But in
the end it doesn't even matter
Minas Tirith si ergeva imponente e candida, adagiata sul
fianco del Mindolluin come se vi fosse placidamente abbracciata. I sette
livelli sembravano continuare fino all’infinito e la Torre di Echtelion,
modellata a immagine della prua di una nave, contribuiva a quel fascino insieme
maestoso e intimo.
Silevril avrebbe potuto rimanere con l’immagine di quella
città negli occhi fino alla fine del mondo, berla come acqua di montagna, ma
Galmoth era impaziente e lo occhieggiava nervoso ogni volta che si fermava
sulla via che attraversava la piana del Pelennor fino al Cancello.
< Maledetto Elfo, > lo sentiva borbottare tra sé,
spazientito. L’uomo era stato a Minas Tirith decine di volte e non riusciva a
capire la meraviglia di chi invece non ne conservava memoria alcuna.
< Non crucciarti, capitano, continua per la tua strada.
>
< Rimarrai indietro! >
< La Città è ben visibile, > Silevril rise, < non
mi perderò di certo. >
Galmoth borbottò e aumentò l’andatura.
Era nervoso e Silevril credeva che avesse addirittura
pianto, ma non pensava fosse una buona idea farglielo presente. Avevano
aspettato che il sole fosse ben alto sull’orizzonte, prima di sbarcare e
attraversare la strada che portava al Cancello dal piccolo, e poco usato, porto
della Città.
Laer era sparita, andata via durante la notte, e Galmoth
voleva essere sicuro che fosse ormai fuori dalla loro portata quando fossero
arrivati davanti alle guardie del Cancello. A nulla erano valse le preghiere di
Silevril, la ragazza si era inferocita anche con lui quando si era detto
convinto delle scelte di Galmoth.
Ripensare a ciò che era successo lo metteva a disagio,
ancora gli sembrava di sentire le labbra di Laer su di sé, il sapore salato
delle sue lacrime ma anche la sensazione morbida del suo corpo minuto che lo
stringeva. Non aveva ricambiato, non ne era stato capace e adesso se ne pentiva
amaramente… aveva la sensazione che l’ira della ragazza ne fosse uscita
accresciuta da quel rifiuto e che l’andare via fosse una fuga anche da lui.
Si sentiva come svuotato, era rimasto per lei, ma ora era
andata via e lui si ritrovava incastrato con Galmoth nei suoi loschi affari…
per cosa? Non era davvero riuscito ad abbandonare il Capitano… si sentiva
confuso.
Aumentò il passo per raggiungere finalmente le porte. Il
grande Cancello di Minas Tirith, in Mithril con rifiniture d’argento, era
aperto e due guardie lo sorvegliavano, una lunga lancia in mano ma
l’espressione distesa.
< Salute a voi, viaggiatori > dissero
nell’accoglierli, < siete liberi di entrare. >
Improvvisamente videro Silevril e i loro occhi si aprirono
di stupore: < Molti anni sono passati da quando uno degli Eldar è venuto a
Minas Tirith, ne siamo lieti. >
Silevil sorrise.
< Siamo davvero pochi, ormai, a Est del Mare ed io non
ero mai venuto a visitare la più splendida delle città degli uomini. Sono nato
qui, però, e ne sono felice. >
< Il nostro Capitano della Guardia è un elfo, > disse
la guardia, < il grande Finrod Felagund che di sicuro conoscerai. >
L’uomo si inchinò leggermente, scostandosi per farli
passare, < Due volte benvenuti, stranieri. >
Silevril entrò, seguito da Galmoth, che gli si avvicinò e lo
prese per un braccio.
< Sei un maledetto ruffiano, elfo, adesso non passeremo
mai inosservati. >
< Oh, andiamo, Capitano, ogni giorno uomini e donne
attraversano quei cancelli, ma un elfo? Non sarei mai potuto entrare non visto,
così almeno sarò benvenuto. >
Scosse la testa, con fare saccente.
