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Autore: Para_muse    10/12/2012    3 recensioni
Elisabeth è una ragazza che sogna e poi realizza quello che vuole: va in America, lavora sul set di un telefilm abbastanza famoso e fa la fotografa. Quello che più ama fare nella sua vita è racchiudere in un click più soggetti. I soggetti che l'attirano. Uno in particolare lo ammira...sia con i suoi occhi che con il suo obbiettivo...una storia d'amore, d'amicizia, e di insicurezza che Elisabeth riuscirà, forse, a liberarsene.
*storia per metà betata*
Genere: Comico, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Jared Padalecki, Jensen Ackles, Nuovo personaggio
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie '"The Second Chance" - Racchiusi in un...bookstory.'
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La FanFiction fa parte della serie: "The Second Chance" - Racchiusi in un... bookstory.
Della serie fa parte anche una Missing Moment tratta dal capitolo 8 (importante per la ff): The Real Vacancy of Year



Ehi tu, dico proprio a te…Leggi fino alla fine.


 

Capitolo 19
 
So, Is this the death?
 
Dopo che la voce dell’angelo finì di parlare, mi ritrovai in un mondo tutto parallelo al mio. Luce, calda, consolatrice, mi riscaldava la pelle; dita gentili mi sfioravano come piume, in lenti movimenti circolari; e labbra piene di amore, mi baciavano il corpo, cullandomi nell’abbraccio in cui ero caduta…
… e in cui mi risvegliai poco dopo in uno stato di pura sorpresa e spavento, aspirando aria, e tirando un lungo sospiro.
Aprii gli occhi e la realtà mi si presentò davanti non come un semplice giorno qualunque, fatto da gesti che ormai erano diventati quotidiani. Ero a casa, certo! Nel mio letto, ovvio! Però, qualcosa stava sconvolgendo quella giornata, ed era li, seduto sul bordo del mio letto, a fissarmi con sguardo preoccupato, ma un po’ più sereno di quando avevo chiuso gli occhi, cadendo in uno strano stato di sonno.
- Elisabeth – sospirò sollevato, stringendo la mia mano nella sua calda.
Lo fissai aprendo gli occhi lentamente. Alzando e abbassando le palpebre più volte, prima di rendermi conto veramente che era li. E che mi stava parlando, e che mi stava toccando… lui era li. Jensen era tornato.
- Sei tu – sussurrai, cercando di esprimere il meglio di quel momento, con parole più concrete.
- Sono qui – mormorò, avvicinando la mano libera al mio viso, accarezzandomi dolcemente la guancia, che mi sentii umida a contatto con i polpastrelli morbidi di Lui.
Solo dopo, mi accorsi che stavo singhiozzando piano, e che Jensen sconvolto, frustrato, e triste anche lui, attingeva le mie lacrime alle sue. Restai a bocca aperta, e sorpresa a mia volta, fissando quelle due lacrime che gli solcarono le lacrime, redendole così vulnerabile agli occhi degli altri.
- Oh mio Dio – sussultai, alzandomi dal letto. Appoggiando un braccio dietro di me e sostenendomi al materasso, portai l’altro braccio intorno a lui, che strinsi spasmodico al suo collo, abbracciandolo forte, portando anche l’altro al suo petto stringendo in un pugno la maglia a maniche lunghe scura,  che portava in quel momento.
Iniziai a tremolare, mentre le lacrime non smettevano di cadere giù. Jensen, il mio Jensen era veramente qui… e lo amavo, lo amavo ancora di più, lo amavo da sempre… lo amavo alla follia, era questa la vera e semplice verità.
- Ssh, è tutto okay, sono qui, non andremo da nessuno parte, solo tu ed io. -, sussurrò lentamente al mio orecchio, con voce spezzata.
Stringendolo ancora di più a me, annuendo sul suo petto, si abbassò insieme a me, facendomi di nuovo poggiare supina, e alzando lo sguardo il suo fu a pochi centimetri del mio.
- Sono qui, non andrò più via Elisabeth… non mi vedrai uscire da nessuna porta, o non mi vedrai salire su nessun aereo. Io sono qui, per te! -, sussurrò, accarezzandomi con le dita la fronte corrugata dalla smorfia di dolore, gli angoli degli occhi bagnati, e le labbra semi aperte, dove fuoriusciva ossigeno  a quantità elevate.
Sbattei più di una volta le palpebre prima di annuire velocemente, portando le mani intorno a quel viso scarno ma ancora perfetto e uguale a come lo ricordassi dall’ultima volta.
Non potetti non esclamare un’altra volta “o mio Dio”, era strano ritrovarmelo li di fronte a me. E poi come, quando aveva deciso di venire da me? Di venire di nuovo a incollare quei pezzi di cuore che lentamente si erano dispersi in fondo alla mia anima triste.
- Jensen, io… io, voglio chiederti… - iniziai col dire, prima che lui potesse zittirmi.
- Ssh, lo so – disse, con tono di voce seria, fissandomi dritta negli occhi, risvegliando quell’effetto strano allo stomaco, che adesso sapevo chiamare “farfalle”.
- Ma, io voglio… - ribattei, corrucciando le sopracciglia. Lui riuscii a zittirmi un’altra volta, ma in un’altra maniera.
Come si poteva dimenticare il nome di se stessi, o peggio ancora le parole che ogni notte ti eri formulata nella memoria, ricordando di ripeterle quando un giorno, forse, l’avresti rivisto, magari per ritornare per un’ultima e sincera volta, insieme?
Le sue labbra furono liquido lavico: calde o meglio bollenti, che scorrevano lentamente. Umide e salvatrici bagnarono le mie, che secche, aride, non erano alla ricerche di oasi così come quella.
Jensen mi stava salvando da un momento della mia vita in cui pensavo di essere caduta per sempre. Ma non fu così. Lui era tornato, era li perché era venuto a salvarmi da quel vortici di emozioni così masochiste e dolorose che mi avevano offuscato la mente.
E Dio mi era testimone se non aveva pensato di essere caduta in una depressione totale, quando la notte urlavo e piangevo tra le lenzuola già zuppe della notte passata.
- Jen-sen – mormorai con voce rotta, tra un gemito e un altro, tra lacrime e baci pieni anch’essi di dolore, ma di una passione quasi incontrollabile.
- Amore mio, quanto mi sei mancata, mio Dio quanto ti amo! – esclamò a bassa voce al mio orecchio, stringendomi forte al suo petto, circondandomi con le braccia calde.
- Ti amo anch’io, da morire – e l’avrei fatto, se me l’avessero chiesto.
 
