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Autore: Eleanor Hamish Rigby    18/12/2012    11 recensioni
Si dice che se nella tua vita passata la tua vita si lega strettamente a quella di un’altra le vostre anime rimarranno legate per sempre.
Si dice che l’ anima è soltanto un resto, una parte di un unico spirito che venne diviso in due e che queste metà sono destinate a cercarsi per l’eternità per ripristinare l’equilibrio e completarsi.
Ma non scegliamo noi in che corpo si troverà l’altra metà di noi stessi.
E se il destino stesse dando una possibilità a tre amori che secoli prima erano stati distrutti da una rivoluzione?
E se una nuova guerra ci si mettesse di mezzo?
E se la nostra unica ragione di vita e la causa del nostro dolore coincidessero?
Cosa faremmo se il nostro peggiore nemico si rivelasse il nostro grande amore?
Quanti ideali, quante persone si possono tradire, fin dove ci si può spingere per amore?
#Larry #Ziall #Limielle
Olocausto, Shoah.
Per non dimenticare.
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Liam Payne, Louis Tomlinson, Niall Horan, Zayn Malik
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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LEGGETE, E' IMPORTANTE:

Mi dispiace.
Per aver pubblicato tardi ma è stato (ed è) un periodo orribile.
Perché in questo capitolo non succede nulla.
Magari però vi servirà a capire un po' meglio la testa di Styles.
Chiedo scusa a chi ha betato, perché questo è solo il POV Harry che avevano letto secoli fa. Semplicemente, sono ferma a questo da tantissimo e se avessi dovuto pubblicare un capitolo decente avreste dovuto aspettare un altro mese.
E'un capitolo orribile, lo so.
Però spero che mi perdonerete.
Per farmi perdonare, v'anticipo che nel prossimo capitolo sarà un Larry.
Scusate, vi lascio alla lettura di questo obrobrio.

Capitolo 9: Mille schegge d’anima-parte 1.

