisi della situazione, una sbirciata nel computer personale del Dottor Davis – che aveva un curriculum molto vicino all’incompetenza cronica – e un controllo alle analisi di Mary Morstan, si rese conto che la situazione non era certo delle più rosee per la donna.
Il primo ciclo di chemio non aveva svolto affatto il suo dovere e la malattia progrediva a vista d’occhio. Il suo dottore sembrava ampiamente incapace di rendersene conto e se John non avesse fatto qualcosa l’aspettativa di vita della ragazza sarebbe stata di sei, massimo sette mesi.
Prima di agire, però, Sherlock si apprestò a controllare la reazione del suo dottore, quello dal quale Molly e sua madre pretendevano che lui tornasse.
John, come un vero soldato, accompagnava Mary dal medico, in ospedale, a fare la spesa, a prendere il bambino dalla baby-sitter o in alternativa a prendere Molly perché se ne occupasse lei.
Era serio, compito, ma fiducioso. Sosteneva la ragazza quando per lei diventava faticoso muoversi e mostrava di sentirsi perfettamente a suo agio in quella situazione, come se si fosse preparato per tutta la vita ad assistere una giovane donna che rischiava la morte.
Ma Sherlock lo conosceva bene e, se anche non lo avesse conosciuto per nulla, i segni di stress, di dolore, di angoscia che a tratti si potevano scorgere sul suo volto erano più che eloquenti.
Così, dopo tre giorni in cui tentennò a lungo su ciò che avrebbe dovuto fare – dopotutto sei mesi erano davvero pochi, ma il lavoro che lui si era imposto per stanare gli scagnozzi di Moriarty era concluso da un pezzo, e quindi avrebbe potuto tornare in vita se solo avesse voluto, se solo Mary fosse... – ingoiando una buona parte del proprio orgoglio si recò da sua madre.

Daralis si aspettava quella visita, e da un certo punto di vista non poté che esserne lieta, perché dimostrava quanto suo figlio stesse effettivamente cambiando, ma d’altro canto quello che Sherlock le avrebbe chiesto avrebbe anche portato grande infelicità a lui stesso.
Avrebbe fatto quello che lui voleva, ovviamente, ma come madre di certo non approvava la sua scelta.
Quando lo fece entrare nel proprio appartamento si accorse subito di quanto fosse dimagrito: il periodo passato con John Watson gli aveva giovato anche da un punto di vista fisico, ma quella lontananza lo stava logorando.
« Sei sciupato, tesoro » gli disse stringendolo con foga: era troppo tempo che suo figlio non si faceva abbracciare.
Sherlock la guardò con freddezza, ma dopo un istante distolse lo sguardo perché, proprio come Mycroft, anche lui era uno di quegli uomini che odiano chiedere favori.
Daralis gli risparmiò l’umiliazione di fare la richiesta e disse: « Non sono d’accordo, Sherlock. »
« Non mi interessa. Vuoi farlo? »
« Certo che no, ma sai già che lo farò. »
Quel lampo di gratitudine che la donna scorse negli occhi del figlio la ripagò di ogni precedente tribolazione e le ricordò di quando Sherlock era piccolo e amava aprire le piccole pance pelose dei conigli per vedere come erano fatti.
Ah, bei tempi!
« Grazie, mamma. »
Daralis gli fece una carezza dalla quale lui non si tirò indietro. « Ti farà male » lo sollecitò lei, sperando che volesse cambiare idea.
« L’importante è che non faccia del male a lui. »
E Daralis Holmes dovette trattenere le lacrime alla vista del suo bambino che cresceva.