- Allora… - borbottai, fissando il suo petto, cercando di provare meno imbarazzato in quel momento di silenzio, ma pieno di sguardi carichi di quelle parole non dette.
- Allora… tu, come stai? – domandò accarezzandomi i capelli, in un gesto così ingenuo, ma profondo.
- Io…io adesso sto bene – sussurrai, alzando per un secondo lo sguardo, assicurandomi che avesse compreso in pieno quello che avevo voluto dire.
Tirò un sospiro amaro, e tirando su un angolo della bocca in una smorfia, annuii con difficoltà e aggiunse un “anch’io”.
Sorrisi, ritornando a fissare il suo petto, giocando con i ricami di quel maglione morbido e profumato, soprattutto da quell’odore inconfondibile di dopobarba.
- Mi sei mancato – confessai timidamente. Lui strinse una ciocca dei capelli tra due dita e tirò piano, mormorando in un assenso anche lui.
- Mi dispi… - cercai di chiarire un’altra volta. – Ssh, lo so… – bisbigliò. Sorrisi felice, e stringendomi a lui, pregai che nessun’altra potesse portamelo via. Soprattutto, nessun’altra lite.
- Dovrei. Preoccuparmi. Io di. Chiederti… scusa… - sibilò con difficoltà, continuando ad accarezzarmi i capelli. Il sorriso sulle mie labbra scomparve e mi tirai indietro per fissarlo dritta negli occhi, preoccupata. – Perché? – domandai accigliata.
Jensen, chiuse un attimo gli occhi e sembrò tremare tra le mie braccia.
- Cosa Jensen? – domandai con tono di voce basso.
- Io…io volevo scusami per…per quello che ho fatto quella sera Elisabeth! Ti ho turbata e soprattutto rubata di qualcosa che forse… - mi accarezzò con un pollice l’incavo sotto gli occhi. – Mi reputo un cane bastardo per quello che ti ho fatto, non dovevo… perdonami amore mio, perdonami. -, disse, stringendomi un’altra volta tra le braccia, cercando conforto.
Ed era quello che io stavo facendo, cercando di ricordare quei momenti così dissolti nella mia mente ormai, che non dovetti perdonarlo di nulla.
Perché la colpa era stata solo mia, solo esclusivamente mia. Io l’avevo tradito con quel semplicemente bacio, e lui da uomo orgoglioso che era, aveva rivendicato ciò che era suo, ma in un modo forse… possessivo.
Perciò le mie braccia corsero intorno alla sua gola, e le mie dita percorse le sue guance, e i miei occhi corsero ai suoi, mostrandogli la verità. Mostrandogli quello che lui era per me:
- Tu non sei un cane bastardo. Tu sei la persona più orgogliosa e possessiva che io conosca, e non ha importanza se hai rubato la mia virtù in quel modo, non ha importanza se sei geloso di ciò che è tuo. Non ha importanza tutto quello che ci circonda. Ha importanza, invece, il tuo diritto di rivendicare ciò che è tuo, e ha importanza che io rivendichi ciò che è mio. Dobbiamo interessarci di noi stessi, NOI  siamo importanti! Io e tu, il nostro amore… - sussurrai, dolcemente, accarezzando quei morbidi capelli, quelle dolci palpebre semi chiuse, quelle labbra carnose, che avvicinai alle mie per un lungo e passionale bacio, a cui mi lasciai andare con tutta me stessa.
Le mie gambe si strinsero al suo bacino, mentre mi spinse, con le braccia intorno a me, a poggiarmi di schiena sul piumone morbido del mio letto.
Non ci fu bisogno di nessuna parola in quel momento, ma solo di sguardi, sinceri, profondi, amorevoli.
Erano quelli che io e Jensen ci stavamo lasciando continuamente, tra un bacio e un altro, tra una maglia e l’altra, che cadeva giù, lasciando pelle contro pelle, carne contro carne, passione e amore.
Mi strinsi più forte a lui, e senza accorgermene… il piacere invase entrambi.
 
