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Autore: mamie    19/12/2012    6 recensioni
Non è una storia e non ci sono personaggi (salvo qualche breve allusione a personaggi storici). Sono sensazioni e pensieri affastellati che ho buttato giù di getto, quasi pagine di un disordinato diario, durante le molte passeggiate che ho fatto per Venezia in passato. Li ho un po’ ripuliti e corretti, ma sostanzialmente ho voluto lasciare il loro carattere spontaneo, così come sono nati.
Dedicata a mrs mustard, che sa di cosa parlo :D.
[Premio Venezia Introspettiva al contest di Primavere rouge "Tra le calli di Venezia"]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota: miglior Venezia introspettiva al contest Tra le calli di Venezia di Primavere rouge.

Dedico questa storia a mrs mustard, lei sa perché :D.



 C’ERA UNA VOLTA…
 
C’è un tipo di silenzio, a Venezia, che non è altro che una particolare qualità della luce. Si sta lì, in mezzo ad una città, e sembra quasi di stare in un giardino dove volano le farfalle.
 
C’era una volta… come in una fiaba. C’era una volta un barettino, davanti all’Arsenale. Un posto senza tante pretese, Il luogo più vicino alla vera pace che abbia mai visto.
Il caffè era buono e potevi stare lì quanto ti pareva, nessuno ti guardava storto o ti mandava via. Potevi restare a prendere il caffè e intanto guardare i leoni di pietra del Pireo che a loro volta guardavano chissà chi, di chissà quale epoca lontana. Si vedevano gli ufficiali di marina vestiti di bianco salire e scendere le scale, intenti a chissà quale misterioso impegno. E se il cielo era azzurro e l’acqua era verde, c’era tutto quanto si poteva volere.
Ora i bar sono due, grandi, lussuosi, con i tavolini e gli ombrelloni che coprono mezza piazza. I leoni, per fortuna, ci sono ancora. Guardano ancora lontano, in quel tempo remoto, dove strane mescolanze sfilavano indifferenti ai loro occhi.
Il leone greco perde la sua pelle di serpente settentrionale tra le brume di Venezia.[i]
C’è veramente una sinuosa scritta runica sul fianco del leone più grande. Una scritta che il tempo e l’aria salmastra lentamente cancellano. Lui, il leone, ha gli occhi persi in un altro tempo. Più vecchio della sua città, ne ha viste tante. Forse questa non è che una tappa di un suo lunghissimo viaggio, perché neanche Venezia dura per sempre.
 
C’era una volta… la piazza del Ghetto Nuovo. Nella piazza del Ghetto ci sono gli alberi e gli alberi, a Venezia, sono così rari e preziosi… Ci sono gli alberi e c’erano una volta i vecchi che sedevano sulle panchine di pietra, i bambini che giocavano chiassosi sotto la lapide che ricorda le vittime dell’Olocausto. Ora non so, forse i bambini sono cresciuti, forse se ne sono andati a cercare nel mondo un po’ di quella magia che dalle pietre di questa città ti resta addosso, come polvere che non va più via.
C’è ancora, come un tempo, la chiesa della Salute, sulla punta della Dogana, incombente come un gigante malevolo pronto a schiacciare gli incauti che osino avventurarsi nel mondo. Là, oltre la Giudecca, la laguna si apre immensa e spietata sotto il sole abbagliante o inquietante nella nebbia senza orizzonte di certe mattine d’inverno. È proprio in quel punto che una mattina sembra atterrare un’astronave aliena, immensa nave da crociera in bilico sull’acqua che pare quasi sul punto di franare, in un apocalittico speronamento, sulle colonne di S. Marco e S. Todaro dove, un tempo, il boia squartava con perizia i corpi dei condannati.
 