***

John se ne stava seduto su una panchina immersa nel verde. Attorno a lui risate di bambini rischiaravano una giornata altrimenti cupa. Il sole non voleva uscire fuori e la sua compagna stava per morire.
Non era una buona giornata per andare al parco.
Ma suo figlio aveva bisogno di distrarsi, e John anche. Soprattutto quando Mary avrebbe trascorso le successive due ore a fare nuove analisi, solo per scoprire che quello schifo di malattia non se n’era andata affatto. John era perfettamente in grado di cogliere i segnali di un miglioramento, e quei segnali non c’erano stati.
Buttò un occhio al bambino che stava giocando poco lontano, nella piscina di sabbia, insieme ad alcuni amichetti. Ben attento a non farsi vedere nascose la faccia tra le mani e pregò per evitare di crollare. Non era il momento di crollare.
La panchina si mosse all’improvviso, scuotendolo, e John si accorse della presenza di una vecchia signora, seduta adesso accanto a lui.
« Buongiorno » disse meccanicamente, chiedendosi perché la donna avesse scelto proprio quella panchina già occupata quando ce n’erano tante ancora libere.
« Buongiorno a lei, giovanotto. Qualche problema? »
« No. Nessuno, solo un po’ di stanchezza. È qui con suo nipote? »
La donna, occhi azzurri che gli ricordarono inspiegabilmente Sherlock, il volto magro e piacevolmente rugoso, fece un ampio sorriso. « La mia nipotina, Grace. È quella laggiù, nella piscina di sabbia. »
John guardò di nuovo in direzione di suo figlio e vide che in effetti c’era una bambina vicina a lui, oltre ai quattro maschietti che giocavano attorno.
« Molto carina. Quello è mio figlio. »
« Che singolare colore di capelli! » esclamò la vecchia signora sbattendo le palpebre colpita.
« L’ha preso dalla madre. »
Rimasero in silenzio entrambi e continuarono a guardare i bambini giocare.
A un certo punto uno dei più grandicelli si rivolse al bambino con fare minaccioso, strappandogli di mano il secchiello e la paletta; lui si sollevò dalla sabbia chiedendo che gli fossero restituiti, ma per tutta risposta ottenne uno spintone. Cadde fuori dalla piscina di sabbia e rotolò sull’erba.
John si alzò in piedi, allarmato, pronto a correre in suo aiuto, ma la signora lo fermò posandogli sul braccio il manico ricurvo del suo bastone da passeggio.
« Lasci che se la cavi da solo, vede? Non si è fatto niente. »
John stava per dirle di farsi gli affaracci suoi e che all’educazione di suo figlio ci avrebbe pensato da solo, quando vide il bambino alzarsi in piedi, spolverarsi i pantaloni come il migliore attore hollywoodiano che sta per menar cazzotti e precipitarsi di nuovo contro il suo assalitore.
Il più grande, vista la baldanza che l’altro metteva nel riconquistarsi il maltolto fece un passo indietro e cadde di schiena sulla sabbia. Scoppiò a piangere e corse via come se gli avessero appena tagliato una gamba.
Harry voltò la testa e guardò in direzione di suo padre, con un’espressione talmente soddisfatta, quando raccolse i suoi giocattoli, che John percepì un istantaneo moto di orgoglio che gli andò dritto al cuore.
Il bambino si diresse verso John sorridendo, ignaro della strisciata verde erba che aveva sul retro dei pantaloni.
« Molto coraggioso questo ometto » disse la signora con un sorriso aperto quando Harry li ebbe raggiunti e John si fu rimesso a sedere.
« Papà » disse, « me-enda »
« Per la merenda è presto. Perché non ti presenti a questa signora gentile che ti ha appena fatto un complimento? »
Il bambino, penetranti occhi scuri e capelli rosso fuoco, il volto ricoperto di piccole lentiggini, spostò la sua attenzione sulla signora e sorrise, senza essere minimamente intimidito.
Lei allungò una mano e il piccolo, estasiato, gliela prese, come aveva visto fare al padre e come facevano tutti gli adulti.
« Io mi chiamo Emma » disse lei, « e qual è il suo nome, signore? »
« Sherry! » rispose Harry con sicurezza.
John si affrettò chiarire il malinteso: « Si chiama Sherlock, ma in famiglia lo chiamiamo Harry... a sua madre non è mai piaciuto molto il nome che ho scelto, dice che è un po’ troppo particolare, quindi abbiamo tutti preso a chiamarlo Harry. Lui preferisce Sherry però, vero, tesoro? »
Sherlock, Sherry o Harry, che dir si voglia, annuì con foga spiegando: « Lo Sherry fa bi-acare. »
Non appena la signora Emma ebbe compreso il significato della parola “bi-acare” scoppiò a ridere, seguita da John.
« E dov’è la tua mamma, Sherlock? » domandò lei a quel punto.
