Capitolo 3
Acts of kindness
« Scusami, non voglio interromperti, ma vorrei un sorso di
caffè, se non ti spiace,» esclamò cordialmente,
immergendosi nei suoi profondi occhi azzurrini e gentili, candidi
d’ingenuità e innocenza. Matt li sgranò e la mano
sinistra, quella che non era ingessata in modo abbastanza artigianale,
si strinsero maggiormente contro il manico di ceramica bianca della
tazza. Era avvampato e aveva schiuso le labbra, « Forse non
è il tuo turno,» continuò con voce bassa e
rassicurante, scorgendo la reazione innaturale del giovane uomo al suo
fianco, « Non volevo essere sgarbata,» aggiunse nella
speranza che perdonasse quella lieve mancanza di riguardo. Non era
solita domandar alcunché da molti secoli. Otteneva sempre
ciò che bramava, assoggettando i propri interlocutori con i suoi
modi aristocratici e sofisticati, non sfruttando nemmeno il vigoroso
potere della compulsione.
« No, non si preoccupi,» affermò prontamente,
sporgendosi verso di lei e dedicandole un ampio sorriso che avrebbe
ammaliato molte ragazzine dell’età del giovane, «
Lei è un vampiro, vero?» le chiese a una tonalità
di voce più lieve, attento che nessuno potesse udire la sua
condizione soprannaturale, riguardevole per la sua incolumità.
Penelope quasi si stupì di quell’accortezza che il giovane
le stava offrendo senza nemmeno averla conosciuta in precedenza. Gli
dedicò un cenno di assenso col capo, deciso e lapidario, sebbene
non fosse del tutto autentico, « Allora non dovrebbe berlo.
C’è della verbena. Il sapore del caffè la
nasconde,» le spiegò mite prima di issarsi piedi.
Notò con la coda dell’occhio destro che v’era la
presenza di un giovane, che era certa di non aver mai visto prima,
accanto ai pochi scalini che conducevano al piano rialzato del locale
che gli stava facendo cenno di raggiungerlo, « Può
servirsi. Offre la casa,» si congedò gentilmente prima di
oltrepassare il suo sgabello e dirigersi verso il suo amico.
Percepì il lieve scalpiccio delle sue scarpe nere e lucide, da
cerimonia, per pochi istanti mentre si perdeva nella contemplazione dei
vari liquori posati sulle mensole di vetro traslucido.
« Cosa le porto, signora?» le domandò un’acuta
voce femminile. Incontrò lo sguardo scuro di una giovane donna
dai capelli lisci e color del platino, alquanto alta e longilinea,
dalla pelle olivastra. Poteva percepire il sangue scorrere velocemente
nelle sue arterie, il ritmico battito del suo cuore palpitante, lo
scambio di sostanze nutritive a livello degli eterei capillari colmi di
quel liquido scarlatto che le sue cellule tanto agognavano. Dal viso il
suo sguardo ceruleo scese sino al collo della ragazza, dove
l’arteria principale, la carotide, brillava bluastra su quella
pelle abbronzata. Lì il sangue saliva più vorticoso per
alimentare i neuroni e gli organi sensoriali. Percepì i canini
allungarsi come quelli di un gatto, alla ricerca di penetrare quella
pelle morbida e vellutata, arginare la protezione della cute e nutrirsi
di quel nettare di vita che scorreva blando e vischioso. Nascose le
mani sulla gonna del vestito e strinse i pugni, ferendosi
l’epidermide dei palmi con le unghie curate e smaltate di bianco,
per contenere la sete. Dovette far ricorso a tutta la propria forza di
volontà per frenarsi dall’attaccarla e rubarle la vita e
ne fu in grado soltanto quando scostò gli occhi dal collo della
giovane. Respirò profondamente e sbatté le palpebre. Era
stato solo un attimo. La donna le sorrideva ancora gentilmente in
attesa di una sua ordinazione che non tardò ad arrivare. Era in
procinto di rovinare tutto, di rivelare la propria natura in una
città ricolma di cacciatori. Era instabile. Avrebbe dovuto far
ritorno nella sua casa, in cui Fernand stava provvedendo a deporre i
suoi bagagli, per non nuocere ad alcuno, ma necessitava di ingerire
dell’alcol. Avrebbe mitigato la sua sete crescente. La donna le
riempì un Martini cocktail glass, poi si allontanò per
servire gli altri clienti che la stavano reclamando ai tavoli.
