Libri > Hunger Games
Segui la storia  |       
Autore: Leddy    23/12/2012    18 recensioni
Era un ciclo: ogni anno si cominciava, si viveva, si moriva, si finiva.
La capitale gioiva, i Distretti soccombevano senza potersi sottrarre.
Un solo vincitore, una sola voce.
Poi la primavera finiva.

-
La sessantatreesima edizione degli Hunger Games. I Giochi della Fame come non li avete mai visti.
Genere: Generale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A










 

G  li animi forti s’innalzano
sopra la sorte
  .

 

(  Sessantatreesimi Hunger Games  )
 





03. Capitolo tre – Amici e nemici






Come scegliersi gli amici? Solo in base alle simpatie o ai fattori comuni? Sbagliato.
Un amico va scelto con cura, perché sarà quello che ti sarà accanto per sempre, nella buona o nella cattiva sorte. Non giudicare dai comportamenti, non essere precipitoso.
Coloro che tramano contro di te a proprio vantaggio saranno i tuoi più grandi nemici, che tu lo voglia o meno.



Fuori era una bella giornata. C’erano poche nuvole soffici all’orizzonte e il sole primaverile riscaldava e illuminava la pelle e i volti dei capitolini.
C’era chi si dedicava alle compere, chi ad andare a trovare qualche parente e anche chi rimaneva nella propria casa a guardare la televisione.
Ma in uno spicchio della città, poco lontano dall’Anfiteatro, esattamente dove sorgeva il Centro Addestramento, ventiquattro ragazzi erano ignari delle quotidiane faccende degli abitanti di Capitol.
In quell’edificio non potevano guardare il cielo, né potevano assaporare la libertà.
Dovevano allenarsi, studiare e imparare, o sarebbero stati spacciati.
Gli Hunger Games, tutti lo sapevano, erano crudeli. Non ammettevano deboli o incapaci.
E solo uno avrebbe trionfato, il vincitore.
Quei ventiquattro ragazzi si stavano preparando per diventarlo. O sarebbero morti.
Lyla ci aveva riflettuto a lungo. Ne aveva concluso che doveva tentare, per tornare a casa dai ragazzi dell’orfanotrofio. Non poteva lasciarsi andare, non faceva parte del suo carattere.
Pensava, mentre accanto a una postazione armeggiava con dei cavi elettrici. Era il primo giorno di Addestramento, e Atala, il capo-addestratore, aveva detto a tutti loro di orientarsi un po’.
C’era chi si era subito fiondato sulle armi, senza neanche provare a sfiorare le postazioni di sopravvivenza e c’era anche chi si guardava intorno spaesato e goffo.
Lyla stava cercando di giostrarsi. Non avrebbe tralasciato la difesa personale, ma neanche il noioso addestratore che sproloquiava sui vegetali, anche se controvoglia.
Ogni tanto buttava uno sguardo diffidente agli strateghi che li osservavano da un vetro posto in alto. Probabilmente stavano già prendendo appunti su di loro.
Preferì concentrarsi sulla sua opera, o sarebbe uscita fuori di testa.
Dovrebbe andar bene, si disse soppesando la lancia che aveva tra le mani. Non avrebbe mostrato le sue capacità, però, no. Aveva deciso di tenersele per la sessione privata.
Si alzò dalla postazione, allacciandosi una scarpa. Accanto a lei passavano volti e nomi ancora sconosciuti, ma che forse avrebbe cominciato a temere presto.
Nessuno era riuscito a colpirla, finora, eppure sapeva di doversi trovare un alleato. Era restia a parlare con chiunque, ma sapeva che almeno un’alleanza era necessaria. Tanto poi l’avrebbe abbandonata solo dopo qualche giorno.
Stava anche pensando di unirsi ai Favoriti, ma solo per avere le spalle coperte durante il bagno di sangue della Cornucopia.
Decise di fare un giro per la sala. Passò davanti a un muro scivoloso, a un acquario e alla postazione delle armi, ma urtò erroneamente la spalla di un ragazzo massiccio e decisamente più forzuto di lei.
Quello si voltò, infastidito.
– Scusa – disse Lyla, osservando il ragazzo. Le pareva che fosse quello del Distretto 10.
Zefren, dopo aver soppesato un secondo lo sguardo su di lei, la lasciò perdere, voltandosi di nuovo verso i coltelli.
Lei s’indispettì. – Ti ho chiesto scusa, spero non te la sia presa.
L’altro scrollò le spalle. – Nulla, ma sta’ più attenta.
La ragazza rimase un breve secondo a guardarlo nei suoi occhi verdi come il prato. Zefren, ad esempio, l’aveva colpita, non sapeva neanche perché.
Forse per quel che di velato nella sua espressione distante e a istanti malinconica.
Gli porse la mano, anche se vagamente riluttante. – Io sono Lyla, comunque.
Promise a se stessa di non affezionarsi mai a nessuno di quei tributi, o difficilmente sarebbe ritornata a casa, dai ragazzi dell’orfanotrofio. A tratti si chiedeva se la stessero pensando o facendo il tifo per lei.
Magnifico, riesco a relazionarmi più con i bambini che con quelli della mia età, si disse ironica.
Zefren, dal canto suo, parve studiarla per un momento, poi strinse la sua mano malvolentieri. Non voleva degli alleati, almeno non ancora. Almeno nonragazze.
Non aveva nulla contro di lei, ma le sue passate delusioni l’avevano portato a provare diffidenza verso l’intero mondo femminile.
– Zefren.
– Però, come sei loquace –
lo schernì Lyla. Da che pulpito.
Il ragazzo le lanciò un’occhiata in tralice. – E allora?
Lei rise. – Andiamo, stavo scherzando. Sai usare i coltelli? – chiese per fare conversazione. Non voleva tirargli le parole da bocca con un cucchiaino.
– Sto imparando – ammise lui. – Ma non sono un granché.
– Fa’ vedere – 
lo incitò lei.
Zefren lanciò immediatamente un coltello verso un manichino, centrandogli un braccio.
– Non male – affermò Lyla. – Ma se quel manichino fosse stato un favorito saresti già morto, senz’offesa.
Lei era decisamente una ragazza pratica, una di quelle che andava subito al sodo. Detestava mentire o essere falsa, in qualsiasi contesto.
Zefren sbuffò, senza farsi vedere da lei. Per qualche strano motivo la presenza di quella ragazza non lo infastidiva più di tanto. Non tanto da non ritenerla una possibile alleata, almeno. Sembrava in gamba. – E tu cosa sai fare?
Lyla esitò un istante. – Provengo dal distretto della tecnologia, me la cavo con cavi e componenti elettroniche, insomma. Posso costruire delle trappole.
– E hai intenzione di unirti ai Favoriti?
Lei non si aspettava quella domanda, ma fu sincera ugualmente. – In realtà non lo so, ma tu mi sei più simpatico.
Quel ragazzo le ispirava fiducia.
Zefren mostrò la parvenza di un sorriso.