Il bambino fece un sorriso ancora più ampio e fece qualche passo sulle gambette, girando su se stesso per poi andare ad appoggiare la testa sulle ginocchia del padre: « Mamma è ma-ata. Ha la elle-emme-a » disse, distanziando bene ogni lettera.
« Perché non vai di nuovo a giocare? » domandò John, con un tono di voce che non ammetteva repliche.
Sherry sembrò non essere del tutto certo di aver detto o fatto una cosa giusta, ma gli occhi gentili del padre lo tranquillizzarono e, salutata la signora con la manina, corse di nuovo verso la piscina di sabbia.
Ci fu qualche attimo di silenzio, poi lei disse: « Mi dispiace, non volevo essere indiscreta. »
« No » rispose John, incapace di essere in collera con una signora tanto gentile. « Non è stata colpa sua, signora...? »
« Wright. È una brutta malattia. Mi rincresce davvero » fece una pausa e poi continuò: « Posso chiamarla in qualche modo oppure vuole tenere la sua identità nascosta? »
« John Watson. Sono stupito che sappia di cosa Sherry stava parlando. »
« Signor Watson... mio marito è morto il mese scorso di LMA. So perfettamente di che cosa sta parlando. »
John deglutì, a disagio. Gli occhi di Emma Wright lo scrutavano con gentile preoccupazione, come se fosse stata sua madre e non una sconosciuta appena incontrata.
« E ha anche un bambino così intelligente... »
« È il più intelligente della sua classe! » si infervorò John, lieto che l’argomento si stesse spostando verso altri lidi.
« Conosce per caso il Dottor Dawson? » domandò invece la signora Wright come se non avesse compreso che quell’argomento era penoso per John.
« Naturalmente » rispose John con mestizia.
Il Dottor Dawson era uno tra i più grandi esperti di Leucemia ancora in vita: se si riusciva ad entrare in cura da lui la possibilità di trovare un donatore, di risollevarsi dal baratro in cui lui e Mary erano caduti, era grande e luminosa.
Ma non c’era modo di entrare tra i suoi pazienti: la lista d’attesa era infinita, e loro di tempo ne avevano poco.
« Mio marito è stato in cura da lui fino all’ultimo. Siamo amici di famiglia da tanti anni ormai. Sono certa che se lo chiamerà e gli farà il mio nome potrebbe- »
John sollevò lo sguardo dal terreno su cui si era concentrato. « Chi è lei? » domandò d’un tratto, la mascella serrata, le mani chiuse a pugno.
La donna però ricambiò quello sguardo con la più assoluta sorpresa, e John davvero non poté credere che quella donna fosse... no. Che sciocchezza.
« Mi scusi... » disse. « Non intendevo- »
« No, capisco, immagino che incontrare per caso qualcuno che- una così grande fortuna non deve sembrare casuale. Mi creda, se potessi fare questo piacere a qualcun altro lo farei, ma di persona non conosco nessuno che necessiti di questo tipo di aiuto. La maggior parte della gente che ho incontrato è ormai in fin di vita, come mio marito. Ma lei ha un bambino a cui pensare, e un bambino ha bisogno di sua madre. Il più possibile. Guardi, le scrivo il numero- Ah, perfetto, non so assolutamente niente di questi aggeggi elettronici, scriva lei dunque: 56... »
John digitò il numero con mani tremanti, incapace di comprendere sul serio quello che era appena successo. Aveva provato ad andare a parlare con il Dottor Dawson, ma la risposta che aveva ricevuto dalla segretaria era che l’unico giorno disponibile sarebbe stato per il marzo successivo.
Non che chiedesse molti soldi, ma lavorando in una clinica privata poteva scegliersi lui i pazienti. E Mary Morstan non era tra i prescelti.
« Io- io non so come ringraziarla » esalò in infine, stordito.
« Si ricordi di fargli il mio nome, Emma Wright, mi raccomando. »
« Sì, certo, naturalmente. Grazie infinite. »
John lanciò un’occhiata all’orologio e si accorse che Mary era quasi sul punto di finire il suo giro quindi si alzò a malincuore dalla panchina, perché avrebbe voluto parlare qualche altro minuto con la signora Wright, e richiamò Sherry perché iniziassero ad avviarsi.
La signora fece una carezza sulla testa del bambino, scompigliandogli i capelli.
« Dì grazie a questa signora, Sherlock » disse John, incapace di aggiungere nient’altro.
« Azie! » esclamò il piccolo, senza capire il perché di quella richiesta, ma obbedendo senza problemi.
« È stato un piacere, John e Sherlock » rispose lei, tornando a prestare attenzione a quella nipote di nome Grace, una bambina che mai aveva visto in vita sua e la cui vera madre se ne stava dall’altra parte del parco, seduta sulla panchina dirimpetto a quella che, fino a pochi minuti prima, aveva occupato anche John.

