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Autore: e m m e    10/12/2012    10 recensioni
È opinione comune che, dopo il suo finto suicidio, Sherlock torni da John nel giro di tre anni.
La verità, però, è che non se n’è mai andato. Non realmente.
[Per il Big Bang Italia]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson , Mary Morstan, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Triangolo
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Informazioni di servizio: causa vacanza della mia Beta adorata questo capitolo non è betato. Pace e bene gente, quando la Gy sarà tornata metteremo le cose a posto. XD

 

Capitolo IV

L’unico motivo per cui stavano per sposarsi era la sua morte imminente.
Mary non si era abituata a questo fatto. Anzi, continuava a vivere pensando cose come: “ci penserò domani”, “l’anno prossimo mi piacerebbe andare in vacanza a Parigi” o “non vedo l’ora che Sherry porti a casa la sua prima fidanzatina”.
Il fatto che Mary non avrebbe mai visto Parigi, né tantomeno avrebbe visto crescere suo figlio tanto da scoprirlo interessato al sesso femminile non la scoraggiava minimamente.
Non riusciva a piangersi addosso: non ci era riuscita per tutta la vita e non ci riusciva adesso che stava per morire. Il suo quasi-marito diceva che la sua forza d’animo era qualcosa di insuperabile, ma la verità era che Mary non aveva fatto altro che essere se stessa per tutta la vita e adesso non poteva proprio a smettere di farlo.
E, a proposito di essere se stessi, anche quel matrimonio la stava mettendo in crisi. Lei e John avevano deciso da tempo di non sposarsi affatto, considerando un pezzo di carta che legittimava la loro unione qualcosa di cui avrebbero potuto fare a meno senza alcun rimpianto, ma adesso che lei stava per “lasciarli” – curioso come tutti evitassero di pronunciare la parola “morte” – era sembrata la cosa giusta da fare, soprattutto per il bene di Sherry.
Era stato John ad insistere, perché, anche se ufficiosamente il padre era lui, sulla carta non lo era affatto e sposarsi con la madre di suo figlio gli avrebbe di certo permesso con più facilità di occuparsi del bambino.
Per questo motivo Mary se ne stava seduta su una delle panche laterali della chiesa, ad un orario in cui avrebbe dovuto essere ancora a letto, vestita di tutto punto, con un sobrio abito color panna e un’espressione sconsolata sul volto.
Non che non volesse sposare John – amava quell’uomo con tutto il cuore e con tutta l’anima – semplicemente era consapevole che la cerimonia di quel giorno sarebbe stata il preludio ad un’altra che si sarebbe tenuta entro qualche mese, in quella stessa chiesa, senza abiti bianchi e con molte più lacrime.
Era sola e la navata risuonò piano del suo sospiro. Padre Andrew le aveva permesso di entrare, conoscendo alla perfezione la sua situazione, immaginando forse che avesse bisogno di un po’ di quel conforto spirituale che i malati terminali a volte cercano.
In verità, l’unica cosa di cui Mary aveva bisogno era la certezza di avere tutta la propria vita davanti a sé, ma dato che questa certezza non sarebbe mai venuta, dubitava che pregare davanti ad un mucchio di candele avrebbe potuto portarle qualche giovamento.
Sposare John avrebbe voluto dire la fine di tutto: fino ad allora la malattia non le aveva impedito di fare quello che voleva, o almeno non del tutto, ma il fatto che nessuno di loro due sentisse il bisogno di sposarsi e lo stessero comunque facendo rimarcava ancora di più quando ormai la leucemia avesse preso possesso delle loro vite. Era questo ciò che Mary stava cercando di evitare, e ci era riuscita per quasi due anni, ma alla fine, come aveva sempre ben saputo, aveva dovuto cedere.
Il portone della chiesa si aprì di uno spiraglio e Mary si riscosse di colpo sollevando lo sguardo. Per un attimo immaginò che fosse entrato John, in ansia per la sua scomparsa, ma probabilmente era ancora a casa a prepararsi: la conosceva troppo bene per essere preoccupato.
La testa che invece fece capolino da quello spiraglio era quella di un ragazzo, un cappello da baseball indossato al contrario gli copriva una cascata di capelli castani, masticava una cicca con assoluta indifferenza e si guardava intorno annoiato. Mary non gli avrebbe dato più di venti o venticinque anni.
« Cerca qualcuno? » domandò alzandosi in piedi e poggiando una mano sul muro freddo, colta da un improvviso capogiro.
« Signora, sono quello dei fiori... è qui il matrimonio? »
Mary si sforzò di sorridere e fece qualche passo avanti, mentre il giovane entrava del tutto e gli antichi cardini cigolavano inondando la navata di quel suono che sempre si associa alle chiese.
 « È un po’ in anticipo... » commentò lei, stupendosi in realtà di quanto il fioraio fosse in anticipo.
« Non li decido io gli orari, signo’. E poi anche lei è in anticipo! Credevo di trovare solo il prete. »
Avvicinandosi Mary si accorse che forse era stata un po’ troppo precipitosa: il giovane poteva avere tra i trenta e i trentacinque anni, non certo venti. Inoltre c’era qualcosa di strano in lui, qualcosa come di costruito, di falso.
Non ebbe paura – c’è ben poco di cui spaventarsi quando si sa di avere le ore contate – ma gli occhi chiari, freddi e intelligenti dell’uomo la incuriosirono.
« Chi è lei? » domandò. « Non ricordo di averla vista al negozio. »
« Uno nuovo » spiegò lui strusciando un paio di vecchie All Star nere sul pavimento consunto della chiesa. Mary pensò che quelle scarpe, insieme al cappello, quella maglietta lisa e a quei jeans sdruciti erano stranamente fuoriposto indossati da quell’uomo.
« D’accordo. Discutiamo fuori riguardo alla disposizione. »
Lui scrollò le spalle e le aprì il portone in modo che potesse uscire fuori. L’aria era frizzantina e il sole ancora non riusciva a scaldare del tutto l’ambiente, ma era evidente che la giornata sarebbe stata splendida.
Il furgone del fioraio in effetti era proprio parcheggiato lì davanti ed appoggiato allo sportello bianco stava uno dei commessi del negozio di fiori. Mary lo conosceva e infatti l’uomo fece un breve segno di saluto nella sua direzione.
Mary sorrise incoraggiante e si rivolse di nuovo a quello strano individuo vicino a lei.
« Niente di troppo elaborato, qualche fiore sull’altare e un po’ di decorazioni per le panche. Non vogliamo niente di appariscente, come già avevamo fatto presente al suo capo. »
« Come preferisce, signo’ »
Mary aggrottò le sopracciglia di fronte a quella risposta remissiva, come se quelle parole stonassero in qualcosa, come se non fossero quelle giuste.
E finalmente capì che cosa c’era di strano in quell’uomo: erano gli occhi, gli occhi la guardavano senza vederla, o in alternativa come se la vedessero fin troppo bene, come se conoscessero tutto di lei.
Fece un passo indietro istantaneamente non appena quel pensiero le si affacciò nella testa e non si accorse dei gradini della chiesa.
Con un’espressione di stupore scivolò all’indietro, e sarebbe certamente caduta se lui non l’avesse afferrata per un braccio trattenendola con forza.
Le sue dita erano lunghe e rovinate da un lavoro manuale, ma la prima cosa che a Mary venne in mente guardando quelle strane cicatrici fu “chimica” e non certo “fioraio”.
Si appoggiò a lui cercando di ritrovare il respiro che le si era mozzato nel petto e chiudendo gli occhi per raggiungere di nuovo l’equilibrio perduto.
«Non crolli adesso » ordinò lui, la sua voce era diversa, autoritaria, profonda e priva delle sfumature concilianti che aveva notato in precedenza.
« Chi è lei? » domandò Mary sgranando gli occhi e avvicinandosi ancora di più adesso che aveva una buona scusa per farlo.
Non lo sapeva – né lo avrebbe mai saputo – ma l’unico motivo per cui Mary riuscì a vedere oltre quel travestimento fu perché Sherlock Holmes le diede il permesso di farlo.
Non lo riconobbe, ma seppe perfettamente chi aveva davanti, lo seppe con quella certezza un po’ vaga che hanno i bambini dell’esistenza dei draghi e dei cavalieri pronti ad ucciderli, lo seppe e basta, e non appena ebbe questa consapevolezza capì che non era per niente sbagliata.
« Lei- lei è... »
« Mi hanno sconsigliato di farmi vedere qui oggi, ma la reputo una persona intelligente e so che non farà parola con nessuno di questo nostro incontro. »
Mary deglutì, sentendo la testa che si faceva più leggera ad ogni parola dell’uomo che aveva di fronte, un uomo che doveva essere morto da quasi cinque anni.
« È- è venuto per vedere John? » domandò con un sussurro.
« No » rispose lui, e non si diede nemmeno pena di nascondere quella palese bugia.
Mary si accorse allora che le stava stringendo ancora il braccio, e gliene fu stupidamente grata, perché senza quel sostegno forse sarebbe crollata a terra.
Si guardarono per un lungo istante dritti negli occhi e Mary scorse in quelle pupille qualcosa di incredibilmente triste, qualcosa di mai espresso e mai accettato che le fece venire le lacrime agli occhi.
« Quando lei morirà » disse Sherlock Holmes – perché era lui: benché non lo avesse mai visto di persona Mary ne era profondamente convinta –, « John non rimarrà da solo. »
Ci fu un’incredibile metamorfosi nell’uomo mentre pronunciava quella frase: forse non se ne rese conto nemmeno lui, ma la sua voce si addolcì e i suoi tratti si fecero meno spigolosi e lontani, i suoi occhi guardarono Mary senza vederla e per un attimo lui non fu più lì.
Oddio, pensò Mary, lo ama molto più di quanto potrei fare io in tutta la mia vita. Ma non fu un pensiero conscio e svanì qualche attimo dopo senza lasciare niente dietro di sé, se non una vaga sensazione di malessere che si confuse con la spossatezza che la accompagnava ogni giorno.
« Riesce a stare in piedi da sola? » domandò poi a voce più alta, facendola trasalire.
Mary prese un profondo respiro e disse che sì, ce la faceva.
A quel punto nell’uomo avvenne un ulteriore trasformazione e Mary lo vide tornare ad essere il fattorino di venticinque anni che era entrato nella chiesa meno di cinque minuti prima.
Se non avesse saputo la verità, se lui non le avesse permesso di vederlo per come era veramente, per Mary sarebbe sempre e solo rimasto il nuovo commesso del negozio di fiori a cui si era rivolta per le decorazioni del proprio matrimonio.
Lo osservò allontanarsi con quel suo strano e straniante passo strascicato, raggiungere il suo compagno e farsi un tiro dalla sigaretta che lui stava fumando.
Li guardò dall’alto dei gradini mentre entrambi scaricavano i mazzi di fiori e poi ordinò, come in un sogno, di disporli secondo il suo gusto.
Le obbedirono in tutto con allegri sorrisi sulle labbra e battute simpatiche tra di loro.
Per tutto il tempo Mary dovette trattenere le lacrime e si rese ben presto conto di essere entrata a far parte di una commedia, uno dei personaggi minori, forse anche uno di quelli meno amati, un antagonista che non sapeva di essersi intromesso tra i due protagonisti.
La sua parte era stata recitata magistralmente e come tutti gli antagonisti anche lei era giunta al suo atto finale, quello che avrebbe reso possibile al protagonista di tornare sulla scena, ottenere gloria e onori e tutti gli applausi e le lacrime di commozione del pubblico.
Stranamente questo pensiero non la inquietò, non si rammaricò di essere vicina al calare del sipario. Dopotutto, c’era solo una cosa che le premeva oramai: che John e Sherry non rimanessero da soli.
E su quel punto si era già fatta un’idea di come la storia sarebbe finita.

