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Autore: Thiliol    23/12/2012    3 recensioni
Galmoth non ha più nulla, nè onore, nè titolo, nè ricchezze, nulla se non la sua piccola nave da contrabbandiere e Laer, la figlia del suo migliore amico morto anni prima. Laer è giovane e ha la testardaggine di una ragazzina, ma non ha mai smesso di sognare i sogni di quando era bambina.
E poi c'è Silevril, il figlio di un amore morboso che vorrebbe solo andare per mare e che invece sconvolgerà le vite di entrambi.
Galmoth osservò con sguardo inquisitore l'elfo che gli stava di fronte:era nato e cresciuto a Dol Amroth e lì non era raro imbattersi nei Priminati e conoscerne anche qualcuno, ma quel Silevril aveva qualcosa di diverso, come un fuoco latente in lui. Non era come i Silvani che sempre più spesso salpavano da lì, diretti alle loro terre al di là del mare, riusciva a percepirlo chiaramente: riconosceva un elfo di alto lignaggio, quando lo vedeva.
< Dici che vuoi metterti al mio servizio? >
< Desidero solo il mare e la compagnia degli uomini, inoltre, la tua nave è meravigliosa. >
Galmoth rise, strofinandosi il mento sporco di barba non rasata.
< Sei un elfo ben strano, Silevril. >
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Finrod Felagund, Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Narn o Alatariel ar Aeglos'
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but in the end it doesnt even matter


But in the end it doesn't even matter

 

 

 

Minas Tirith si ergeva imponente e candida, adagiata sul fianco del Mindolluin come se vi fosse placidamente abbracciata. I sette livelli sembravano continuare fino all’infinito e la Torre di Echtelion, modellata a immagine della prua di una nave, contribuiva a quel fascino insieme maestoso e intimo.

Silevril avrebbe potuto rimanere con l’immagine di quella città negli occhi fino alla fine del mondo, berla come acqua di montagna, ma Galmoth era impaziente e lo occhieggiava nervoso ogni volta che si fermava sulla via che attraversava la piana del Pelennor fino al Cancello.

< Maledetto Elfo, > lo sentiva borbottare tra sé, spazientito. L’uomo era stato a Minas Tirith decine di volte e non riusciva a capire la meraviglia di chi invece non ne conservava memoria alcuna.

< Non crucciarti, capitano, continua per la tua strada. >

< Rimarrai indietro! >

< La Città è ben visibile, > Silevril rise, < non mi perderò di certo. >

Galmoth borbottò e aumentò l’andatura.

Era nervoso e Silevril credeva che avesse addirittura pianto, ma non pensava fosse una buona idea farglielo presente. Avevano aspettato che il sole fosse ben alto sull’orizzonte, prima di sbarcare e attraversare la strada che portava al Cancello dal piccolo, e poco usato, porto della Città.

Laer era sparita, andata via durante la notte, e Galmoth voleva essere sicuro che fosse ormai fuori dalla loro portata quando fossero arrivati davanti alle guardie del Cancello. A nulla erano valse le preghiere di Silevril, la ragazza si era inferocita anche con lui quando si era detto convinto delle scelte di Galmoth.

Ripensare a ciò che era successo lo metteva a disagio, ancora gli sembrava di sentire le labbra di Laer su di sé, il sapore salato delle sue lacrime ma anche la sensazione morbida del suo corpo minuto che lo stringeva. Non aveva ricambiato, non ne era stato capace e adesso se ne pentiva amaramente… aveva la sensazione che l’ira della ragazza ne fosse uscita accresciuta da quel rifiuto e che l’andare via fosse una fuga anche da lui.

Si sentiva come svuotato, era rimasto per lei, ma ora era andata via e lui si ritrovava incastrato con Galmoth nei suoi loschi affari… per cosa? Non era davvero riuscito ad abbandonare il Capitano… si sentiva confuso.

Aumentò il passo per raggiungere finalmente le porte. Il grande Cancello di Minas Tirith, in Mithril con rifiniture d’argento, era aperto e due guardie lo sorvegliavano, una lunga lancia in mano ma l’espressione distesa.

< Salute a voi, viaggiatori > dissero nell’accoglierli, < siete liberi di entrare. >

Improvvisamente videro Silevril e i loro occhi si aprirono di stupore: < Molti anni sono passati da quando uno degli Eldar è venuto a Minas Tirith, ne siamo lieti. >

Silevil sorrise.