Intanto, i futuri Favoriti si stavano concentrando sulle armi più che mai.
Nathaniel in particolare, accanto alla postazione delle spade, menava fendenti precisi ed efficienti contro un manichino che praticamente cadeva a brandelli.
Aveva un’espressione impassibile sul viso, ma quando decise di fare una pausa un piccolo sorriso soddisfatto gli ornò le labbra carnose e leggermente inusuali per un ragazzo.
Le stesse labbra che ogni ragazza del suo distretto avrebbe voluto baciare.
Si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore, poi si voltò verso la sua sinistra, sentendosi osservato.
– Risparmia la tua forza bruta per l’arena, Eracle.
Nathaniel fissò leggermente stupito la ragazza che aveva parlato. La osservò con sufficienza. – Voglio dimostrare a tutti che sono forte – disse poi, guardandola negli occhi.
Che vuole questa?, si chiese tra sé e sé.
Hydra non si scompose, rimanendo appollaiata a gambe incrociate su un armadio per gli archi. – Non vorrei che il mio compagno di distretto si facesse male, sai?
Nate alzò gli occhi al cielo. – Certo. E tu perché hai deciso di non fare nulla standotene seduta lassù?
L’altra scrollò le spalle, sorridendo enigmatica. Aveva qualcosa di furbo, si poteva leggerglielo nello sguardo.  – Non ho bisogno di uno stupido Centro Addestramento per vincere.
– Ah, però, vedo che sei molto sicura di te –
ribatté lui con un piccolo ghigno. Le si avvicinò, arrivando fin sotto l’armadio. – Male, Hydra Devine, molto male.
Hydra alzò un sopracciglio, scettica e sardonica.  
– Se ricordo bene, fu Eracle a uccidere il drago. O sbaglio? – aggiunse retoricamente. Amava sentirsi superiore alle persone in quel modo. Gli riusciva bene, dopotutto. Anche perché lui era superiore, non c’erano dubbi.
La ragazza non rispose, ma sogghignò lievemente. – Ti auguro buona fortuna, allora, Eraclefece una pausa. – Te ne servirà molta per abbattere tutte le mie teste.*
Con un balzo scese dall’armadio, passandogli accanto e raggiungendo un’altra postazione.
Era davvero strana, quella ragazzina, si ritrovò a pensare. Per avere quindici anni sembrava molto perspicace… e pericolosa.
Non era affatto come le gallinelle che gli correvano dietro a cui era abituato.
Era interessante, in qualche modo.
Un vero drago.
Nathaniel stava tentando di comprenderla, ma depose immediatamente le armi. Era un rompicapo, un assurdo enigma che gli era capitato sulla strada.
Poco male.
L’avrebbe risolto lo stesso, che lei lo volesse o meno.