Posò le affusolate dita della mano destra sul gambo di cristallo
impalpabile e si portò il bicchiere alle labbra prima di
percepire la presenza di un altro vampiro nel locale. I sensi
sviluppati dai mille anni di esistenza la avvisarono
dell’eventuale pericolosità e controllò a chi
appartenesse tutto quel potere invincibile. Riconobbe la lieve e dolce
fragranza della sorella di Niklaus e sorrise intimamente, rilassata.
Poggiò i gomiti sul bancone e sorseggiò il forte cocktail
per un istante, dopo aver scostato l’oliva al suo interno. I
tacchi marcati dell’Originale si diressero velocemente verso di
lei, seguendo il suo antecedente percorso, e Penelope poté ben
immaginarsi la fronte alta e fiera della più piccola figlia di
Mikael.
« Rebekah Mikaelson, qual buon vento ti porta in questo
bar?» le domandò in modo accogliente, sebbene fosse
presente anche una nota sorniona e divertita, con un lieve sorriso
sulle labbra piene mentre Rebekah prendeva posto al suo fianco, sullo
stesso sgabello che prima aveva occupato il giovane quarterback. La
stava scrutando stupita ella stessa da quelle verità
sconvolgenti che aveva appreso quella sera. Era la figlia di suo
fratello, di Nik, e gli somigliava davvero molto, soprattutto quando
sorrideva. Increspava le belle labbra rosse e leggermente gonfie allo
stesso modo, sebbene sulle sue gote magre come quelle di Tatia non si
generassero le consuete fossette.
« Volevo schiarirmi le idee e vedere come sta Matt,» le
rispose semplicemente annoiata, perdurando a osservarla. Dimostrava
un’età sicuramente maggiore della propria, più
vicina a quella di Nik. Ventisette anni, aveva affermato Elijah, quanto
il tempo da cui erano divenuti dei predatori insaziabili.
Allontanò da sé quelle antiche rimembranze e tornò
a guardare la donna dinanzi a lei, « Sai, dopo che Kol gli ha
stritolato la mano,» accennò distratta, immergendosi nello
stesso Oceano che l’accompagnava da dieci secoli, non contando
quella che doveva ammettere essere una breve parentesi di
novant’anni.
« Quel ragazzo è gentile. Mi ha comunicato che
c’è della verbena nel caffè e quindi ho optato per
un buon Martini ghiacciato,» raccontò divertita, allegra,
ma era soltanto una maschera e Rebekah fu subito in grado di
riconoscerla. In fondo il suo sesto senso, o il suo infallibile intuito
come soleva appellarlo Nik, non sbagliava mai. Penelope non era
ciò che sembrava, e la malinconia presente nei suoi antichi
occhi fu la più concreta dimostrazione per la sua tesi. Comprese
prontamente quale fosse la destinazione dei pensieri di quella che
aveva appreso essere sua nipote.
« E così tu sei…» cominciò divertita
prima che la vampira sollevasse la mano sinistra, frenandola dal
continuare la frase. Nel suo sguardo v’era una tale
serietà da rammentarle il suo caro Elijah. Il sorriso
s’era spento del tutto e i suoi occhi s’erano incupiti
notevolmente, sino a divenire plumbei cieli pregni di nubi cariche di
pioggia. Rebekah non andò oltre, serrò completamente le
piene labbra rosate e deglutì a vuoto rimembrando che Nik soleva
possedere la stessa espressione mentre discorrevano del periodo in cui
erano soltanto degli umani. La malinconia, terribile per loro creature
della notte senza alcuna possibilità d’esser redente
né da una qualche divinità né dall’intera
umanità, soffocò quelle belle iridi per poco più
di un istante, poi Penelope distese le labbra in un impercettibile
sorriso pacato e sollevò il suo stem cocktail glass, come per
brindare all’Originale.
« Su i bicchieri giù i pensieri,» esclamò
divertita prima di sorseggiare tutto l’alcolico in un solo sorso.