< Siamo davvero pochi, ormai, a Est del Mare ed io non ero mai venuto a visitare la più splendida delle città degli uomini. Sono nato qui, però, e ne sono felice. >

< Il nostro Capitano della Guardia è un elfo, > disse la guardia, < il grande Finrod Felagund che di sicuro conoscerai. >

L’uomo si inchinò leggermente, scostandosi per farli passare, < Due volte benvenuti, stranieri. >

Silevril entrò, seguito da Galmoth, che gli si avvicinò e lo prese per un braccio.

< Sei un maledetto ruffiano, elfo, adesso non passeremo mai inosservati. >

< Oh, andiamo, Capitano, ogni giorno uomini e donne attraversano quei cancelli, ma un elfo? Non sarei mai potuto entrare non visto, così almeno sarò benvenuto. >

Scosse la testa, con fare saccente.

< E poi ciò che ho detto è vero, voglio visitare la città in cui sono nato mentre tramiamo colpi di stato. >

Galmoth lo zittì bruscamente, guardandosi intorno circospetto, ma nessuno stava ad ascoltare: donne si affrettavano lungo le vie e tra le botteghe, uomini erano seduti sugli usci chiacchierando allegramente, bambini giocavano nei cortili… nessuno badava a loro, solo, a volte, qualcuno guardava sbalordito Silevril, per poi passare oltre.

< Baran ha detto che un suo uomo ci avrebbe contattati una volta arrivati a Minas > sussurrò Galmoth, senza smettere di guardarsi intorno.

Era agitato, nervoso, e sudava copiosamente. Sembrava aspettarsi un colpo improvviso alle spalle.

< Stai calmo, Capitano. > Silevril sbuffò appena, < Baran segue ogni nostro passo da quando abbiamo lasciato Dol Amroth, lo sento. Non riusciremo a trovare il suo contatto nemmeno se cercassimo in ogni bettola della città, nel frattempo ti consiglio di godere della bellezza del luogo. >

L’elfo aumentò il passo, seguito da Galmoth.

Il marinaio avrebbe davvero voluto essere furioso per la sfacciataggine e il sangue freddo dell’altro, ma tutto ciò a cui riusciva a pensare era che lo trovava stranamente rassicurante. Stava sviluppando una pericolosa forma di amicizia nei suoi confronti e il fatto che si fidasse così di lui fin dal primo istante era inquietante ai suoi occhi.

Lo seguì mentre camminava spedito per le vie affollate della capitale di Gondor, incurante di essere alto e splendente nella luce del mattino, oggetti di sguardi increduli e mormorii. Maledetto lui, maledetto il suo stupido egocentrismo! Gli aveva detto di tenere il cappuccio, di nascondersi, di non attirare l’attenzione, ma lui sembrava al contempo ignaro e vanitoso.

Si fermò improvvisamente e per poco non vi sbattè contro.

< Perché siamo venuti qui? >

< Qui è dove sono nato, Galmoth. >

Lo aveva chiamato per nome, riflettè, ma no gli dava fastidio. Guardò il portone delle Case di Guarigione e il volto sereno dell’elfo mentre era perso in ricordi lontani.

< Avevo raccontato a Laer della mia nascita, > mormorò, come a se stesso, < speravo quasi di trovarla qui.. speravo… >

Improvvisamente si riscosse e lo guardò, un nuovo sorriso sul suo volto eternamente giovane.

< Nulla. >

Fece per incamminarsi di nuovo, ma Galmoth lo bloccò.

< Grazie > disse.

< Per cosa? >

< Volevi andare con lei, credi ancora che Laer abbia ragione, che io sia uno stupido a seguire Baran, che lui mi abbia solo usato in passato e che sia stato crudele a non dire nulla a lei quando decise di venire con me. >

Silevril tacque, attendendo che l’uomo continuasse.

< Sono egoista, Silevril, anche adesso vorrei che Laer non avesse mai scoperto nulla, che continuasse a credere che io sia solo stato vittima di un complotto… >

L’elfo sorrise, riprendendo a camminare, salendo ancora verso il settimo livello della Città.

< Forse sono un egoista anch’io > disse infine con una scrollata di spalle, < hai difeso il tuo amico, anche se sapevi che non lo meritava. Io avrei fatto lo stesso.  E sono rimasto perché amo la Stella Marina e non voglio lasciarla, anche se questo comporta aiutare un assassino a manovrare un colpo di stato. >

Oltrepassarono l’ultima porta e furono nella grande piazza, al cui centro l’Albero Bianco era in fiore.