***

Il bambino cammina compito con la piccola mano stretta a quella del padre: lo hanno costretto ad indossare una camicia bianca con una ridicola cravattina nera ed una giacca scura che gli pende inerte dalle spalle: si muove impettito e a disagio. John mostra di essere nelle stesse condizioni del figlio, stretto nel suo abito da lutto, costretto a rispondere alle inutili e vuote condoglianze di coloro che sono giunti ad onorare la memoria della moglie.
Li vede passare, come in una lenta processione: Lestrade, la signora Hudson, Molly, qualche amico del dipartimento, Sarah, altri dottori di cui non ricorda il nome né è importante ricordarlo, genitori di compagni di scuola del bambino e altra gente inutile.
Fuori dalla chiesa un mendicante siede a terra a gambe incrociate, proprio accanto al pesante portone di legno. Ha il volto piegato verso il basso: l’unica cosa che lo protegge dalla pioggia è una tettoia di metallo arrugginito.
Mentre padre e figlio entrano nella chiesa, circondati da parenti e amici, entrambi lanciano uno sguardo all’uomo seduto a terra, che, senza sollevare gli occhi, allunga un braccio verso di loro, la mano chiusa a coppa, tesa nel tentativo di ricevere qualche spicciolo.
Il bambino ha tre anni, otto mesi e dodici giorni di vita.
Sono cinque anni, tre mesi e ventitre giorni che Sherlock non vede John.
Anzi, sarebbe meglio dire che sono cinque anni, tre mesi e ventitre giorni che John non vede Sherlock, dato che quest’ultimo lo ha visto molte volte, lo ha sorvegliato, osservato, controllato e spiato.
Ma dopo tutti quegli anni anche Sherlock Holmes è arrivato a capire che, per quanto dal punto di vista logico-grammaticale la frase esatta sia la seconda, in effetti la prima rispecchia ogni sfaccettatura della realtà – e dei suoi sentimenti – in modo molto più corretto.
Nell’ora e mezzo in cui si svolge il funerale di Mary Morstan in Watson – circostanza per la quale sua madre ha pregato a lungo, Sherlock ne è tranquillamente consapevole – lui non fa nulla per tentare di ripararsi dalla pioggia.
Una volta un attore abbastanza famoso disse che il lavoro di Consulente Investigativo aveva privato le scene di un grande interprete e a dire la verità Sherlock sa calarsi nella parte che vuole interpretare in modo perfetto. Lo sa fare principalmente perché è un acuto osservatore della natura umana, e non c’è niente di più facile dell’imitare qualcosa che si ritiene profondamente deviato.
Può tramutarsi in chiunque, Sherlock Holmes, e in ogni caso riesce ad ingannare sempre coloro che devono essere ingannati. Ma basta tornare ad essere se stesso perché i panni che si è premunito di indossare si trasformino di nuovo in semplici vestiti e la maschera crolli.
Quel giorno, mentre la pioggia scivola lentamente sul suo volto, con il rischio concreto che la barba posticcia che indossa si stacchi e cada a terra, Sherlock Holmes ha smesso di essere il barbone che impersonava nell’esatto momento in cui John Watson e suo figlio sono entrati nella chiesa, e stancamente ha ripreso possesso della propria identità.
È stanco; la commedia è stata lunga e il sipario non accenna a calare: rimane solo lui sulla scena, in attesa dell’applauso di un pubblico che riesce solo a guardarlo intimorito.
Quella che doveva essere una rappresentazione breve e rilassante si è tramutata in una lunga corsa, in un continuo oscillare tra verità e menzogna, desiderio e tentativo di sopprimerlo.
Soltanto Sherlock sa – no, questa volta nemmeno suo fratello o sua madre possono immaginarlo – quante volte abbia desiderato bussare alla porta del suo John e mostrarsi a lui, vivo.
Ma c’era il bambino, e c’era Mary Morstan.
E c’era anche John; ed è proprio grazie a lui che Sherlock ha capito che cosa significhi amare davvero qualcuno e che cosa significhi sacrificare tutto e tutti pur di rendere felice qualcuno da cui, per contro, dipende la tua intera felicità.
La successiva ora e mezza in cui le campane suonano a lutto e le persone passano davanti a lui sulla strada facendosi da parte, come intuendo che quello che sta avvenendo nella chiesa è proprio un funerale, gli occhi azzurri di Sherlock si specchiano nelle pozze di acqua sporca che si formano sul marciapiede e la sua mente si chiude su se stessa, preparandosi all’atto finale, l’epilogo.
Tutto è commedia, ha detto il Maestro, la morte, il dolore, la fame, la disperazione... tutto è commedia.
Ebbene, che fosse posto fine al dolore, in quella commedia.
Le porte della chiesa si aprono, il sipario si alza per l’ultima volta, Sherlock Holmes torna ad essere un semplice mendicante che in muta supplica tenta ti sopravvivere ancora un giorno.
L’ultimo ad uscire è John accompagnato dal parroco, il bambino gli cammina a fianco, la mano stretta alla falda del suo cappotto.
Il parroco gli dice qualche ultima parola di conforto e John si avvia verso gli amici che lo attendono al di là della strada, dedicando un sorriso triste a suo figlio.
Harriet Watson ha un ombrello scuro e sembra impaziente che suo fratello vada a riparasi sotto di esso.
Ma John, superate le scale della chiesa si ferma e guarda dietro di lui, lasciando proseguire da solo il bambino che non si accorge subito che il padre si è bloccato.
John si volta e posa il suo sguardo sul mendicante.
La pioggia scivola sul suo volto e sulle scarpe rotte dell’uomo seduto contro al muro della chiesa.
John si avvicina, le mani infilate nelle tasche e lo guarda a lungo.
« Sherlock » dice atono, la voce che rischia di incrinarsi.
Il mendicante alza la testa molto piano, gli occhi sono azzurri come il cielo privo di nuvole.
« Sherlock! » dice John a voce più alta spostando lo sguardo sulla mano bagnata e tesa dell’uomo davanti a lui.
Il bambino si fa avanti tornando a fianco del padre.
« Sì, papà? » domanda, alzando il visetto verso quello di John.
« Dà qualche moneta a questo signore. »
Il bambino sorride al mendicante e risponde: « Subito! » poi si cerca nelle tasche ampie della sua giacchetta troppo grande per lui e estrae qualche monetina.
Il mendicante le accetta con un muto gesto di ringraziamento.
« Vuoi darti una mossa, Sherry?! » grida dall’altra parte della strada Harriet Watson.
Il piccolo si volta di nuovo, incerto spostando i suoi occhi tra la zia e il padre.
« Corri dalla zia, Sherlock » gli concede John, poi si volta anche lui, dando le spalle al mendicante e incamminandosi con passo fermo verso la macchina della sorella, che lo riporterà a casa.
La commedia è davvero finita quando l’automobile parte e il mendicante torna a vestire i panni di Sherlock Holmes.
Si solleva dalla posizione rannicchiata tenuta per tutto quel tempo e raccoglie da terra qualcosa che è caduto dalle tasche di Sherry, o Harry, o Sherlock.
È un miracolo che quel bambino non soffra di crisi d’identità.