POV Harry

Cadde, troppo leggero per fare rumore.
Cadde, senza nemmeno lasciare un suono dietro di sé.
Solo un impercettibile tremito nell'aria, come un bisbiglio, nell'impatto fra il suo corpo e la neve, accompagnò la sua morte.
Quel  bisbiglio risuonò nel mio cuore,  lo pervase, e mentre quel cumolo d’ossa inanimato veniva ricoperto lentamente da un mantello di neve, me ne andai.
Ma per quanto potessi allontanarmi, per quanto lontano potessi scappare,  quel tonfo rimbombava incessantemente nella mia testa.  
Non c'era più nessuno lì con me, ero rimasto solo mentre gli altri se ne andavano.
Non me n'ero nemmeno accorto.
Ero troppo preso a digerire la realtà: avevo appena ucciso un uomo.
"No, non un uomo. Un ebreo" mi corressi.
E qui, qui era la differenza.
Non ero un mostro, perché non avevo ucciso un essere umano: soltanto un lurido ebreo.
La feccia del pianeta.
Uno dei parassiti che complottava per distruggere la Germania, il mio popolo, la mia famiglia.
Non ero un mostro, ero un eroe.
Sarei dovuto essere orgoglioso di me stesso.
Ma quegli occhi, quegli occhi neri m'ossessionavano, comparivano davanti a me.
Dovevo sfuggire a quella presa.
Iniziai a muovere i piedi sempre più velocemente,  uno d’innanzi all’altro.
Avrei voluto correre, correre con quanta forza avevo in corpo ma qualcosa mi fermò.
Uno sguardo azzurro in lontananza mi scrutava preoccupato.
Non sapevo a chi appartenessero quelle iridi,  ma per qualche ragione non volevo che mi vedessero così.
Costrinsi me stesso a rallentare.
Molti occhi vacui di prigionieri si posarono su di me mentre uscivo dal campo.
Il mio sguardo li trafisse attraverso le reti e loro distolsero immediatamente lo sguardo, spaventati.
Volevo soltanto sfuggire per un po' agli sguardi, volevo soltanto stare da solo.
Volevo correre verso il mio alloggio ma mi costrinsi a mantenere un passo.
Avvolta in un cielo  plumbeo e dalla neve bianca, un puntino color mattone emergeva nitido, come un miraggio nel bel mezzo del deserto.
Quella casetta di mattoni, in quel momento,  era per me una visione.
Quando finalmente giunsi, aprii la porta e varcai la soglia con velocità inaudita.
Richiudendo scorsi le orme dei miei passi nella neve, macchie grigie, impurità su quel bianco immacolato.
Ed io mi sentivo esattamente così, sporco, inquinato.
Mi lasciai cadere sul divanetto, un nero sguardo ancora posato su di me.
Cercai d'ignorarlo, spostai lo sguardo per ogni angolo della casa ma era dappertutto.
Chiusi gli occhi.
Nel buio della mia mente una chiazza bianca, un'immagine indefinita apparì, ingrandendosi piano piano finché i due grandi occhi neri di un viso pallido aleggiarono nitidi nell'oscurità.
Non poteva essere, no, non poteva seguirmi così, non poteva.
-LASCIAMI IN PACE!-gridai, alzandomi in piedi di scatto.
Il viso era ancora lì, davanti a me, riuscivo a vederlo. Mi squadrava, come se fossi colpevole di qualcosa.
Come se fossi io ad aver sbagliato, come se fossi io ad essere sbagliato.
Continuava a trapassarmi con quegli occhi mentre nella mia testa risuonava la parola mostro.
-Non sono un mostro, non lo sono.
Non sono un assassino, non sono io il cattivo.
Voi siete i cattivi, quelli che ci vogliono fare del male. Noi vi abbiamo solo preceduti.
L'abbiamo fatto per il bene del nostro paese, delle nostre famiglie, dell'umanità.- dissi.
Il volto dell'ebreo era ancora lì, che mi fissava.
Il rumore dello sparo rimbombò nella mia testa, mentre la sua caduta mi ripassava dinnanzi agli occhi.
Sentii le gambe diventare deboli e mi lasciai cadere sul divano, la testa fra le mani, cercando di scacciare tutto dalla mia mente.
Alzai lo sguardo verso la parete, le lacrime che imploravano d'uscire, le labbra che tremavano.
Il viso era ancora lì, ostinato, a trapassarmi con lo sguardo, come se vedesse tutto ciò che stava accadendo dentro me.
-Ti prego,ti prego, ascoltami: voi siete solo un sacrificio, un sacrificio fatto per il bene di tutti.
Siete solo ebrei, non siete tanto importanti, no?
Noi ci siamo solo difesi, solo questo.
Non è colpa mia, capisci?- cercavo di trattenere il tremolio, la nota di disperazione che aveva assunto la mia voce mentre cercavo di difendere la mia innocenza.
Però quegli occhi non sembravano capirlo.
Continuavano ad osservarmi, a trafiggermi.
-NON E' COLPA MIA!
Urlai, con tutta la voce che avevo in corpo, saltando su dal divano.
Tirai un calcio al tavolinetto davanti a me, ribaltandolo.
Colpii il muro di fronte a me, spaccandomi le nocche.
-NON E' COLPA MIA! NON-E'-COLPA-MIA!- continuai, riempiendo di pugni la parete.
Frantumai un vaso che era su una delle mensole attaccate sul muro, lì per un motivo a me sconosciuto.
Il sangue iniziò a colarmi dalla mano destra mentre con l'altra lanciai un ultimo pugno alla parete.
Appoggiai la fronte sul mio pugno, i ricci schiacciati dal muro, sfinito.
-
Non è colpa mia-sussurrai, quasi singhiozzando.