Sentii la luce del giorno infiltrarsi sotto le palpebre, e involontariamente aprii gli occhi al mondo reale… dove ne faceva anche parte l’uomo che accanto a me, silenzioso mi fissava poco prima dormire.
- Buon giorno – borbottai, con voce impastata dal sonno. Strofinai gli occhi con i pugni chiusi, cercando di risvegliarli, e di fissare quindi anch’io, il meraviglioso uomo che mi stava a sua volta ammirando.
- Buon giorno – mormorò in uno stentato italiano, sorridendomi felice. Non potetti, che issarmi sulle braccia, e avvicinarmi a lui, al suo viso, alle sue labbra per un bacio mattutino.
- Il mio uomo – sussurrai, accarezzandogli il viso, stringendomi a lui, sotto il piumone caldo. La sua pelle venne al contatto con la mia, e non potetti che tremare dall’eccitazione della giornata di ieri ormai passata.
- Ehi, piccola – mormorò con voce roca Jensen, passandomi le mani sulle braccia.
- Mmh – mugolai, strofinando il viso sul suo petto come un micio fa le fusa.
- Possono sentirci i tuoi… - mi sussurrò all’orecchio, baciandomi poi la tempia libera dai capelli.
Quando recepii il messaggio, mi allontanai dal suo petto, issandomi su un gomito, solo. Mi strinsi il piumone addosso, e lo fissai stringendo gli occhi a fessura: - Come hai fatto a far smammare i miei genitori senza che loro obbiettassero? – domandai curiosa, minacciandolo quasi.
Sul suo viso spuntò un sorriso divertito e parlando, continuò a giocare con il mio braccio fuori dalle coperte, mettendomi i brividi.
- Gli ho detto che avevo bisogno di parlati. Era urgente, dovevamo innanzitutto chiarire, e da soli… poi magari li avremmo raggiunti, se non eravamo stanchi…ovvio – obbiettò, alzando le sopracciglia autoconvincendo se stesso.
Io risi come non mai, e stringendomi di nuovo a lui in un abbraccio forte, quasi non mi commossi per averlo di nuovo così: tra le mie braccia.
Finalmente.
Quando sembrò esserci un silenzio assordante, in quel momento un rumore di pancia vuota si fece sentire. E non era di certo il mio.
- Mangione, da quant’è che non mangi? – domandai, facendogli il solletico. Si ritirò dalle mie dita, stando attento a non cadere giù dal letto. Poi annuendo, fece la faccia da bambino indifeso, che mi fece intenerire, regalandogli così un bacio: - Da quasi più di ventiquattro ore, hon! – borbottò tra un bacio e un altro.
Perciò decidemmo di fare colazione insieme, alzandoci e scendendo di sotto a prepararcela a vicenda. Non prima però di un forte mal di testa, quando poggiai piedi a terra.
Mi sedetti all’istante sul letto, cadendo come un sacco di patate, tenendomi la testa con una mano, mentre con l’altra mi aggrappai al piumone.
- Ehi piccola tutto okay? – domandò Jensen venendomi incontro, girando intorno al letto.
Annuii e mi alzai un’altra volta, reggendomi alla spalla nuda del mio uomo, sorridendogli e tranquillizzandolo.
- Adesso tutto okay, avevo solo bisogno di un momento. Sai è da ieri che anch’io non mangio! Eh! – esclamai, ridendo e pensando a quello che avevamo combinato.
- Andiamo a farci una doccia e poi di fila a mangiare! – disse, spingendomi nuda direttamente verso la porta del bagno semi aperta.
Mi voltai verso di lui, fermandolo sulla soglia della porta: - Dove credi di andare? Resta qui, se mia sorella entra da quella porta dietro alle mie spalle, bhè sono cavoli amari per te e per me! – puntualizzai, spingendolo indietro. Mi oppose resistenza e mi tappo la bocca quando, cercai di spingerlo un’altra, senza nessun risultato, visto che mi afferrò di peso, infilandomi dentro al box insieme a lui.
Bhè, fu la guerra.
 