***

Quello che John avrebbe voluto fare una volta tornato a casa sarebbe stato distendersi sul divano e uccidersi di whisky non appena avesse messo a letto Sherry, ma la sua – ora pulita e sobria – sorella glielo impedì.
Harriet si stanziò in casa sua per le successive tre ore, alternando le proprie amorevoli attenzioni prima al fratello e poi al nipote, il quale per fortuna non sembrava così straziato come il padre aveva immaginato che accadesse.
Non era troppo piccolo per capire – che cavolo! Quel bambino leggeva libri che erano consigliati a partire dai sette anni in su! – e John e Mary lo avevano preparato e lungo, e quanto loro consentivano le forze, a quel distacco forzato.
Sherry non aveva mai pianto tranne tre giorni prima della morte della madre, quando oramai era chiaro che ogni respiro in più che Mary avrebbe fatto sarebbe stato un puro miracolo.
Aveva pianto allora trascinandosi, inconsolabile, un po’ tra le braccia del padre e un po’ tra quelle della madre che per lui faceva l’immenso, incongruo sforzo di sorridere.
Quando Mary era morta John aveva tirato un sospiro di sollievo e Sherry si era addormentato, quasi pacifico, nella poltrona verde dell’ospedale.
Non aveva nemmeno cinque anni eppure aveva capito quanto la sua mamma avrebbe fatto meglio a morire in fretta se non voleva soffrire le pene dell’inferno.
John osservò quel bambino straordinario – un QI equivalente a quello di un decenne – che giocava con le sue costruzioni sul tappeto in salotto, il volto pallido, le labbra strette, i capelli a coprire la fronte, ma niente lacrime.
Harriet continuava a saltellare dalla cucina al salotto, controllando che nessuno di loro due stesse per impiccarsi ad una trave, senza rendersi conto di quanto in realtà padre e figlio desiderassero solo rimanere da soli, l’uno immerso nel silenzio dell’altro.
Ad un certo punto, quando il disco di Bach aveva concluso il suo giro la settima volta e stava per iniziare di nuovo da capo Harriet fece capolino dalla cucina e disse: « Possiamo cambiare musica? Quel disco è straziante. »
Sherry alzò la testa verso la zia: « A me piace. Si chiama Sonata N° 2 in LA minore e a me e a papà ricorda i bei vecchi tempi. »
Harriet sembrò stordita da quelle parole che sarebbero state più normali pronunciate da un ottantenne, ma non replicò niente e tornò a chissà quali occupazioni.
Sherry si alzò in piedi e andò a sedersi a terra, accanto al padre.
« Quali sono i bei vecchi tempi, papà? »
John gli posò una mano sulla testa, e avendo rinunciato a spiegare il figlio che il pavimento non era il posto migliore dove sedersi e che esistevano le sedie, i divani, i cuscini e quant’altro, disse: « Per definizione sono i tempi che non torneranno più, in cui siamo stati felici e giovani e spensierati. »
« Quindi non saremo più felici? »
Con un sorriso John si chinò in avanti a sbirciare negli occhi scuri del bambino. « Smettila di fare finta di non capire, Sherry. Sai che cosa intendo. »
Sherry strinse le labbra, come se fosse contrariato: gli piaceva giocare al fare il bambino normale, come i suoi compagni di classe che non capivano cose come metafore, allusioni e ironia. Erano tutti sciocchi e stupidi e solo il suo papà riusciva a capirlo.
Decise di tornare alla sua occupazione, mentre le note di Bach continuavano a risuonare per tutta la casa e John lo guardava, chiedendosi se non fosse poi stata colpa sua se il cervello di Sherry era uscito fuori così all’avanguardia: era stato lui, dopotutto, a scegliere di battezzarlo in quel modo, e avrebbe dovuto sapere che il nome “Sherlock” non avrebbe portato niente di... normale.
Dopo tre infinite ore finalmente Harriet decise che era il caso di alzare le tende e John le espresse tutta la sua gratitudine.
La osservò incamminarsi per la strada e scoppiare a piangere quando ancora non era uscita dal vialetto. Cara, coraggiosa Harry.
« È ora di andare a dormire Sherry, a meno che tu non voglia mangiare qualcosa... Ho visto che hai nascosto il sandwich della zia Harry nel vaso della mamma. »
Sherry sollevò gli occhi dal suo giocattolo che stava smontando con cura sul pavimento e lo guardò con un sorrisetto: « La zia dice che sono deperito. »
John si strinse nelle spalle: aveva smesso di chiedersi da lungo tempo come suo figlio conoscesse il significato di parole come “deperito” o “intransigente” o “intraprendere” e simili altre.
« Se non vuoi mangiare non farlo. Nemmeno io ho fame. »
« Voglio andare a dormire, papà » disse Sherry alzandosi in piedi e porgendogli le braccia per essere sollevato.
John lo prese in braccio e lui si aggrappò al suo collo con forza, come faceva sempre.
« Papà... oggi ho perso il mio libro alla chiesa. Posso venire a dormire con te, se ho paura? »
Sherry era fatto così, passava di palo in frasca senza apparente logica.
« Non preoccuparti per il libro. Di che cosa hai paura? »
« Di qualcosa... » sussurrò il bambino, gli occhi già mezzi chiusi, mentre John saliva lentamente le scale.
Quando arrivarono in camera di Sherry il piccolo stava praticamente già dormendo e John lo spogliò facendogli indossare il pigiama e infilandolo nel letto.
In effetti aveva resistito molto più di quanto si sarebbe aspettato: durante la notte precedente suo figlio aveva dormito ben poco, camminando per la casa con il suo orso di peluche, come sempre gli accadeva quando era turbato.
John non aveva fatto nulla per impedirgli quel silenzioso girovagare, ma anche lui non aveva chiuso occhio pensando a Mary e alla sua vitalità rinchiusa in una cassa che entro poche ore sarebbe finita sotto terra.
E in quel momento, dopo il funerale, il suo pensiero corse automatico ad un altro funerale, avvenuto ormai più di cinque anni prima.
John scese le scale passandosi una mano sugli occhi.
« Basta... » sussurrò piano al nulla. « Esci da qui » e si massaggiò le tempie chiudendo gli occhi.