***

« È partito di nuovo » esordì Mycroft non appena si fu tolto il soprabito.
Sua madre lo guardò congiungendo le dita, senza offrirgli niente di commestibile. Non lo faceva mai se non c’era anche Sherlock.
Suo fratello era sempre stato quello che doveva “mettere un po’ di carne sulla ossa” a differenza di Mycroft.
« Non potevi fare nulla, caro » rispose Daralis, ma i suoi occhi dicevano che Mycroft avrebbe potuto fare molto. Moltissimo.
Ovviamente Mycroft non poteva fare nulla sul serio, a meno che non avesse deciso di far rapire suo fratello e rinchiuderlo in una prigione per un paio di mesi.
In effetti sembrava proprio una soluzione ottimale per sua madre: avere il suo bambino sempre a portata di mano, depresso e da accudire, proprio come adorava fare.
Ma Sherlock era un uomo adulto e se decideva di sparire Mycroft non aveva alcuna intenzione di metterci bocca, non adesso che la faccenda di John si era ancora più complicata.
Posò il soprabito sul divano e si sedette, imitato poco dopo dalla donna.
Evidentemente Daralis si aspettava una qualche parola da parte del figlio, perché rimase in perfetto silenzio, stranamente, fino a quando Mycroft non disse: « Hai già fatto abbastanza tu, mi pare. Non si addice molto al tuo carattere, mamma. »
Daralis non abbassò lo sguardo nemmeno per un istante quando rispose: « Voglio che quella donna muoia e che lo faccia il più in fretta possibile, ma se Sherlock viene a chiedermi qualcosa non posso dire di no. Lo sai. »
« Mi pare un grande passo avanti. »
« Non essere sciocco, Mycroft, sai che è così fin da quando era un bambino. »
Mycroft sorrise appena davanti alla palese preferenza di sua madre per il minore dei suoi figli: ci era abituato e non ricordava che avesse mai fatto davvero male, a dirla tutta.
« Non mi riferisco a questo. So che hai un debole per Sherlock. Sto parlando del suo passo avanti: è venuto a chiederti di fare in modo che quella ragazza avesse le migliori cure. Eppure ha guardato le cartelle cliniche, ha capito perfettamente che Mary Morstan non ha alcuna speranza di sopravvivere. »
Fece una pausa e allungò una mano in avanti verso un vassoio di tartine fredde. Sua madre gli lanciò un’occhiataccia, ma prima che potesse impedirgli di servirsi Mycroft aveva proseguito con il suo monologo: « Non ricordo di aver mai visto Sherlock affannarsi tanto per qualcosa che è comunque inevitabile: ora che si rivolgeranno a quello specialista – e tra parentesi mamma, non credevo che anche lui avesse surclassato papà – la ragazza sopravvivrà solo per qualche altro mese, niente di più. Eppure Sherlock ha voluto intromettersi. Di nuovo. »
« E a quali conclusioni sei giunto, sentiamo? »
« Non ho la pretesa di aver raggiunto conclusioni molto diverse dalle tue, ma ritengo che Sherlock sia talmente... invaghito? – non credo che esista un termine adatto a descrivere la situazione, mi perdonerai se la svilisco con questa parola – di quel suo dottore che farebbe di tutto pur di non vederlo soffrire. »