Rebekah sorrise, mite, per quella frase che non era molto adatta a una
donna del calibro di quella particolare vampira, poi il suo sguardo
azzurrino scorse la longilinea figura di Matt abbandonato su uno degli
ultimi sgabelli sulla destra, poco distante dalle due. Rebekah si
issò in piedi. Avrebbe dovuto uccidere quel ragazzo per far
soffrire quella sgualdrina di una doppelganger che aveva osato
pugnalarla alle spalle dopo che lei, un’Originale,
un’Antica, le aveva raccontato la loro storia rendendosi
vulnerabile. Alla pari di una neonata. Quella ragazzina l’aveva
umiliata e Rebekah detestava chi intaccava il suo forte senso
dell’orgoglio e della dignità per se stessa. Però
non era stata in grado. Penelope aveva perfettamente ragione. Quel
giovane uomo, quel Matt Donovan, aveva compiuto un gesto
d’assoluta cortesia senza nemmeno rendersene davvero conto.
Quando le aveva porto la sua giacca, che profumava d’ammorbidente
alla lavanda, e l’aveva posata sulle sue esili spalle candide,
Rebekah aveva percepito qualcosa dentro di sé, qualcosa che
credeva d’aver perduto da quando Stefan, il suo Stefan che
sembrava aver obliato i momenti trascorsi insieme a lei, non provava
più nulla in sua presenza. Era stato soltanto per un attimo, ma
non poteva dimenticare il sorriso timido e appena accennato che gli
aveva rivolto prima di scorgere la figura di Kol in procinto di attuare
il loro piano.
« Io vado…,» sussurrò ancora assorta nelle
proprie meditazioni prima di sfiorare distrattamente
l’avambraccio sinistro di sua nipote in una mite carezza e
avanzare a passo deciso verso il diciottenne. Penelope non si
stupì di quel gesto improvviso, però, internamente, fu
felice di quell’accortezza nei propri riguardi. La sete era stata
mitigata dall’alcol e dal momento trascorso con la vampira
più anziana di qualche anno, ma tornò prepotentemente a
occuparle la mente, incendiato le vene del suo corpo morto. Era una
sensazione di indescrivibile afflizione, ma non poteva abbandonarsi
alla fame, non in quella città e non in quel momento. Era un
obbligo, un imperativo nella sua mente. Eppure bramava mostrare la
propria natura di predatrice. Avrebbe potuto uccidere ogni persona
presente in quel piccolo locale cittadino, una decina di uomini adulti
sicuramente padri di famiglia, in poco più di due secondi.
Avrebbe potuto percepire il loro sangue caldo invaderle la bocca, poi
l’esofago e infine tutta se stessa, dandole una parvenza di
vitalità. Sarebbe bastato poco. Avrebbe soltanto dovuto
abbandonare quel rudimentale sgabello di legno, che le riportava alla
mente quelli delle antiche taverne, sguainare i canini e attaccare per
spegnere quel dannato pulsante che desiderava farle sentire ogni
elemento. Gli occhi scuri di Elijah che la osservavano con accortezza,
amore, passione, desiderio. Occhi che le avevano sempre sorriso, che
l’avevano fatta innamorare già dal primo istante in cui li
aveva scorti, che l’avevano accolta quando aveva ritenuto di non
posseder più nulla, né l’umanità né
le tenebre. La risata argentina e cristallina di sua madre che le
palesava tutto il proprio affetto e riguardo nei suoi confronti, che la
rendeva felice con impercettibili gesti, le dimostrazioni più
elevate del bene che nutriva per lei, la sua unica figlia avuta con il
grande amore della sua esistenza. I rari sorrisi di Niklaus, il suo
caro padre che aveva sempre e soltanto scorto da lontano, come se le
fosse stato proibito da qualche entità celeste di appropinquarsi
e ricongiungersi a lui, completando entrambi e annullando quel senso di
inadeguatezza e vuoto che alimentava come carbone nocivo le loro anime.
Penelope chiuse gli occhi e sospirò. Quanto avrebbe bramato
eliminare quelle rimembranze. Non avrebbe più percepito nulla
dentro di sé e sarebbe divenuta soltanto un’implacabile
assassina per l’eternità.
« Amichetta di Elijah e figlioletta di Klaus,» la
salutò una voce conosciuta con quel tono sarcastico e sensuale.