Si stava versando il primo di molti bicchieri di whisky quando il campanello suonò.
Spostò lo sguardo sull’orologio: le otto e trenta. Non era troppo tardi per una visita, ma non era nemmeno un orario normale, soprattutto per andare a trovare un uomo che aveva appena sepolto la moglie.
Sospirando si apprestò ad andare ad aprire la porta – dopotutto la sua educazione inglese quasi glielo imponeva – e ad essere gentile con chiunque fosse giunto in estremo ritardo a porgergli le condoglianze o in alternativa a vendergli un’enciclopedia.
Quando aprì la porta rimase un attimo interdetto perché qualsiasi aspettativa avesse avuto fu spazzata via dall’uomo che si trovò davanti.
Con sua grande meraviglia il visitatore altri non era che il mendicante di quella mattina, lo stesso volto scurito dalla sporcizia, la stessa barba lunga e incolta, gli stessi abiti stracciati e in ogni caso troppo leggeri per quella stagione.
« Lei è sorpreso di vedermi, signore » gracchiò con una strana voce chioccia.
John ammise che, in effetti, lo era e di certo non lo avrebbe invitato ad entrare se quello non avesse stretto sotto il braccio il libro che Sherry aveva perduto quello stesso giorno davanti alla chiesa. Il titolo era “Storie di indiani d’America” e apparteneva con assoluta certezza a suo figlio.
« Be’, sono un uomo di coscienza, signore, e quando per caso ho visto cadere questo libro dalla tasca del suo bambino non ho potuto fare a meno di seguirvi in modo da restituirlo al legittimo proprietario che era stato così gentile con me. »
Quell’eloquio gentile e forbito al tempo stesso ebbe il potere di conquistare John che, quasi senza pensarci si fece da parte mentre domandava: « Come ha fatto a sapere dove abitavamo? » domandò, senza rendersi del tutto conto di stare introducendo in casa propria un emerito sconosciuto, probabilmente disposto a tutto pur di trovare qualcosa di che vivere.
« Ho chiesto al parroco » spiegò l’uomo mentre John gli chiudeva la porta alle spalle. « È un vecchio amico. »
Rimasero entrambi in piedi qualche attimo e John stava quasi per proporgli qualche vecchio vestito che lui aveva smesso, benché il mendicante avesse una figura più alta e longilinea della propria. In ogni caso era intenzionato a dargli almeno dei soldi, quando Sherry scese le scale lentamente comparendo nell’ingresso.
John si avvicinò al bambino, spostando l’attenzione dal mendicante al figlio e quando si voltò di nuovo Sherlock Holmes gli sorrideva attraverso l’ingresso.
« Il mio libro! » gridò Sherry con grande gioia precipitandosi verso lo sconosciuto che sconosciuto non era più e che si limitava a fissare John con i suoi familiari, incredibili occhi, aspettandosi da lui una reazione che tardò ad arrivare.
A John sembrò di osservare la scena da un’altra galassia: lo Sherlock bambino che correva verso lo Sherlock adulto – che lui aveva visto morto. MORTO! – lo Sherlock adulto che consegnava il libro sugli indiani d’America allo Sherlock bambino senza mai distogliere la propria attenzione da John.
Il dottore dovette appoggiarsi al muro, perché per la prima e unica volta nella sua vita, rischiò seriamente di svenire per lo shock. Non svenne alla fine, ma solo grazie allo sguardo allarmato di suo figlio che si precipitò verso di lui spaventato.
« Papà! Che ti succede!? » domandò aggrappandosi al suo braccio e tirandolo in basso.
Sherlock Holmes fece un passo avanti quando il ginocchio malandato di John non lo sostenne e lui scivolò lungo il muro, azione coadiuvata dal peso del bambino, e gli afferrò una spalla, sorreggendolo.
« Mio caro John » disse, con la voce che John ricordava così bene. Al di là di quella barba – Dio, come aveva potuto credere che fosse vera? – e di quei vestiti luridi Sherlock Holmes lo guardava con preoccupazione, se mai quella sottospecie di essere umano avesse potuto provare qualcosa di simile alla preoccupazione. « ti devo mille scuse, non pensavo- »
John non lo fece finire e se avesse potuto non lo avrebbe nemmeno fatto cominciare: lo agguantò per le braccia e, guardando da qualsiasi parte tranne che verso di lui, lo sospinse verso la porta chiusa.
« Sherry » disse con voce ferma, pesante come pece, « apri la porta per papà. »
Sherry spostava lo sguardo tra i due uomini, senza capire, senza nemmeno poter immaginare, ma aveva il panico dipinto a grandi lettere nel viso.
« John » disse Sherlock.
Sherlock che era vivo. Sherlock, che non si era dato peso di comunicargli quella banale notizia per cinque, lunghi, interminabili, incomprensibili anni.
John lo spinse fuori dalla porta che Sherry gli teneva aperta, poi gliela chiuse davanti al viso, mentre l’altro stava già facendo un passo avanti per rientrare.
Rimase con le mani strette attorno al pomello, la fronte appoggiata al legno, le labbra tremanti, il cervello in subbuglio.
« Papà... » pigolò Sherry tirandogli piano una manica della camicia che ancora indossava dopo il funerale.
« P-portami quel bicchiere sul tavolo in cucina » ordinò John con voce apparentemente calma, nonostante l’inciampo iniziale.
Sherry si affrettò ad obbedire, correndo sulle sue gambette magre prima in cucina e poi di nuovo dal padre, tentando di non versare nemmeno una goccia di liquido marrone che mandava lo stesso odore dei prodotti che la mamma usava per pulire il bagno.
John non era certo di poter lasciare andare la porta, o in ogni caso allontanarsi da una qualsiasi superficie verticale o orizzontale su cui potersi appoggiare, senza crollare a terra come un sacco svuotato di ogni contenuto.
Sherlock, continuava a dirgli la sua mente, Sherlock Sherlock Sherlock, il suo Sherlock.
Dopo cinque anni. Vivo. Sherlock. Sherlock.
Ingoiò in un lungo sorso il liquore che il bambino gli porgeva, ignorando i suoi occhi sgranati e spaventati. Era lui il più spaventato, era lui che rischiava di registrare il momento esatto in cui la propria sanità mentale sarebbe finita per sempre nel dimenticatoio.