- Oh qui, è dove da bambina venivo a scuola – dissi, indicando la scuola materna, tra le via della città, dove avevo portato quel pomeriggio Jensen, per fargli vedere dove fosse stata vissuta la mia infanzia.
- Più avanti ci sono invece le prime scuole, e poi la seconda scuola, che da noi in realtà è stata divisa in due: scuole medie e superiori. Poi c’è l’Università, ma quella è fuori città, noi qui non ne abbiamo. A Dallas si invece? – domandai, fissando un po’ la strada e un po’ Jensen che guardava intorno, ammirando la cittadella viva, nel tardo pomeriggio di fine novembre.
Quando ci allontanammo dalla città, perché volevo che vedesse la campagna dei nonni (dove ci stavamo dirigendo) sembrò risvegliarsi, e quindi iniziò a parlare: - E’ un bel posto la tua città! Poche persone, la maggior parte  quasi vecchia, non mi riconoscerà nessuno! – confermò più a se stesso che a me.
Annuii convinta anch’io comunque, fin quando non pensai ai miei amici, o magari a quel giorno in cui l’avrei portato in giro per i negozi, ma fuori città.
- Dove andiamo adesso? Uh, guarda quante pecore! – esclamò divertito, indicando il gregge, pascolare in un prato.
- Stiamo andando a casa dei miei nonni. Ti faccio conoscere un paio di amichetti – dissi, sorridendogli.
- Vediamo chi sono! – disse con tono incuriosito. Non impiegai molto a trovare la via per arrivare a casa di nonno. Appena parcheggiai sulla strada sterrata, e scesi dall'auto, mi ritrovai Jensen ricoperto da zampe e lingue. - Briciola!Miele! - esclamai divertita, richiamando i due cani. Briciola non se lo fece ripetere due volte, e mi venne incontro gioiosa.
- Oh, guarda ci sto già simpatico! – urlò contento, facendosi leccare da Miele, che si alzò su due zampe contento e giocoso, mentre la piccola Briciola si faceva beffa della mia bassa statura, venendo a giocare con me.
- Non sono adorabili? – domandai, lasciando andare Briciola, e Jensen lasciando andare Miele, così facendo, li lasciammo giocare tra di loro, abbaiando giocosi.
Jensen, prima che si facesse vedere da mio nonno, cercò di pulirsi con il giubbotto la saliva sulla faccia e sulle mani.
- Che porco che sei! – borbottai, ricevendo come risposta una bella manata sul sedere.
- Oh grazie – dissi con voce isterica, bussando alla porta.
Nonno fu immediato, e prima che Jensen potesse replicare, aprii la porta invitandoci ad entrare, facendosi così presentare l’uomo accanto a me.
- Nonno lui è Jensen, Jensen lui è mio nonno Salvatore – dissi, prima in italiano e poi in inglese. Mio nonno serio strinse la mano a Jensen in una morsa stretta e sorridendogli Jensen ricambiò. Poi si rivolse a me, facendomi tradurre in italiano a nonno:
- Nonno, Jensen dice che è un piacere conoscere l’uomo che mi ha appassionato alla fotografia, è grazie a te che… - nonno non mi fece finire, disse solo in uno stentato italo-inglese – “Grazie per avermi riportato la mia vecchia nipote, grazie” –.
Restai più che stupita. Ero entusiasta.
- Nonno tu parli l’inglese! – dissi, afferrando la sua mano rugosa tra le mie. Mio nonno alzò le spalle e dirigendosi verso la sua poltrona a dondolo, vicino al caminetto, si ci sedette sopra e iniziò a dondolarsi. Mi trascinò con se, facendomi sedere sulla sedia li vicino. Invitai Jensen ad avvicinarsi.
- Sai ti ricordo che io c’ero quando i soldati americani sbarcarono sulla nostra terra e ci dissero “ciao” – disse, sorridendomi.
Cavolo, mio nonno era un uomo di grandi risorse.
 