< E poi ciò che ho detto è vero, voglio visitare la città
in cui sono nato mentre tramiamo colpi di stato. >
Galmoth lo zittì bruscamente, guardandosi intorno
circospetto, ma nessuno stava ad ascoltare: donne si affrettavano lungo le vie
e tra le botteghe, uomini erano seduti sugli usci chiacchierando allegramente,
bambini giocavano nei cortili… nessuno badava a loro, solo, a volte, qualcuno
guardava sbalordito Silevril, per poi passare oltre.
< Baran ha detto che un suo uomo ci avrebbe contattati
una volta arrivati a Minas > sussurrò Galmoth, senza smettere di guardarsi
intorno.
Era agitato, nervoso, e sudava copiosamente. Sembrava
aspettarsi un colpo improvviso alle spalle.
< Stai calmo, Capitano. > Silevril sbuffò appena, <
Baran segue ogni nostro passo da quando abbiamo lasciato Dol Amroth, lo sento.
Non riusciremo a trovare il suo contatto nemmeno se cercassimo in ogni bettola
della città, nel frattempo ti consiglio di godere della bellezza del luogo.
>
L’elfo aumentò il passo, seguito da Galmoth.
Il marinaio avrebbe davvero voluto essere furioso per la
sfacciataggine e il sangue freddo dell’altro, ma tutto ciò a cui riusciva a
pensare era che lo trovava stranamente rassicurante. Stava sviluppando una
pericolosa forma di amicizia nei suoi confronti e il fatto che si fidasse così
di lui fin dal primo istante era inquietante ai suoi occhi.
Lo seguì mentre camminava spedito per le vie affollate della
capitale di Gondor, incurante di essere alto e splendente nella luce del
mattino, oggetti di sguardi increduli e mormorii. Maledetto lui, maledetto il
suo stupido egocentrismo! Gli aveva detto di tenere il cappuccio, di
nascondersi, di non attirare l’attenzione, ma lui sembrava al contempo ignaro e
vanitoso.
Si fermò improvvisamente e per poco non vi sbattè contro.
< Perché siamo venuti qui? >
< Qui è dove sono nato, Galmoth. >
Lo aveva chiamato per nome, riflettè, ma no gli dava
fastidio. Guardò il portone delle Case di Guarigione e il volto sereno
dell’elfo mentre era perso in ricordi lontani.
< Avevo raccontato a Laer della mia nascita, >
mormorò, come a se stesso, < speravo quasi di trovarla qui.. speravo… >
Improvvisamente si riscosse e lo guardò, un nuovo sorriso
sul suo volto eternamente giovane.
< Nulla. >
Fece per incamminarsi di nuovo, ma Galmoth lo bloccò.
< Grazie > disse.
< Per cosa? >
< Volevi andare con lei, credi ancora che Laer abbia
ragione, che io sia uno stupido a seguire Baran, che lui mi abbia solo usato in
passato e che sia stato crudele a non dire nulla a lei quando decise di venire
con me. >
Silevril tacque, attendendo che l’uomo continuasse.
< Sono egoista, Silevril, anche adesso vorrei che Laer
non avesse mai scoperto nulla, che continuasse a credere che io sia solo stato
vittima di un complotto… >
L’elfo sorrise, riprendendo a camminare, salendo ancora
verso il settimo livello della Città.
< Forse sono un egoista anch’io > disse infine con una
scrollata di spalle, < hai difeso il tuo amico, anche se sapevi che non lo
meritava. Io avrei fatto lo stesso. E
sono rimasto perché amo la Stella Marina
e non voglio lasciarla, anche se questo comporta aiutare un assassino a
manovrare un colpo di stato. >
Oltrepassarono l’ultima porta e furono nella grande piazza,
al cui centro l’Albero Bianco era in fiore.
Due guardie erano in piedi ai due lati, mentre alcuni
cittadini si fermavano a guardare prima di continuare i loro affari.
Silevril si diresse verso le mura e si appoggiò al
parapetto: la Piana del Pelennor si stendeva tutta davanti a lui e in
lontananza sul Fiume, alcune piccole imbarcazioni fluviali se ne stavano
placidamente alla fonda.
Silevril aguzzò lo sguardo, cercando di distinguere la Stella,
ma era difficile anche per lui esserne sicuro da quella distanza.