Si aggrappò con forza inaudita a quella maniglia.
Se davanti a lui non ci fosse stato Sherry avrebbe potuto quasi credere di essersi immaginato tutto: un’allucinazione da stress, magari.
Ma suo figlio disse: « Chi era quello, papà? »
John lo guardò, beatamente ignaro dell’espressione allucinata del proprio volto che avrebbe portato alle lacrime qualsiasi bambino, ma certo non Sherry, perché lui non era un bambino normale – Daralis Holmes non avrebbe avuto difficoltà a confermarlo – e sentì la propria voce rispondere per lui: « Quello, quello era un fantasma ».

***

Lo squillo del telefono lo svegliò di soprassalto lasciandolo stordito e del tutto incapace di comprendere perché si sentiva come un uomo che ha preso una sbronza colossale ed è collassato sul proprio letto.
Poi ricordò: aveva preso una sbronza colossale ed era collassato nel proprio letto.
Per un folle attimo pensò di aver lasciato da solo Sherry tutto il giorno e tutta la notte, poi rammentò che da due giorni Sherry dormiva dalla zia.
Il telefono continuò a squillare quando John, allungando un po’ la testa, scoprì dal proprio orologio che erano appena passate le sette di sera.
Aveva dormito parte della notte e quasi tutto il giorno.
Arrancava verso il bagno quando finalmente il telefono si zittì e John ringraziò il cielo per il benedetto silenzio.
Prese tre aspirine e ordinò alla propria gola gonfia di buttarle giù.
Ci riuscì dopo una paio di bicchieri d’acqua.
Pensò molto seriamente di tornarsene a letto e dormire per altri due o tre decenni, quando il telefono ricominciò a squillare.
Rispose soltanto perché avrebbe potuto essere successo qualcosa a Sherry.
« Eh? » domandò alla cornetta.
« Credo che tu abbia bisogno di sbronzarti pesantemente » rispose la voce di Lestrade.
« Già fatto, grazie. »
Stava per riagganciare quando l’altro aggiunse: « Sono fuori dalla porta di casa tua, se non mi farai entrare posso farmi dare un mandato. »
« Non lo faresti. »
« Non mettermi alla prova, John. »
John tentennò un po’, strusciando i piedi per terra: in effetti aveva davvero bisogno di annegare i suoi pensieri – già fin troppo svegli – in un ennesimo giro di alcolici.
« D’accordo » disse e riagganciò.
Si trascinò al piano di sotto e aprì la porta.
Lestrade aveva il suo stesso sguardo allucinato, gli occhi iniettati di sangue e la barba non fatta da due giorni.
Grazie di essere tornato Sherlock Holmes, grazie tante.
« Non voglio parlarne » si affrettò a dire John.

Lestrade entrò in casa sua e si sedette pesantemente sulla prima poltrona che incontrò. « Bene, perché non avevo alcuna intenzione di farlo. Il bambino? »
« Da mia sorella. Non sa praticamente nulla di questa storia. »
Lestrade annuì, come se approvasse l’estraneità di Sherry ai fatti. « Adesso mettiti qualcosa addosso e andiamocene. È dai tempi del mio divorzio che non mi ubriaco in modo scientifico. »
John pensò che quell’espressione – ubriacarsi in modo scientifico – sarebbe piaciuta a Sherlock.
Immediatamente dopo sentì il bisogno di sbattere la testa contro il muro per aver pensato di nuovo a lui.
Era maledettamente difficile non pensare al detective ora che aveva voluto fare prendere un infarto a tutti con il suo teatrale e drammatico ritorno, ma John stava facendo del suo meglio.
Cercava di bloccare nel petto quell’enorme miscuglio di rabbia, delusione, euforia, autocommiserazione e sollievo che per ogni istante che passava rischiava di schiacciarlo un po’ di più, come se una mano gigante premesse con sempre maggior violenza sulla sua testa.
Sospirò e si incamminò di nuovo al piano superiore per indossare un paio di jeans e un maglione pulito, sempre che in casa ve ne fossero.
Non si premurò di farsi la barba o lavarsi il viso, ma prima di uscire bevve un altro paio di bicchieri dal rubinetto: dentro di sé gli sembrava di avere un deserto che tutta l’acqua del mondo non sarebbe stata in grado di bagnare.