Quella stessa sera, decidemmo di fare una grigliata a casa, tutti insieme, tra i nonni paterni e non. Jensen, naturalmente fu al centro dell’attenzione di tutti. E non potevo lasciarlo solo un attimo che le mie due care nonne, se lo mangiavano vivo con domande in dialetto stretto, che il povero Jensen, a parte la lingua italiana che parlava poco e capiva altrettanto poco, per lui era incomprensibile arrivare a capire il dialetto.
- Nonne, per favore, lasciatelo andare… - borbottai un poco arrabbiata, pescando il mio ragazzo dalle mani rugose di entrambe, che lo tenevano per un braccio ciascuno.
- Grazie per avermi salvato, tesoro! Pensavo di morire li in mezzo alle tue dolci nonne! – sussurrò, a bassa voce, per non farsi sentire da nessuno, credendo che nonno Salvatore, fosse abbastanza bravo di capire anche quello, visto che il suo inglese non era per niente scarso.
- Allora, cosa preferisci? Aletta di pollo o coscia? – domandai da brava donna qual ero. Lui mi fisso sorridendomi dolcemente, e prima che mia sorella potesse dividerci, perché voleva scambiarci qualche parola, mi sussurrò un eccitante: - te! -.
Lo fissai andare via, tra le braccia di Laura, e mi voltai verso mia madre e mio padre, che preparavano tutto fuori in veranda.
- Allora! – esclamò mio padre, attirando l’attenzione. Mi avvicinai verso di lui, sorridente. Lui mi lanciò uno sguardo felice. – Tutto apposto eh? Lui è tornato, avete fatto pace…i piani sarebbero di ritornare in America di nuovo, non è così? – domandò, continuando a fare cuocere la carne sul fuoco.
Portai le braccia al petto, per il leggero venticello che faceva fuori casa, e alzando le spalle, misi il broncio: - Lo so papà, ma tu che pensi? Lui viene, mi perdona e io non ritorno a fare quello che mi è sempre piaciuto fare? – domandai a bassa voce, senza far sentire nulla a mamma, che si era allontanata un attimo, entrando in cucina.
- Sarà un colpo per tutti – borbottò, girando la griglia sul fuoco dall’altra lato, fissandomi poco dopo con sguardo serio.
Annuii e mi rattristai. Era così bello stare così, tutti insieme, felici. E con Jensen soprattutto. Cosa avrei dovuto fare? Fissai mio padre accigliata e preoccupata.
- Per ora godiamoci questi giorni insieme. Jensen mi ha detto che non ritornerà in America almeno fino al Natale…ha promesso che sarebbe restato qui con me! Lo sai papà che lavoro fai lui…quindi deve rispettare le vacanze e soprattutto anche la sua famiglia, a cui ha promesso che per il Capodanno sarebbe stato insieme a loro… -.
- Lo so, ma tu… ci mancherai come sempre… - borbottò alla fine, quando vide tornare mamma dalla cucina.
Mia madre fissandoci, si accigliò, e posando le ciotole con il condimento sul tavolo li fuori, si portò le mani ai fianchi ed esclamò: - Che sono quelle facce da mortalità? Suvvia, è una festicciola per il tuo bel ragazzo! A proposito… - disse, correndo a prenderlo per il braccio, scippandolo da quelle di Laura, offesa!
- Sia chiaro mio bel Casanova! Tu dormirai in salotto! – l’indico, come se lui potesse capire tutto anche dagli gesti. Ma non fu così, purtroppo. Jensen mi lanciò uno sguardo confuso e spaventato dal tono di voce isterico e autoritario di mia madre. Perciò tradussi con enfasi, e Jensen diventando serio iniziò a parlarmi e poi a rivolgersi a mia madre: - Se proprio devo farlo, lo faccio, ma ho voglia di stare con te! “No problema” – borbottò, ma io scossi la testa ridendo.
- Mamma cosa pensi che sia avere un ragazzo nella stanza di tua figlia? Niente! Siamo adulti e sappiamo quello che facciamo. Lui dorme con me! Non si discute… - esclamai seria, iniziando a gesticolare anch’io.
Mia madre fece uno sguardo spaventato. Sgranò gli occhi alle mie parole, e iniziò a dare i numeri. Se non ci fosse stato mio padre, bhè a quest’ora sarebbe morta per pressione alta.
L’ebbi comunque vinta io, e Jensen l’ho capii solo dallo sguardo languido che gli lanciai.
 