Galmoth gli si accostò, guardando anche lui verso il fiume
lontano, ma i suoi occhi non riuscivano a scorgere altro che figure indistinte
sull’acqua.
Poco distante da loro, una delle guardie della cittadella,
con l’elmo d’argento in testa e un mantello bianco agitato dal vento, sembrava
persa nella contemplazione del paesaggio.
Galmoth la guardò per un po’, poi si volse verso l’elfo al
suo fianco.
< L’ho capito subito, non appena ti ho visto: sei davvero
strano. Pensavo che quelli della tua razza fossero tutti dediti alla giustizia,
impegnati al massimo per essere il più eterei possibile, ma tu hai una
concezione di bene e male del tutto personale. >
< Non posso dirti molto degli altri “della mia razza”, ma
ciò che so su coloro che mi hanno dato la vita propende più sul fare ciò che si
ritiene giusto in quel momento, anche se forse non lo è. >
Galmoth rise, dandogli una pacca sulla spalla.
< Ascolta, Silevril, > disse < c’è una locanda al
primo livello, una di quelle bettole che invoglia solo marinai e vagabondi,
vado a vedere se hanno un posto per noi e attenderemo insieme, egoisticamente.
>
Galmoth lo lasciò solo e lui si chinò leggermente in avanti,
appoggiando le braccia conserte al piano di pietra chiara.
Ripensò a come era cambiata la sua vita in così poche
settimane, a come era fuggito da qualcosa per poi ritrovarla dentro di sé e
accettarla completamente. Gli sembrò di poter finalmente capire sua madre, ma
più di ogni altra cosa capiva perché suo padre aveva sempre atteso: non
gl’importava che Laer fosse lontana o vicina, sentiva che quella ragazza gli
era entrata dentro senza possibilità di tornare indietro.
Avrebbe davvero dovuto ricambiare quel bacio, si disse, e
infischiarsene di qualsiasi remora morale sulla loro diversa natura e altro. Se
ne stava pentendo amaramente e, quando chiudeva gli occhi, la sua fantasia
volava, costruendo immagini allettanti di come sarebbe potuta finire là sul ponte della Stella se lui si fosse lasciato andare.
Con un sospiro si rimise dritto e fece per andarsene, ma per
poco non andò a sbattere contro la Guardia che prima guardava la Piana.
Si era avvicinata silenziosamente e ora lo guardava da sotto
l’alto elmo coronato d’ali bianche, i lunghi capelli agitati dal vento e il
volto sporco di barba appena accennata e gli occhi penetranti di una luce
antica.
< Non ho potuto fare a meno di udire il tuo amico chiamarti
Silevril, > disse la guardia con uno sguardo stranissimo che a Silevril mise
tristezza, < e ho dovuto conoscerti. Sono Finrod Felagund, figlio di
Finarfin. >
La bocca di Silevril si aprì in un sorriso sghembo che
sembrò deformargli i lineamenti in qualcosa di infantile.
< Lo so. >
Non ci speravate più, vero? E invece rispunto quando meno ve
l’ spettate, giusto in tempo per rovinarvi il Natale! No, dai, la verità è
che ho avuto che fare con l’incubo di qualsiasi persona si diletti in questo
passatempo lavoro, ovvero il temibile BLOCCO DELLO SCRITTORE e non c’era davvero
verso per fortuna Tolkien è venuto in mio soccorso e tra la rilettura annuale
del la Trilogia e la visione de Lo Hobbit (l’avete visto vero? Non è un
capolavoro? Sì, sì, lo è!) sono riuscita a uscirne e qu eccomi qui! Buon Natale
a voi tutti che mi leggete (v ho visto, voi, piccoli numeretti nella mia pagina
di gestione storie) e soprattutto a quelle gran donne di Morwen_Eledhwen,
Elfa e Hareth che mi recensiscono anche, per tutte voi anche una foto di Silevril nudo
che si copre le pudenda con un cappellino da Babbo Natale, fatene buon uso!
* Il titolo del
capitolo è un verso di In The End dei Linkin Park