Greg lo portò in giro dentro la sua macchina personale senza quasi che si rivolgessero la parola.
Quando era loro capitato di uscire nei mesi e negli anni precedenti avevano sempre parlato del più e del meno, senza che strani silenzi si interponessero tra loro. Quella volta però nessuno dei due se la sentì di aprire bocca, non senza aver raggiunto un livello moderato di ubriachezza.
John non era mai stato uno che trovava nell’alcol la soluzione ai suoi problemi: alla – falsa – morte di Sherlock non aveva tentato nemmeno di alleviare il dolore, e alla – vera – morte di Mary non ne aveva avuto il tempo. Ma in quel caso, c’erano troppe cose non dette, pensieri non pensati, ore di solitudine che avrebbero potuto essere riempite, che pesavano sopra di lui e lo lasciavano spossato.
Pagò tutto Greg, senza chiedere mai nulla né imporre nulla.
Per tutta la sera fu lui quello che si tenne moderatamente sobrio, in modo da essere in grado di tornare a casa, mentre John si lasciava sempre di più andare.
Non voleva pensare a Sherlock, non voleva pensare a suo figlio, a cui aveva dato il nome dell’amico morto, non voleva pensare a Mary, e all’infinita serie di castelli in aria che aveva sorretto gli ultimi suoi mesi di vita. Non voleva pensare che la propria esistenza non era mai stata tanto sull’orlo di un baratro come in quel momento.
« Perché è tornato adesso? » domandò ad un certo punto della serata. Non c’era niente nella sua voce che potesse testimoniare quanto in realtà aveva voglia di urlare quelle parole in faccia a Sherlock, quanto avrebbe voluto prenderlo a pugni per tutto ciò che gli aveva fatto passare.
« Non lo so John, non è che ci abbia parlato molto, eh. »
John ingollò un bicchiere di qualcosa. Il sapore era come di mele marce e farinose.
« Ci hai parlato? »
« In realtà gli ho urlato contro. E gli ho tirato un pugno » rispose Greg e dopo un minuto ridacchiò. « Sembrava che se lo aspettasse, quello stronzo. »
John guardò il fondo del proprio bicchiere, le gocce di liquido scuro che scivolavano lungo il bordo come lente tracce di sangue.
« Avrei dovuto picchiarlo anche io » commentò senza sollevare lo sguardo. « Di sicuro mi sarei sentito meglio. »
« Non saprei... non è che io stia molto meglio di prima. »
Le parole di Greg sembravano le une uguali alle altre, come se il discorso che stavano facendo lo avessero già vissuto. John si sentì come il protagonista di uno di quei sogni in cui cadi, cadi, cadi verso un fondo nero e sconosciuto e per quanto tu possa urlare e chiedere aiuto non c’è nessuno che arrivi ad afferrarti la mano.
« Lo amavo » disse, una parte della sua mente ben consapevole che doveva essere davvero molto ubriaco per dire ad alta voce qualcosa che aveva a malapena iniziato ad ammettere con se stesso.
« L’ho capito dopo che è morto, cioè, dopo che... insomma, quello. Mary era un fottuto rimpiazzo. ‘Fanculo, Greg! Che razza di uomo sono? Non l’ho mai amata quanto meritava! Cristo... »
Si voltò vero l’ispettore, ignaro di quanto la sua faccia fosse spaventata e addolorata. Greg lo fissò di rimando, senza tradire il minimo stupore.
John sentì l’estremo, violento bisogno di parlare con Mary.
« Devi portarmi al cimitero, Greg. »
Lui sbatté le palpebre: « È chiuso, adesso. »
« Allora mi aiuterai a compiere un’effrazione. »
« Mi prendi in giro o sei talmente ubriaco da non ricordarti più quale sia il mio lavoro? »
« In questo momento non sono sicuro di ricordarmi nemmeno il mio indirizzo di casa. L’unica cosa che voglio fare è parlare con mia moglie. »
Greg trovò saggio non ricordargli che Mary era morta, ma lo prese per un braccio e insieme uscirono dal locale. Per un attimo la musica li seguì anche all’esterno, poi la porta si chiuse e i familiari rumori notturni della City li accolsero come una vecchia mamma accoglie i figli tornati dalla guerra.
Ma per John la guerra era appena ricominciata.
E quando un’improvvisa sensazione di sollievo andò a coprire ogni altro suo confuso sentimento, si sentì talmente uno schifo da desiderare di scomparire dalla faccia della terra.

John si appoggiò sfinito alla lapide di Mary.
In realtà non era certo che quella fosse esattamente la lapide di Mary, dato che lui e Greg si erano persi un paio di volte nei meandri del cimitero, ma pensò che alla fin fine non facesse poi molta differenza.
Dopotutto Sherlock non era mai stato nella sua tomba e forse la stessa cosa era accaduta per sua moglie.
Scosse la testa per schiarirsi le idee e sentì il respiro rapido dell’ispettore alle sue spalle che si allontanava per dargli un po’ di privacy.
Erano entrati scavalcando il muro di cinta, e soltanto Dio sapevo dove avrebbero trovato di nuovo le forze per tornare indietro. Ma ci avrebbe pensato dopo.
« Come puoi aver amato un uomo come me? » domandò al marmo bianco. Un’improvvisa falce di luna illuminò per qualche attimo la scena e John posò gli occhi – con sollievo – sui capelli rossi che Mary sfoggiava nella foto che lui e Sherry avevano scelto per metterla sulla lapide.
« Come puoi aver affidato ad un uomo come me un bambino come tuo figlio... Non ho fatto altro che dirti bugie. Cristo... se fosse tornato- se fosse tornato prima io- io... »
Che cosa avresti fatto, John? Te ne saresti andato? Lo avresti perdonato? Avresti lasciato tua moglie e tuo figlio per lui?
« Non lo so. Non so più niente. Tu sapresti che cosa dirmi adesso: avevi sempre il consiglio giusto per tutti » poi più piano, gentilmente: « Non ti meritavo, Mary... non mi merito niente di quello che ho adesso. »