Il mese natalizio era ormai alle porte, il primo di dicembre di quell’anno duemila sette fu al quanto fortunato.
Quel martedì, che sapeva fortunato, decidemmo di uscire da soli in città, e Jensen aveva deciso di portarmi a cena.
Ma non fu proprio una vera cena. Dopo gli antipasti, Jensen decise di ordinare per entrambi una bella pizza margherita. Italiana era più gustosa, o così l’aveva definita lui.
- Dovrei venire più spesso in Italia. Adoro il cibo! – disse, masticando un altro pezzo di pizza, morso dal suo primo trancio.
- Mmh, e le donne italiane! – dissi, facendomi beffa da sola, iniziando a ridere come due ragazzini.
Bevvi un sorso di acqua per calmare l’animo, quando vidi raggiungerci Davide e Luana, che incuriositi, mano nella mano, fissavano Jensen, che cercava di riprendersi dalle risa.
- Ehi, ciao Elisabetta! – esclamò sorridente Luna, invitandomi ad alzarmi per salutarci con un bacio sulla guancia. La stessa cosa feci con Davide.
- Ciao ragazzi, come state? Tutto pronto per il matrimonio? – domandai un po’ curiosa anch’io.
Luana annuii e passando lo sguardo da me a Jensen, mi portò naturalmente a presentarglielo. Mi volta verso il mio ragazzo, che gentile, si era alzato per galateo, e porse la mano ad entrambi i miei amici.
- *Jensen, they are Davide and Luana, that will marry this month. I have been invited. You know I mean… - dissi in inglese, spiegandogli tutto.
Lui sorrise e disse in un italiano stentato: - Congratulationi! -.
Davide e Luana risero con garbo e ringraziarono di gusto chiedendosi ancora chi Jensen fosse:
- Davide, Luana lui è Jensen, un mio caro amico dall’America! – dissi sorridendo timidamente, lasciando qualche sguardo d’intesa con Jensen.
- Ah, capito! Bhè per quanto tempo resta qui in Sicilia? – domandò Davide curioso, voltandosi a guardalo più di una volta. Dalla sua statura, Jensen lo supera di netto, soprattutto Davide, che era solo poco più alto di me, ma più basso del mio attuale boyfriend.
- Resta fino a Natale, poi parte -, dissi annuendo.
Luana batte le mani contenta: - Puoi portare lui al matrimonio allora! Se i tuoi non sono contrari… sarebbe magnifico! Portalo, un posto per lui è assicurato! – esclamò sorridente.
Alzai le spalle e annuii poco convinta. Jensen non avrebbe approvato la cosa…e sapevo già il perché.
- Allora ci sentiamo Jensen, Elisabetta! – disse Davide, spingendo la sua futura moglie, fuori dal ristorante.
- Ci vediamo – dissi, sedendomi e fissando con un sopracciglio alzato Jensen, che dubbioso si chiedeva cosa avessi detto.
- Allora? – domandò curioso.
- Bhè sei stato invitato ad un matrimonio! – esclamai a bassa voce, continuando a mangiare la pizza.
La faccia di Jensen non fu una delle più contenti.
 