Penelope non aveva nemmeno avvertito la sua presenza, cotanto presa
nelle proprie riflessioni. Non s’era accorta che aveva preso
posto alla sua destra e aveva una bottiglia panciuta di quello che
sembrava essere un bourbon d’ottima annata. Il liquido era stato
quasi del tutto ingerito dal vampiro al suo fianco. sorrise per quei
due appellativi e spalancò lo sguardo ceruleo per poi puntarlo
in quello ancora più azzurro del vampiro dagli occhi di
ghiaccio, come soleva appellarlo lei stessa.
« Damon, perché sei così scontroso con me?»
domandò rilassata, pacate, con un lieve sorriso sulle labbra
mentre l’altro ingeriva quel poco d’alcolico rimasto, come
per brindare in suo onore. Damon, poi, posò la bottiglia sul
bancone, le rivolse il suo sorriso storto, sollevando l’angolo
sinistro delle sue belle labbra esangui, e si sporse di più
verso di lei, scrutandola accattivante e avvenente. Subito dopo
scrollò le spalle e un’espressione di sufficienza gli
indurì i bei lineamenti aristocratici.
« Non lo so. Forse perché tu ed Elijah siete venuti meno
al patto che avevamo stretto prima del sacrificio,» le
ricordò distrattamente prima di distendere il braccio destro,
sfiorando il suo sinistro con il raso della sua giacca elegante, e
prendere un bicchiere per poi riempirlo e porgerlo a lei.
« Elijah ha assicurato per me, vero?» lo interrogò
prima di ridere lievemente. Se lo portò alle labbra e le
posò sulla sua superficie vetrosa e trasparente, « Come ai
vecchi tempi,» esclamò prima di terminarne il contenuto,
« Non ti avevo promesso nulla, tesoro. Anzi ero la prima a volere
quella maledizione spezzata,» gli rivelò posandolo sul
bancone e muovendosi sullo sgabello per potergli essere maggiormente
vicina. Quel ragazzo, quel neonato in confronto a lei, l’aveva
sempre incuriosita, le era piaciuto sin da subito. Era attraente,
scaltro, aveva un ingegno davvero fuori dal comune, un accentuato senso
dell’umorismo e, inoltre, aveva dei modi molto signorili.
« Perché? Per poter diventare un essere zannuto e pieno di
peli?» le chiese divertito, sebbene vi fosse una nota irritata e
assorta. Tentava di carpirle quel segreto che l’accompagnava da
mille anni e che non avrebbe rivelato nemmeno se avesse avuto dinanzi a
sé il proprio aguzzino. Soltanto tre persone ne erano a
conoscenza, ed erano degne della sua più completa fiducia.
Penelope stessa, Elijah e Sage.
« Queste sono questioni mie, viso d’angelo,»
sussurrò suadente posando l’indice sulla sua guancia
sinistra glabra e perfettamente liscia, dalla pelle morbida e profumata
di colonia, percorrendola in tutta la propria interezza, sino alla
mascella inferiore. Damon non la scostò, né si
irrigidì, si stupì soltanto di quel gesto cotanto intimo,
che doveva riportargli alla mente antiche memorie. La guardò
meglio, come per scorgere in lei qualcosa di familiare, poi
sgranò gli occhi azzurrini e incredibilmente profondi. Penelope
sospirò lievemente, poi sorrise divertita, gli occhi brillanti
d’astuzia, « Non essere arrabbiato con me. È stato
tanto tempo fa.» Damon rise, leggero, scuotendo il capo prima di
bere direttamente dalla bottiglia, facendo rimanere soltanto poche
gocce al suo interno. La risata di Damon era sempre sconvolgente,
doveva ammetterlo, e percepirla in quella condizione in cui il profumo
della sua pelle candida si mescolava a quello acre del bourbon avrebbe
attratto qualsiasi donna. E non era mai stata del tutto indifferente a
quel fanciullo.
« Ti fermerai in città per quanto esattamente?» le
domandò incuriosito, inclinando il capo di lato, «
Sai, Stefan ha fatto cacciare gli ibridi da Mystic Falls dal tuo caro
paparino. Non voglio ritornino,» aggiunse facendole
l’occhiolino. Penelope sporse il busto verso il vampiro,
posò la guancia sulla sua e inspirò il suo lieve profumo.
Aveva sempre ritenuto che la colonia fosse irresistibile su di un uomo
prestante e avvenente. Soleva posarla sulla pelle vellutata del suo
Elijah da quando la sovrana d’Inghilterra l’aveva donata al
proprio consorte.