Josh si guardava intorno. Vedeva tributi che s’impegnavano ovunque.
Lui invece non era affatto invogliato dalle infinite postazioni che probabilmente l’avrebbero aiutato a sopravvivere, ma se ne stava in un angolo ad esaminare il grande acquario contenente pesci di varie specie.
Lui non ne aveva mai visti, provenendo dal Distretto 7, perciò era rimasto ipnotizzato da quella danza subaquea.
Si ridestò. Non era il caso rimanere senza fare nulla, ne andava della sua vita.
Scelse con attenzione la sua seguente postazione, preferendo una piccola lezione pratica con un kit di pronto soccorso.
C’era un addestratore che medicava un volontario esterno, a cui stava mettendo dei punti sul braccio.
– Mettete prima dello spry antidolorifico se la ferita è molto profonda, è anche quello che disinfetta.
Josh non aveva paura del sangue, per cui cercò di osservare, ma non capì quando nell’arena ci sarebbe mai potuto essere un kit tanto attrezzato come quello. Sarebbe stato sicuramente da chiedere agli sponsor.
Non sarebbe mai andato alla Cornucopia a prenderlo. Non ne era in grado, se paragonato a Yaacov o a Nathaniel, che oltre a essere dei Favoriti avevano l’aria di essere ragazzi senza pietà, specialmente il primo.
Josh lo osservò da lontano, notando la sua maniacale attenzione nello scegliere e lucidare le sue armi prima di attaccare.
Il tributo del Distretto 1 aveva un che di inquietante. Non sapeva spiegarsi bene cosa, ma preferiva tenersi alla larga da lui per evitare ripercussioni.
Sembrava una macchina, un essere senza sentimenti.
In quel momento, con una lancia, stava torturando un manichino che, se fosse stato vivo, avrebbe urlato dal dolore.
Yaacov era impassibile. Colpiva e colpiva con una calma glaciale.
Sembrava spietato, disumano.
Ma chi era lui per giudicare, d’altronde, se non un semplice ragazzo che guardava dall’esterno? Nessuno.
Josh aveva imparato, nel corso della sua breve vita, a non giudicare mai, perché non si sa mai cosa si prova quando non si è nei panni del giudice. A lui probabilmente avrebbe dato fastidio, per cui si limitò a non farlo.
Non conosceva la sua storia – e dallo sguardo vuoto e spento di Yaacov si poteva comprendere che ce ne fosse una abbastanza dura alle spalle – né l’aveva conosciuto di persona.
Non fare agli altri quello che non vorresti facessero a te.
Quei proverbi gli erano sempre tornati utili, ma dubitava che nell’arena qualcuno ne avrebbe seguito la malcelata saggezza.
L’unica regola dell’arena era semplicemente: uccidi o muori.
Niente di più chiaro, probabilmente, persino per il Favorito dell’1.

Evelyn, nel frattempo, aveva appena individuato la sua postazione preferita, quella degli archi. Eccitata, senza neanche dare un semplice sguardo alle altre armi o alle tecniche di sopravvivenza, aveva subito preso una faretra piena di frecce e un arco, che in quel momento stava testando su alcuni bersagli fissi.
Due centri perfetti, un tiro un po’ andato male e un altro centro.
Si sentiva abbastanza soddisfatta, ma avrebbe preferito fare di meglio, come concentrarsi sulla successione di più freccie consecutive e sui bersagli mobili.
Dopo l’ennesimo centro, sbuffò. Si guardò intorno, notando che molti tributi erano spaesati o distratti dalle tecniche più futili.
La ragazza del 10 se ne stava ferma in un angolo a fissare il vuoto; quella del 7 saltellava in giro.
Che stupide. Non aspettano altro che morire alla Cornucopia, si disse, roteando gli occhi. E poi si lamentano anche.
Per Evelyn gli Hunger Games erano tutta una questione di preparazione e di furbizia, soprattutto. Non erano ammessi né gli agnellini dal cuore d’oro, né gli stolti che pensavano di poter vincere con un semplice schiocco delle dita.
Scrollò le spalle e decise di fare un giro per la sala, pur continuando a tenere il suo adorato arco in mano e la faretra in spalla.
Passò davanti alla postazione delle katane – gli avevano rivelato in passato che si trattava di antiche spade giapponesi lunghe e sottili –, con cui la ragazza dell’1 si stava allenando; passò l’istruttore di mimetizzazione, alle prese con il piccolo falco del 9 – che, travestita da cespuglio, a malapena si riconosceva – e, ancora, accanto alla postazione delle erbe mediche, molto meno frequentata.
Un piccolo sorriso le adornò le labbra, pensando bene che sarebbe stata molto più furba degli altri se non l’avesse tralasciata, ma poi, di colpo, provò una tristezza infinita.
Tellie era quella esperta di botanica. Era eccezionale, ma era stata uccisa.
Fatta fuori brutalmente da un Favorito alla Cornucopia.