Si sedette pesantemente sull’erba umida e fresca, poggiando sul marmo la guancia ruvida di barba non fatta e chiudendo gli occhi.
« Non so che cosa fare. Non ho la più pallida idea di quello che dovrei fare. »
Rimase in silenzio, mentre un gufo da qualche parte faceva risuonare il suo lugubre richiamo. John pensò che sarebbe stato facile addormentarsi lì, abbracciato alla lapide di sua moglie, sperando di essere accolto dalla terra.
Non aveva mai sopportato la solitudine, era sempre stato abituato ad avere degli amici, qualcuno su cui appoggiarsi e a cui fornire un appoggio. Sapeva bene di avere Sherry accanto a sé, e sapeva anche che spesso il bambino era più un appoggio per lui piuttosto che viceversa, ma non era psicologicamente pronto a riavere Sherlock nella sua vita. Uno Sherlock originale, in carne, ossa e zigomi sporgenti.
La vita era più semplice quando c’era solo quella sua piccola copia in miniatura che girava per casa: John non doveva preoccuparsi dell’amore bruciante che provava per lui. Non doveva sentirsi in colpa, ma fiero di quell’affetto ricambiato.
« Come ho potuto non parlarti di Sherlock per così tanto tempo? » bisbigliò piano.
Si sentiva un rifiuto, qualcosa di non degno nemmeno di essere raccolto e aggiustato: sapeva perfettamente perché era andato a parlare con sua moglie quella sera.
John Watson voleva che Mary gli desse il permesso.
Il permesso di concedere a se stesso di risvegliare i sentimenti sopiti per Sherlock, oppure il permesso di ammettere che non erano affatto sopiti e che per cinque anni John aveva vissuto accanto a Mary solo perché non c’era altra cosa da fare.
Dio, che schifo, che schifo!
« Menomale non sei più qui» disse ancora, e lo pensava davvero. « Grazie a Dio non puoi essere delusa da me più di quanto io non abbia già deluso me stesso. »
Si alzò barcollante e dovette sorreggersi nuovamente per evitare di piombare a terra come un peso morto.
Nel buio fece qualche passo nella direzione in cui credeva trovarsi Greg e in effetti lo trovò.
L’ispettore fu lesto nel prenderlo sotto braccio ed aiutarlo a camminare.
« Greg » disse John con voce impastata, « credo di star per vomitare. »
Le parole di Greg lo raggiunsero da molto lontano: « Per come sei messo mi meraviglio che tu non lo abbia già fatto... splendido, sarò licenziato per atti osceni in luogo pubblico e deturpazione di proprietà governativa. »
Ma John stava già vomitando appoggiato alla corteccia di un albero per prestargli reale attenzione.

***

« Hai bevuto molto? » domandò Sherry la mattina dopo – era domenica e lui non doveva andare a scuola – non appena Harriet lo ebbe condotto in casa.
John percepì una violenta fitta alla testa al suono della porta che si chiudeva.
« Non molto » mentì.
Sherry scosse le spalle e John seppe che non gli aveva creduto nemmeno per un secondo. Poteva notare le cose come faceva Sherlock e questa sua caratteristica lo stava uccidendo lentamente.
E pensare che prima adorava tutta la faccenda.
Per un folle attimo pensò che in realtà l’uomo misterioso che aveva passato una notte con Mary mettendola incinta altro non era che Sherlock Holmes, il quale aveva creato tutta quella storia per chissà quale subdolo piano, ma poi scosse la testa dandosi dell’idiota.
« Colazione? » domandò al bambino che andò a sedersi per terra sotto il tavolo.
« Ho mangiato dalla zia. »
« La zia ha detto che non hai voluto mangiare niente. »
« La zia dice le bugie. »
John si passò una mano sulla faccia, stanco. « So che la mamma ti manca, Sherry... ma non è un buon motivo per non mangiare. »
« Non ho fame. »
John non disse niente e guardò con disgusto la tazza di caffè che si era preparato: aveva lo stomaco così sottosopra che la sola idea di ingerire qualcosa lo faceva rabbrividire.
Sherry iniziò a giocherellare con un cacciavite che si tirò fuori dalla tasca e John gli lanciò uno sguardo torvo: « Sai che non mi piace quando giochi con quelle cose. »
Gli occhi scuri del bambino, ombreggiati dai ciuffi di capelli rossi adesso decisamente troppo lunghi si sollevarono di scatto e andarono a scrutarlo. John si sentì sotto esame, ma era un esame che poteva sostenere.
« Perché non vuoi dirmi la verità, papà? La mamma diceva che la verità è la cosa più importante di tutte. »
Piccolo manipolatore, sapeva giocare bene le sue carte. John sentì il sapore acre della bile sulla lingua e si sedette, scaldandosi i palmi freddi contro la tazza di caffè ancora intatta.
« Non c’è niente da dire, Sherry: l’uomo da cui hai preso il nome, che tutti noi credevamo essere morto, si è rifatto vivo tre giorni fa. »
« E non è una bella cosa? » domandò il bambino.
Erano quelli i momenti migliori, quelli in cui Sherry dimostrava finalmente di avere cinque anni e non quaranta, quei momenti che John aspettava con un desiderio pari a quello che aveva provato anni prima nell’aspettare gli attimi in cui l’umanità di Sherlock decideva di comparire così all’improvviso e in modo tanto gratificante per chi riusciva a scorgerla.
« È una cosa bellissima. Ma allo stesso tempo per noi – per me – non è facile perdonare qualcuno che ha finto la sua morte per così tanto tempo, mi capisci? »
Sherry aggrottò le sopracciglia: « Se la mamma tornasse io non sarei arrabbiato. »
John si alzò con un sospiro e annaspò con le braccia sotto il tavolo cercando di afferrare il bambino per le ascelle.
Lo sollevò in alto e le sue piccole mani andarono a stringersi sul suo maglione.
« Non è la stessa cosa. La mamma non ha scelto di morire. Lui invece ha fatto una scelta deliberata, sapendo bene quanto tutti i suoi amici avrebbero sofferto e poi ha deciso di rimanere in silenzio per tanto tempo, tanto tanto tempo, quando a tutti noi sarebbe bastata una telefonata, un messaggio, una lettera. Non avrei chiesto nient’altro: un misero messaggio sul cellulare- » John si bloccò, perché non stava più parlando a suo figlio e la sua voce si era incrinata all’improvviso.
« Ma forse l’ha fatto perché doveva farlo » disse Sherry, seduto sulle sue ginocchia.
John poté vedere quanto al bambino interessasse scoprire la verità, quanto anche lui bramasse di scoprire perché quell’idiota di Sherlock gli avesse fatto patire tutta quella solitudine, quella sofferenza. Oppure voleva solo sapere la verità, scoprire il perché, proprio come piaceva fare al suo alter-ego adulto.
« Nessuno deve fingere di non esistere per cinque anni » commentò John.
Il suo telefono cellulare squillò, avvisandolo di un messaggio.
John allungò una mano e lo prese dal ripiano della cucina. Sussultò quando lesse il mittente.

Ho un caso interessante tra le mani.
Abito di nuovo al 221B, se ti interessa.
SH

John si sentì invadere dalla rabbia, una furia cieca e violenta che gli era capitato di provare solo quando, durante la guerra, un ragazzino di vent’anni gli era morto tra le braccia e lui non aveva potuto fare nulla per alleviare le sue sofferenze.
Come osava? Come si permetteva?!
« Papà? » la voce di Sherry suonò vicina al suo orecchio e John si riscosse.
Cancellò il messaggio e posò con cautela il cellulare sul tavolo.
« Che ne dici se andiamo al parco questo pomeriggio? » domandò a quel punto. Tutto pur di distrarsi, tutto pur di tacitare quella voce curiosa dentro di lui che gli diceva che anche se niente sarebbe mai stato come prima, lui e Sherlock potevano comunque...
« Se ti va... » rispose Sherry, dubbioso.
Non gli andava affatto. L’unica cosa che gli andava era di presentarsi davanti a Sherlock e prenderlo a pugni fino a che le nocche non gli avessero fatto male, ma sorrise al figlio e annuì, ben sapendo che in ogni caso Sherry poteva leggere le sue emozioni sul volto come su un libro aperto.