« Tutto il tempo che desidero,» sussurrò maliziosa
mentre Damon si muoveva inquieto come per trarla maggiormente a
sé, « Io gioco secondo le mie regole. Fallo anche
tu,» gli suggerì posandogli un lieve bacio sulla gota,
prima di issarsi in piedi e osservare Rebekah. Aveva il volto ferito
mentre Matt l’abbandonava lì come se fosse stata una
ragazzetta qualunque. Le dispiaceva scorgerla in quello stato, con le
labbra schiuse mentre sbatteva le palpebre come per trattenere le
lacrime. Avrebbe voluto appropinquarsi alla sua unica zia e riferirle
che non avrebbe dovuto permettere a nessuno di farle dubitare di se
stessa e della propria naturale e soave avvenenza, ma Damon posò
gentilmente le sue lunghe dita bianche affusolate intorno al suo polso,
attirando nuovamente la sua attenzione.
« Mi stai dicendo che sono…,» alluse divertito per
permetterle di continuare la frase da lui incominciata. Penelope
sorrise e si chinò nuovamente sul ragazzo. I suoi mossi capelli
castano chiaro sfiorarono la gota di Damon che l’osservava
incredulo, con sarcasmo sempre più calante dinanzi al suo
sorriso appena accennato, colmo d’affetto. Le sembrò che
fosse ritornato infante e la stesse osservando con gli stessi occhi
sgranati dall’ingenuità, dall’innocenza e dalla
disarmante bellezza. Le labbra, come boccioli di rose, erano appena
schiuse e si poteva intravedere la perfetta e scintillante dentatura
candida e le sue lunghe ciglia nere sfioravano gli zigomi poco
pronunciati.
« Sei soggiogato dalle belle labbra della piccola Elena
Gilbert,» mormorò con voce lievemente arrochita e
seducente a un soffio da quelle del vampiro che sbatté
nuovamente le palpebre, stupito da quella frase, « Divertiti,
Damon. I moralismi appartengono a Stefan. Sii impulsivo. Riprendi te
stesso,» gli suggerì mentre Damon schiudeva del tutto le
labbra. I loro respiri si unirono prima che Penelope ridesse leggera
dinanzi all’espressione del vampiro più giovane. In un
lampo, dimentica di ogni buonsenso, si appropinquò
all’uscita del locale, posando la mano sul cardine di legno
scuro. Poi si volse verso di lui. Damon era ancora abbandonato sullo
sgabello, con i gomiti posati sul bancone e il busto rivolto verso di
lei. Aveva assunto quel suo sorriso sghembo, tremendamente avvenente, e
aveva sollevato le sopracciglia allusivo nel scorgere il suo sguardo
ceruleo ancora incatenato al proprio. Per un attimo rimuginò
seriamente su quella prospettiva, ma l’accantonò subito.
Non aveva mai, mai tradito Elijah, e non aveva la minima intenzione di
incominciare a compiere adulterio proprio in quel momento. Gli aveva
giurato amore eterno ed era certa che, seppur fosse palese che
l’Originale non fosse incline a desiderar cedere alle sue
lusinghe, anche l’Antico non fosse mai venuto meno al loro sacro
legame. Distese le labbra in un lieve sorriso e trattenne a stento un
sospiro. Elijah, tutto la riportava lui ed esser conscia che per lei
sarebbe stato sempre e soltanto lui era al contempo immensamente dolce
e spaventoso. Fece un impercettibile cenno col capo al vampiro,
indicandogli Rebekah che, sola e mesta, aveva posato gli avambracci
conserti sul bancone e aveva il viso chinato sul legno venato, poi
scomparve nella notte buia e senza stelle. Il cielo era coperto da nubi
nere che lo scurivano. La Luna, maestoso satellite padrone degli eventi
naturali, era in grado di penetrare quelle coltri scure a intervalli
poco regolari, mostrando il suo volto latteo e beffardo. La
scrutò per non più d’un istante prima di percorrere
nuovamente a velocità supersonica le vie deserte della
città. A quell’ora non si percepiva più nulla,
né movimenti né suoni. Tutto era calmo, addormentato,
sebbene vi fosse una leggera brezza che manovrava le fronde degli
alberi del parco cittadino che s’agitavano blande. Una giostra
che in più punti aveva perso la propria vernice gialla come il
Sole produsse uno stridio simile a quello che produceva lo sfregamento
delle unghie contro una lavagna. Delle foglie secche danzavano sul
prato ben curato dei giardini delle villette a schiera bianche. Si
ritrovò dinanzi a una di esse. Era di modeste dimensioni, di
legno d’acero chiaro e dall’esterno si potevano scorgere
due grandi finestre, una per la sala e l’altra per la cucina, al
piano inferiore, tre al piano superiore e una tonda che apparteneva
alla soffitta. Era la casa in cui Elijah aveva alloggiato prima che si
compiesse il sacrificio. Avanzò verso di essa e notò che
il giardino era ancora ben curato, all’inglese, come piaceva
all’Originale. Non v’era una patina di polvere sul
corrimano bianco e sulle scale che conducevano al pianerottolo. Alla
sua sinistra, in prossimità della finestra della sala,
v’era un tavolino ovale di cristallo dove solevano versarsi una
tazzina di tè e discorrere dei piani per sconfiggere suo padre.