No, non lo era.
Perché io ero un soldato, un ariano, non un mostro.
Io facevo parte d'una razza d'umanità perfetta, non quel ebreo.
Eppure stava riuscendo a scalfirmi, a rendermi debole.
Un brivido mi percosse il corpo: debole.
Compressi nuovamente le tempie fra le mani, pressandomi il cranio fino a farmi male.
Cacciavo via quel pensiero, quel la debolezza, quel viso, gli sfuggivo ma il volto tornava ogni volta alla carica.
La mia anima si stava rompendo.
Stava cercando di distruggermi.
Diedi un pugno al sedile del divano ma ritrassi subito la mano, lanciando un urlo.
Sul dorso un nuovo taglio emergeva netto mentre il sangue colava.
In mezzo alla ferita un pezzo di vetro era bloccato nella mia pelle.
Lo tirai fuori, mordendomi il labbro per scacciare le urla.
Feci danzare quella scheggia trasparente ed insanguinata tra le mie dita, seguendola con lo sguardo.
Nonostante avessi ridotto in pezzi quel vaso quello continuava a ferirmi, più cercavo di colpirlo e di distruggerlo più diventava tagliente, ritornava più pericoloso di prima.
E mentre questo pensiero prendeva corpo nella mia mente, un altro ne stava già nascendo.
Mi volevano rompere, spezzare, distruggere come se la mia anima, la mia vita fosse fatta di vetro.
Allora io sarei risorto, sarei diventato come quelle schegge, sarei tornato più combattivo di prima, pronto a ferirli nuovamente.
Mi raddrizzai,sollevando la testa, fissando dritto negli occhi quel fantasma.
Io ero un membro delle SS, io ero il capo.
Quell'ebreo era cattivo, stava cercando di rovinarmi anche da morto ma io non gliel'avrei permesso.
Non avrei fatto il suo gioco, non avrei lasciato che s'intrufolasse ancora nella mia mente.
Sfidai con lo sguardo il riflesso di quel volto, riprendendo consapevolezza di quel che stava accadendo, riprendendo possesso del mio corpo.
Avvertii improvvisamente un fuoco accendersi in fondo al mio braccio e mi guardai la mano dalla ferita bruciante e sanguinante.
Ebbi un moto di rabbia: era tutta colpa di quello stupido semita, di quella feccia rivoltante. 
Abbandonai la stanza, lasciando il volto lì.
Mi diressi verso il bagno e spalancai la porta di legno, con tutta la forza che avevo, facendola sbattere contro la parete con un tonfo assordante.
M'avvicinai al lavandino e aprii l'acqua, mettendo istantaneamente la mano sotto al getto.
-MERDA!- urlai, ritirando la mano.
L'acqua a contatto con la ferita sembrava aver acceso un incendio sulla mia mano, invece che spegnere il bruciore.
Ma rimisi comunque la mano sotto il getto, mordendomi il labbro.
Non l'avrei lasciata vinta nemmeno a quello stupido lavandino.
Alcune perle rosse scarlatte schizzarono dalla ferita per adornare il lavandino bianco immacolato.
Mentre l'acqua ghiacciata sortiva il suo effetto, mi persi guardando quel bagno dalle pareti bianche, dal lavandino color neve, dove troneggiava una vasca di marmo immacolato.
Tutta quel bianco, quella purezza attorno a me mi fecero sentire di nuovo sporco.
Ero io la pecca in tutta quella purezza eterea, i miei passi erano lo sporco che distruggeva il bianco immacolato della neve, il mio sangue chiazzava il marmo vergine del lavabo.
Tutto ciò che era bello e puro sembrava destinato a morire, a distruggersi appena profanato dal mio passaggio.
Presi la spugna ruvida vicino a me ed iniziai a sfregarmi le mani, ignorando il bruciore acuto nei tagli.
Sentivo lo sporco di cui erano avvolte, il sangue, la cattiveria che le pervadeva.
Grattai via le croste di sangue che s'erano formate, ma la sensazione non sembrava volersene andare.
-Cristo!-sbuffai, alzando il viso al cielo.
Mentre riabbassavo la testa i miei occhi incrociarono lo specchio.
Un volto da ventenne mi osservava, gli occhi verdi stravolti.
Chinai subito il capo, i ricci che cadevano a coprire la visuale.
Sembrava così fragile.
Lo odiai, con tutto me stesso.
Era così stupido, così infantile.
Così debole.
Immersi la faccia nel getto d’acqua, rinfrescandomi,  perdendomi mentre il tocco bollente delle mie mani s’alternava a quello gelido dell’acqua per poi afferrare un asciugamano che usai per poi gettarlo brutalmente a terra.
Scossi la testa, come per scacciare via i pensieri, e costrinsi le mie labbra in un sorriso.
Quando risollevai il viso nello specchio un nuovo volto prese posto a quello del ventenne, un volto così simile al precedente eppure così diverso: il sorriso malizioso e irriverente, lo sguardo furbo  e canzonatorio.
“Bentornato” dissi.
Il soldato Styles sorrise ancora di più, strafottente, facendomi l’occhiolino.
Uscii da quella stanza, lanciando un’ultima occhiata di disgusto alle pareti immacolate.
Mi diressi verso l’ingresso e presi la giacca, pronto per tornare al mio lavoro.
Non gli avrei permesso di bloccarmi.
Se avessero provato a distruggermi, le mie mille schegge d’anima sarebbero volate a ferirli.
  
  
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