(ndt: *Jensen, they are Davide and Luana, that will marry this month. I have been invited. You know I mean…
Jensen, loro sono Davide e Luana, che si sposeranno questo mese. Sono stata invitata, sai di cosa parlo…)
 
- Ma tu guarda, siamo ad un centro commerciale, a cercare un svolazzino abito da cerimonia per uomo, invece di passeggiare come le altre coppie per le vie della città! – borbottò Jensen, stufo, mentre giravamo per i negozi nel centro commerciale in cui eravamo andati dopo cena.
E meno male che c’era quello aperto, sennò saremmo ritornati a casa senza far nulla alle dieci di sera.
- Jensen devi capire che qui non è come in America, che le coppietta vanno a cena, passeggiano per i parchi… qui non ne abbiamo! Abbiamo solo centro commerciali e campagne. Quel verde pubblico che pensi tu, bhè non esiste! – dissi triste, ammettendolo.
Jensen sbruffò per l’ennesima volta, ed entrando in un negozio per abiti da cerimonia, gli feci acquistare un abito casual ma dall’aria elegante e da cerimonia. Sembrava quasi l’avessimo acquistato in America.
- Ma spiegami almeno chi sono i due ragazzi che si sposano! – esclamò, afferrando il sacchetto con l’abito, uscendo fuori dal negozio, con me mano nella mano.
Inizia a blaterare, cosa che a lui non piacque. Sapeva che quando faceva così, c’era qualcosa sotto, perciò dovetti dirgli la verità, onde evitando di litigare un’ennesima volta.
- Ti ricordi quella volta a Miami quando piangevo e mi sono scagliata addosso a te? – chiesi, mentre ci dirigevamo agli ascensori per i parcheggi.
Lui annuii e collegando la discussione ai ricordi e a quello che mi ero successo prima che arrivassi in America, eravamo già arrivati in macchina, con l’aria condizionata calda accesa e Jensen al mio posto per guidare l’auto.
- Mi stai dicendo che noi stiamo andando al matrimonio del tuo ex fidanzato? Quello che ti ha fatto le corna con quell’altra ragazza? – domandò isterico, mettendo in moto, dirigendoci verso la strada statale, per tornare a casa.
- Mi prendi in giro spero? Cioè El, suvvia, è il ragazzo che ti ha spezzato il cuore! E che ti ha fatto addirittura scappare dal tuo paese! Cazzo, ragiona un attimo… - esclamò frustrato, guardandomi negli occhi. Mi voltai a fissarlo anch’io e mi slacciai la cintura per avere un libero movimento con le gambe. Mi inginocchiai su me stessa.
- Senti Jensen, dovevo farlo per la mia famiglia. Infondo è stata invitata dalla loro e non potevano dire di no! A quei tempi era una cosa da ragazzini! – dissi cercando di convincerlo.
Jensen squittì sdegnato: -  Ti ricordo che è stato solo otto o sette mesi fa! Tu sei scappata per lui! Te ne rendi conto? – borbottò, continuando a guardare la strada e a guardare me, fissando anche il navigatore, per seguire correttamente la strada.
- Oh Dio, smettila! E allora? Anch’io sono scappata dall’America perché abbiamo rotto! Ne fai una storia di questo? No! Sei qui, cazzo! E poi è solo un matrimonio… un maledetto matrimonio! – esclamai arrabbiata, voltandomi di scatto, e fissare fuori dal finestrino.
- Si certo, il maledetto matrimonio del ragazzo che voleva toglierti la verginità per scappare poi con un’altra…quale tua amica! - sbottò irritato, accelerando di colpo, per raggiungere il primo incrocio della strada per arrivare in città.
Sentendo quelle parole scattai di colpo, e voltandomi arrabbiata verso di lui per urlargli la prima imprecazione del cavolo che mi fosse scappata dalla bocca, vidi la luce di due fari, vernici addosso dopo essere usciti di razzo dall’incrocio in cui noi saremmo dovuti entrare.
Sgranai gli occhi di scatto e afferrando le braccia di Jensen, urlai.
- Attento, Jensen! Attento! –.
Afferrandomi di colpo, mi sbatté sulla sedia, urlandomi di tenermi forte a qualcosa; perciò afferrai di colpo con una mano la cintura dietro la mia spalla destra, ma senza che riuscissi a tirarla del tutto. Iniziai a pregare e a sperare che quello che stava succedendo, fosse solo una scena di un film d’azione, a cui avrei riso per gli effetti speciali.
Mi aggrappai alla sedia con entrambe le mani, e fissai Jensen, sperando non fosse l’ultima volta.
 