Sbuffò divertita da quei ricordi. Gli aveva mentito, sebbene
fosse certa che Elijah avesse compreso da sé che non avrebbe mai
ucciso l’uomo che aveva osservato con affetto per innumerevoli
secoli. Prima che potesse anche solo bussare, Fernand aprì la
porta di casa.
« Signorina Petrova, la vostra casa,» esclamò
gentilmente il suo autista rivolgendole poi un sorriso caloroso.
Fernand era stata una delle sue benedizioni. In lui aveva trovato un
vampiro silenzioso e gentile, obbediente e grato, in grado di accettare
le decisioni imposte dall’alto senza vederle come
un’intimidazione, ma come qualcosa di estremamente positivo. Non
ve ne erano molti al mondo. Penelope ricambiò il sorriso, con un
velo di stanchezza, poi avanzò per il corridoio immerso
nell’ombra della oramai sua casa. Era un’abitazione
semplice, tipica delle villette a schiera circostanti. Alla sinistra
v’era una porta che conduceva alla stanza principale, a destra
un’altra per la cucina e il bagno inferiore. Dinanzi a sé
aveva le scale che conducevano al piano superiore contenente tre camere
da letto. Il vampiro più giovane di molti secoli rimase sulla
soglia e Penelope si volse dall’entrata della sala, la più
grande sala sulla sinistra.
« Fernand, grazie. Puoi lasciarmi sola,» mormorò con
una lieve nota dolce prima di lasciarsi sprofondare nel divano di
comoda pelle bianca e profumata. Il vampiro le rivolse
un’impercettibile riverenza col capo prima di scomparire nella
notte buia chiudendosi la porta alle spalle. Penelope chiuse gli occhi,
sospirando e passandosi una mano tra i lunghi capelli castani dai
riflessi biondi. Quella festa era stata estenuante, tragica, eppure
ripensare alle braccia di Elijah che la stringevano dolcemente in quel
valzer datato le provocava un brivido lungo la schiena che era
impossibile arginare. Elijah era tutto per lei. Dopo tanti secoli,
troppi anni, nulla era cambiato. Tranne lui. Elijah non l’amava
più. Quel sentimento genuino e puro che li aveva legati era
scomparso del tutto. Non rimanevano che le ceneri di quell’amore
che lei aveva ritenuto essere eterno. Ingenua. Penelope sorrise
amaramente per quel pensiero sfuggente. Lo era davvero. Almeno per
quanto concerneva Elijah e Niklaus. Ma la vita di un immortale non
sarebbe stata niente se non avesse avuto un motivo ispiratore,
un’illusione utopistica a cui aggrapparsi. E lei l’aveva.
Da troppo tempo. Era arrivato il momento. I tempi erano oramai maturi
per una sua mossa. Il suo piano era studiato nei minimi dettagli, nulla
era stato lasciato al caso. Era tempo di agire.
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Più di cinque mesi di ritardo. Lo so, è davvero
una cosa orribile, ma sarebbe stato ancora più orribile non continuare questa e
l’altra storia. E quindi sono tornata. Da ora in poi aggiornerò regolarmente,
ogni sabato sera. Spero che non abbiate dimenticato questa storia, ma, se l’avrete
fatto, sarebbe anche comprensibile. Un bacio grande a chi vorrà continuare a
seguirla, almeisan_