 
C’era una volta… il gotico bianco e fiammante del Campo Santi Giovanni e Paolo. Incongruo in un posto come questo, ancora più incongrua la statua nera del Colleoni, così vigorosa, così brutalmente rinascimentale.  C’erano, e ci sono ancora, le lapidi che al mercato del pesce recano le misure per ogni specie con una buffa litania cantilenante: barbon, tria, sardella, sardon... C’era la fiaschetteria, dove l’insegna eloquente di un leone di San Marco ubriaco la diceva lunga sugli avventori che andavano la mattina a farsi un’ombra. C’era, nascosto in una calle[ii]stretta di Riva degli Schiavoni, un bar dove il caffè costava poco ed era buono. Ora, forse, sarà gestito da Cinesi, chissà, Venezia non rifiuta mai nessuno, nelle sue tortuose architetture stanno bene l’antico e il nuovo, l’Occidente e l’Oriente, la chiassosa mondanità di Piazza San Marco e le corti nascoste, che si aprono quasi d’incanto da strettissime calli e sembrano poi svanire in qualche loro segreta dimensione.
Ecco San Pietro di Castello, così poco turistica, così quieta, con le foglie volteggianti dei platani che ricamano l’aria azzurra e il silenzio di sussurri segreti. I prati verdi – prati a Venezia? – fanno risaltare la pietra bianca. È un pezzo di terraferma divelto e posato sulla laguna, il gioco di un bambino che si crede grande.
Ecco le Fondamenta Nuove da cui si può vedere l’isola di San Michele e quasi si sentono sciabordare con l’acqua le note cupe di Rachmaninov. Oh, Romantici, quante crudeli e tenebrose storie scivolano fra i rivi insieme a mantelli neri e larve bianche. Ma no! E’ la risata leggera di Giacomo[iii]che aspetta a Murano la sua monachella ardita.
 
La chiesina di San Giovanni del Tempio è chiusa e nascosta. Forse visitata dalle ombre di quei cavalieri pallidi e neri ritratti dal Tiziano, o da quei soggetti sanguigni che balzano fuori dalle ombre caravaggesche. Immancabile la leggenda del tesoro, sottratto alla rovinosa caduta di San Giovanni d’Acri e nascosto in laguna. Perché no? Nella nebbia di certe mattine invernali può nascondersi qualsiasi cosa: il tesoro dei Templari o le misteriose mummie egizie di San Lazzaro degli Armeni.
 
 
È impossibile perdersi a Venezia, ti ritrovi sempre negli stessi posti, solo che le strade per arrivarci sembrano cambiare ogni volta, come se le spostasse qualche incantesimo. A Venezia tutto si confonde: una lapide cufica diventa la cattedra di San Pietro, pietre bizantine cementate nelle mura di San Marco, i cavalli di bronzo dell’Ippodromo che scalpitano sulla facciata; angeli, grifoni, turcomanni, simboli esotici, stelle di David e cammelli, l’Europa, la Cina… tutto è immerso nella stessa, inimitabile luce.
 
Non esiste un monumento a Venezia, un palazzo, una chiesa. Venezia è un’aria che si respira, che sa di vecchie pietre, di acqua stagnante, di salsedine, di rose e di fichi maturi.
Venezia è una città di gatti: gattoni enormi e pigri, beatamente distesi nei punti più assolati, imperturbabili, magari proprio in mezzo alla strada o a spasso in mezzo alle altane, la coda ritta in fiera indipendenza. Gatti che non hanno per niente un’aria randagia, ma che ti guardano con un’ombra di critica negli occhi dorati. Gatti ben pasciuti e lustri, che sembrano ridere sotto i baffi degli affanni degli uomini.
 
E’ così strana questa città: ce ne sono di ben più antiche, ma non di così sottilmente immutabili nello spirito.  Eppure anche Venezia cambia, viene lentamente abbandonata, lentamente sprofonda. Le porte sul Canal Grande sono sbarrate, coperte di muffa e alghe, e i Veneziani… dove sono andati? Si nascondono forse dietro gli scuri delle piccole finestre, negli angoli più freddi dei palazzi antichi, oppure vagano anche loro dispersi per il mondo?
Forse resterà un miraggio, visibile solo certe mattine, malinconica, sfuggente e lontana. Oppure sprofonderà e basta, si sgretolerà fino a diventare limo, a tornare la palude che era. In fondo Venezia è un sogno, ma non di quelli che puoi comperare[iv]. Venezia è una meraviglia dell’anima: sparisce il sogno, la meraviglia resta.


[i]  Da “Favola di Venezia” di Hugo Pratt.
[ii]“calle” – il dizionario Treccani lo considera sia maschile sia femminile.
[iii]Casanova.
[iv]Da “Venezia” di Francesco Guccini.
 
 



  
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