Due guardie erano in piedi ai due lati, mentre alcuni cittadini si fermavano a guardare prima di continuare i loro affari.

Silevril si diresse verso le mura e si appoggiò al parapetto: la Piana del Pelennor si stendeva tutta davanti a lui e in lontananza sul Fiume, alcune piccole imbarcazioni fluviali se ne stavano placidamente alla fonda.

Silevril aguzzò lo sguardo, cercando di distinguere  la Stella, ma era difficile anche per lui esserne sicuro da quella distanza.

Galmoth gli si accostò, guardando anche lui verso il fiume lontano, ma i suoi occhi non riuscivano a scorgere altro che figure indistinte sull’acqua.

Poco distante da loro, una delle guardie della cittadella, con l’elmo d’argento in testa e un mantello bianco agitato dal vento, sembrava persa nella contemplazione del paesaggio.

Galmoth la guardò per un po’, poi si volse verso l’elfo al suo fianco.

< L’ho capito subito, non appena ti ho visto: sei davvero strano. Pensavo che quelli della tua razza fossero tutti dediti alla giustizia, impegnati al massimo per essere il più eterei possibile, ma tu hai una concezione di bene e male del tutto personale. >

< Non posso dirti molto degli altri “della mia razza”, ma ciò che so su coloro che mi hanno dato la vita propende più sul fare ciò che si ritiene giusto in quel momento, anche se forse non lo è. >

Galmoth rise, dandogli una pacca sulla spalla.

< Ascolta, Silevril, > disse < c’è una locanda al primo livello, una di quelle bettole che invoglia solo marinai e vagabondi, vado a vedere se hanno un posto per noi e attenderemo insieme, egoisticamente. >

Galmoth lo lasciò solo e lui si chinò leggermente in avanti, appoggiando le braccia conserte al piano di pietra chiara.           

Ripensò a come era cambiata la sua vita in così poche settimane, a come era fuggito da qualcosa per poi ritrovarla dentro di sé e accettarla completamente. Gli sembrò di poter finalmente capire sua madre, ma più di ogni altra cosa capiva perché suo padre aveva sempre atteso: non gl’importava che Laer fosse lontana o vicina, sentiva che quella ragazza gli era entrata dentro senza possibilità di tornare indietro.

Avrebbe davvero dovuto ricambiare quel bacio, si disse, e infischiarsene di qualsiasi remora morale sulla loro diversa natura e altro. Se ne stava pentendo amaramente e, quando chiudeva gli occhi, la sua fantasia volava, costruendo immagini allettanti di come sarebbe potuta finire là  sul ponte della Stella se lui si fosse lasciato andare.

Con un sospiro si rimise dritto e fece per andarsene, ma per poco non andò a sbattere contro la Guardia che prima guardava la Piana.

Si era avvicinata silenziosamente e ora lo guardava da sotto l’alto elmo coronato d’ali bianche, i lunghi capelli agitati dal vento e il volto sporco di barba appena accennata e gli occhi penetranti di una luce antica.

< Non ho potuto fare a meno di udire il tuo amico chiamarti Silevril, > disse la guardia con uno sguardo stranissimo che a Silevril mise tristezza, < e ho dovuto conoscerti. Sono Finrod Felagund, figlio di Finarfin. >

La bocca di Silevril si aprì in un sorriso sghembo che sembrò deformargli i lineamenti in qualcosa di infantile.

< Lo so. >

 

 

 

 

 

 

Non ci speravate più, vero? E invece rispunto quando meno ve l’ spettate, giusto in tempo per rovinarvi il Natale! No, dai, la verità è che ho avuto che fare con l’incubo di qualsiasi persona si diletti in questo passatempo lavoro, ovvero il temibile BLOCCO DELLO SCRITTORE e non c’era davvero verso per fortuna Tolkien è venuto in mio soccorso e tra la rilettura annuale del la Trilogia e la visione de Lo Hobbit (l’avete visto vero? Non è un capolavoro? Sì, sì, lo è!) sono riuscita a uscirne e qu eccomi qui! Buon Natale a voi tutti che mi leggete (v ho visto, voi, piccoli numeretti nella mia pagina di gestione storie) e soprattutto a quelle gran donne di Morwen_Eledhwen, Elfa e Hareth che mi recensiscono anche, per tutte voi anche una foto di Silevril nudo che si copre le pudenda con un cappellino da Babbo Natale, fatene buon uso!

 

      * Il titolo del capitolo è un verso di In The End dei Linkin Park

 

 

 

   
 
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