***

John si era portato un libro con sé. Leggeva e rileggeva la stessa pagina da due ore, alzando lo sguardo ogni pochi minuti per controllare che Sherry non stesse facendo a botte con qualche bambino più grande che aveva un cervello normale e normali impulsi di bambino.
Straordinario come Sherry credesse che risolvere una discussione con i pugni fosse il modo giusto di comportarsi. La sua risposta alla domanda: “perché vi stavate picchiando?” era sempre “perché lui è uno stupido”.
John non ricordava più ormai quante volte la maestra di suo figlio avesse telefonato a casa per comunicare l’ennesima rissa.
Il fatto era che il carattere di Sherry era tenero e dolce, sempre se qualcuno non lo contrariava e John per questo cercava di fare di tutto per evitare che il bambino si mettesse nei guai – anche perché di solito era lui a prenderle – senza ottenere niente di più che una scrollata di spalle.
Per fortuna Sherry in quel momento sembrava troppo impegnato ad osservare il laborioso viavai di un formicaio per prestare attenzione agli altri bambini che schiamazzavano attorno a lui e forse per quel giorno John avrebbe potuto evitare di estrarre disinfettante e cerotti dalle tasche del suo cappotto.
« Posso sedermi qui? » domandò Sherlock Holmes parandosi davanti a lui all’improvviso in tutta la sua altezza, le mani profondamente celate dalle ampie tasche e il mento nascosto dall’immancabile sciarpa blu.
Interessante come certe cose non cambino mai.
John si complimentò con se stesso per non essere trasalito.
« No » rispose, e finse di tornare alla lettura. Aveva la mente in subbuglio e il cuore che gli batteva talmente forte che chiunque avrebbe potuto sentirlo.
« Rimarrò in piedi. »
« Se te ne andassi sarebbe meglio. »
« Hai ricevuto il mio sms- »
« Se non ne scrivessi più sarebbe meglio. »
« -ma non hai risposto. »
John sospirò e all’improvviso si sentì stanco. Le dita strette sul libro allentarono la presa e tutto il suo corpo si abbandonò contro il legno della panchina.
« Che cosa vuoi, Sherlock? »
Alzò lo sguardo e scrutò quel viso che per così tanto aveva richiamato alla memoria, accettando il fatto che non lo avrebbe mai più visto. Non più i suoi sorrisi storti, le sue espressioni soddisfatte, i suoi bronci di bambino viziato; e adesso ce l’aveva davanti, con quale ruga d’espressione un po’ accentuata, le labbra strette, la pelle bianca come il latte.
John pensò che se lo avesse toccato sarebbe stato freddo, ghiacciato, come un cadavere che viene riesumato dalla tomba.
« Solo parlare. »
« Non sei mai stato bravo a parlare. E francamente, dopo quattro giorni non mi sento fisicamente pronto ad avere una conversazione con qualcuno che ho creduto morto per cinque anni. »
« Cinque anni e quattro mesi. »
John lo fissò a bocca aperta: « E questo cosa dovrebbe significare?! Cristo, Sherlock! Lasciami in pace! »
John si alzò in piedi e Sherlock fu costretto a fare un passo indietro per evitare di intralciarlo.
Solo allora la luce del sole pomeridiano illuminò lo zigomo sinistro dell’uomo e John si accorse del livido violaceo che faceva bella mostra di sé sotto l’occhio di Sherlock.
Ricordò vagamente la conversazione con Lestrade e all’improvviso desiderò ardentemente essere stato lui a mettere lì quel livido.
« Papà? » domandò la voce di Sherry, sottile e delicata dopo il tono da baritono di Sherlock.
« Ce ne andiamo » esalò John prendendo per mano il figlio e iniziando ad incamminarsi.
Sherlock allora fece proprio quello che non avrebbe mai dovuto fare e che in un certo senso John sperava facesse: allungò una mano e gliela posò sulla spalla per fermare la sua uscita di scena.
John lasciò andare le piccole dita del figlio quasi istantaneamente, si voltò di scatto e lasciò partire il pugno. Il suo cervello reagì in automatico, ma lui di certo non fece niente per frenarsi.
Una volta Irene Adler aveva fatto notare come, messo alle corde, John aveva comunque colpito l’amico su una guancia per evitare di fargli male sul serio.
Ebbene, quel giorno John non pensò minimamente all’incolumità di Sherlock Holmes e lo colpì dritto sul naso, spandendo attorno a sé sangue improvviso e improvviso senso di colpa che si mescolava ad un estremo e violento senso di soddisfazione.
Sherlock si portò una mano al volto sgranando gli occhi, come se non se lo aspettasse, come se, dato che a John erano stati dati quattro giorni di tempo per registrare e metabolizzare il suo ritorno, il pericolo di essere picchiati fosse ormai scongiurato.
Ebbene, la rabbia monta lentamente in John Watson, ma quando esplode può essere catastrofica.
« Forte papà! » esclamò Sherry aggrappandosi al suo cappotto e guardandolo ammirato.
Non aveva mai visto suo padre fare a botte e John si sentì all’improvviso un pessimo padre: dopo aver detto mille volte a Sherry che picchiare il prossimo non era il miglior modo per far valere la propria opinione si ritrovava a picchiare Sherlock in mezzo ad un parco, circondato da altri bambini e altri genitori.
Un uomo infatti si fece avanti, lo sguardo arcigno di chi sa il fatto suo, pronto a difendere Sherlock o chi per lui dalle violenze di un padre isterico.
John si chiese se il buon samaritano di turno si sarebbe unito a lui nel riempire Sherlock di calci se avesse conosciuto tutta la storia. Probabilmente sì.
« Non avvicinarti più a me o a Sherry » disse a voce bassa, minacciosa, come in qualche classico film americano di second’ordine.
Si voltò di nuovo, senza aspettare una reazione da parte di Sherlock che in ogni caso non ci sarebbe stata. Prese suo figlio in braccio e si incamminò a passi lenti verso la strada principale.
Per tutto il tragitto il bambino non aprì bocca, e John poté percepire lo sguardo di Sherlock seguirli fino a che non scomparvero dietro alla curva.

 

Note finali:
Suona troppo egocentrico dire che questo è il mio capitolo preferito? Suppongo di sì, ma lo dico lo stesso.
Ammettetelo che vi aspettavate che chiudessi il capitolo sul colpo di scena del ritorno di Sherlock (che tra l’altro contiene un paio, o forse di più, di citazioni dirette e indirette dal canone)… ma quello non è un colpo di scena. Tutti sapevamo che sarebbe tornato: il vero interrogativo è... e adesso cosa diavolo si inventerà per riallacciare il rapporto con John?
A lunedì per la risposta. Forse.

Ah, oltre a questo, ho trovato su internet questa fanart che, porca miseria, sembra essere tratta da questa storia. Ergo la condivido con voi.

E ultimo ma non ultimo, ho ricevuto in regalo un’altra cover.
Mi sento molto amata, ecco.
Grazie Ilarina per questo capolavoro. <3

Se vi gira bene, passate sulla mia pagina di FB, che non ha alcun senso di esistere e che aggiorno ogni morte di papa. U_U

  
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