Poteva vedere l’orgoglio sul volto di sua madre, un orgoglio che mai in tutta la loro esistenza vi aveva mai letto.
« Soffrire non è un vantaggio, mamma. Papà lo diceva sempre. »
« Tuo padre era un idiota » replicò lei con uno scatto della mano per poi ricomporsi in una delle pose eleganti e costruite che le risultavano così naturali, quasi come se fosse fissata in un dipinto di altri tempi.
« Sherlock è sempre stato più simile a me » continuò imperterrita, nonostante l’occhiata scettica del figlio maggiore. « Tu, tuo padre e la droga lo avete reso sordo e cieco ad ogni cosa si muovesse nel suo cuore. Era necessario John Watson per risvegliare qualcosa di simile all’amore dentro di lui. »
« Queste metafore da romanzo d’appendice non mi hanno mai impressionato, mamma. »
« Non si può vivere solo di cervello Mycroft. Anche tu dovresti imparare a fare qualcosa che non sia stato accuratamente vagliato e analizzato fin nei minimi particolari. »
Mycroft accavallò le gambe, accomodandosi di più tra i cuscini.
« Sono abbastanza certo di aver avuto questa stessa conversazione con te almeno quarantadue volte. »
« Quarantatre » lo corresse Daralis, scuotendo la testa.
« Ebbene, non mi sembra necessario arrivare al numero quarantaquattro. Ti saluto, mamma. »
Si alzò in piedi, attendendo che lei si alzasse a sua volta per baciarlo su una guancia, accomiatandosi.
Daralis gli strinse l’avambraccio tra le dita, con un sorriso, in uno dei suoi rari gesti d’affetto che Mycroft era abituato da una vita a non ricevere mai.
« Sai mamma, tutti stiamo dando per scontato che, una volta che Mary sia scomparsa dalla scena, Sherlock potrà tornare ad essere il solo protagonista di questa storia. Ma non ti è mai venuto in mente che John potrebbe non accettare il suo ritorno? »
Ci fu un momento di pausa in cui gli occhi scuri di Mycroft scrutarono quelli chiari e trasparenti eppure così impenetrabili di sua madre, poi Daralis rispose: « È un’eventualità che non prenderò nemmeno in considerazione. »
Mycroft indossò il soprabito e recuperò l’ombrello lasciato nell’ingresso.
« Invece credo proprio che dovresti, mamma ».

 

Note finali:
Niente, ho deciso di spostare il giorno di postaggio al lunedì, perché come la mia Beta mi ha fatto notare, se vado avanti così posterò l’ultimo capitolo il giorno di Natale. Cosa che voglio evitare.
L’ultimo capitolo sarà per la vigilia, così non rovinerò la digestione a nessuno. EHEHEHEH.
E, non so che dire per esprimere tutta la gratitudine che provo per l’accoglienza che avete riservato a questa storia. Grazie di cuore a tutti. <3

 

Per questo capitolo (e per i futuri) devo ringraziare sentitamente Nefene, laureanda in Medicina, che mi ha assistito, descrivendomi sintomi e cure per la LMA, che, a titolo informativo, è più probabile che si manifesti nei giovani dai 30 anni in su rispetto alle altre forme di leucemia, che in ogni caso sono più leggere di quella che ha colpito Mary.

Sì, sono una persona cattiva.

  
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