Sentii i freni stridere.
Qualcosa venirmi contro.
Bruciore ovunque.
Dolore ovunque.
Aprii gli occhi e vidi sfocata. Sentii il sapore di sangue in bocca e cercai di sputarlo. Mi ritrovai in una totale confusione, che non ricordai cosa stessi facendo prima.
Presi un respiro, e sentii male ovunque. Qualcosa di opprimente mi stringeva il petto. L’airbag. Alzai le braccia che sembravano ancora attaccate al sedile, tese e doloranti. Le alzai a peso morto lentamente, e cercando di sgonfiare quell’affare, mi ritrovai a respirare più o meno liberamente. Sentii la testa pesante quando la prima boccata di ossigeno mi pervase, ma non era solo quello ad entrare nei miei polmoni. Puzza di fumo e benzina. Il mio sesto senso mi diceva di chiamare immediatamente aiuto.
Non trovai la borsa sul cruscotto. Mi apprestai a cercarla ai miei piedi, dove trovai un lago di sangue e non capii se fosse mio o di … mi voltai a fissare se stesse bene. E il collo mi fece male. La schiena mi fece male. Non capii il perché.
- Jensen –.
La mia voce era così poco udibile a me stessa, che pensai fossi sorda.
Jensen sembrava respirare, ma era svenuto, e bloccato tra la sedia e la cintura di sicurezza.
Dovevo chiamare qualcosa, o meglio qualcuno. Perciò aprii la portiera senza più finestrino e uscii fuori.
Se fossi riuscita a farlo.
Cercai di scendere prima una gamba e poi l’altra, ma non percepii il movimento di esse, se non nemmeno al tatto delle mie mani.
Erano così pesanti e morte. Le lacrime mi offuscarono la vista. Cercai di muoverle un’altra volta, e con forza maggiore, mi alzai su due gambe, uscendo dalla macchina che distrutta, era trasversale in mezzo alla strada.
Che cos’era successo?
Mentre mi apprestavo a camminare lentamente intorno all’auto, le forze mi vennero meno, e caddi a terra per intero.
Sentii le fiamme bruciarmi la pelle, e l’asfalto disturbare la schiena dolorante. Non riuscivo più a respirare, iniziai a sputare sangue.
- Jensen – sussultai, cercando di svegliarlo.
Non mi sentii, solo silenzio, e nessuna risposta alla mia richiesta d’aiuto. Cosa avevo fatto di così sbagliato per meritarmi tutto questo?
Era questa la morte?
 
 
*spazio autrice*
 
Salve,
lo so, lo so. Cosa è successo? Ve l’avevo detto io che c’era qualcosa in servo per loro due, dopo che si sarebbero congiunti…ma come direte voi, con un incidente? E bhè, non ho molto da dire. Ma non preoccupatevi, vedrete tutto al prossimo capitolo. Io non voglio dire nulla! u.u solo una cosa:
come vi avevo detto nel capitolo 13, i dettagli sui capitoli conclusi era da prendere con le pinze. Infatti questo capitolo doveva nascere come 18esimo capitolo, ma è nato come 19esimo. Il problema è che questo capitolo, non è finito come volevo che finisse, perché sarebbe stato molto più lungo, quindi ecco che vi ritrovare un capitolo in più da leggere!
Insomma si vede che scrivendo ancora, questa storia secondo me non finirà mai xD
Ma ritornando seri (almeno per il finale capitolo, glielo dobbiamo un po’ di serietà) volevo postarvi la copertina finale e iniziale del prossimo capitolo. Non voglio mettervi ansia, ma solo postarvi un immagine con quello che è successo. Al prossimo capitolo, per qualcosa di più chiaro.
Para_muse

 
 
   
 
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