– Tel, ricordati di me – le aveva sussurrato durante l’incontro al Palazzo di Giustizia. – Non voglio che tu muoia.
– Non morirò, Eve, te lo prometto. Potremmo tornare a giocare nei boschi e mangiare le bacche insieme come prima, non preoccuparti –
diceva la dodicenne Tellie, mentre le lacrime rigavano il suo viso un po’ denutrito e la sua voce era scossa dai singhiozzi.
– Solo le bacche buone, però – mormorò Evelyn con una risatina, ma piangendo come la migliore amica.
– Certo, altrimenti quando tornerò ti ritroverò un po’ morta – la situazione era molto triste, ma entrambe smisero di versare lacrime amare e cominciarono a chiacchierare come se fosse un giorno qualunque, finché un Pacificatore non portò Evelyn fuori dalla stanza.
– Ci vediamo presto – sussurrò la bambina.
Ci vediamo presto…

Evelyn si rabbuiò, e posò l’arco sulla prima panca che le si parò davanti. Non si erano riviste. Tellie era spacciata sin dall’inizio, doveva saperlo.
Si sedette laconicamente accanto all’istruttore che, speranzoso, cominciò a spiegare le proprietà benefiche di alcune piante.
Le mostrò una bacca rossa come il sangue.
– Vedi questa non è… –
– … una bacca benefica, lo so. E’ un Morso della notte –
concluse lei al posto dell’uomo, che rimase allibito. Stava per ribattere, quando un’altra ragazza si avvicinò di soppiatto.
– Come hai imparato queste cose? Credevo che i Morsi della notte crescessero solo nel mio distretto. Li usiamo per avvelenare gli animali nocivi, sai? – disse quella, con un tono interessato.
Evelyn la scrutò dal basso della sua panca. Era il piccolo-grande angelo del Distretto 11.
– America, giusto? – chiese con un sopracciglio alzato.
– Giusto – rispose lei con un piccolo sorriso soddisfatto. Le era sempre piaciuto che la gente si ricordasse di lei. – E tu devi essere Evelyn.
– Affermativo –
disse la bruna. – E, per rispondere alla tua domanda, l’ho studiato a scuola.
Non poteva dirle la verità, che aveva imparato a riconoscerle nei suoi amati boschi perché gli animali si tenevano lontani da esse.
– Studiate queste cose? – domandò America stupita, sedendosi accanto a lei. – Insomma, noi non abbiamo mica delle scuole così.
– Più o meno –
rispose l’altra laconica.
– Ho visto che sai usare l’arco – fece la bionda, realmente interessata.
Evelyn non capiva dove volesse andare a parare. Lei non voleva alleati, non se prima o poi sarebbero morti lasciandola nella solitudine più profonda. Non se avrebbero fatto la fine di Tellie.
Annuì.
– Beh, anch’io. Guarda qua – affermò, andando a recuperare l’arco. La quattordicenne incoccò una freccia, fece un respiro profondo e la scoccò, facendola passare accanto all’orecchio di Josh Gilmour e colpendo un bersaglio dall’altra parte della sala.
Il ragazzo, sentendosi chiamato in causa, si voltò accigliato e fissò le due ragazze con sguardo infuriato.
– Volevate ammazzarmi? – fece, avvicinandosi a loro.
America ridacchiò. – Certo che no. C’è ancora tempo per quello, riccio.
Josh rimase allibito da quell’affermazione. – Guardati le spalle, biondina, durante i giochi. Potresti ritrovarti una freccia nell’orecchio.
L’altra non batté ciglio. – Che paura, Distretto 7!
Il ragazzo inspirò profondamente per evitare di saltarle addosso. – Ricorda le tue parole, poi vedremo chi avrà la meglio.
America ghignò lievemente. – Ci conto, eh! – Quando Josh se ne fu andato, la bionda si voltò verso Evelyn. – Che te n’è parso del tiro?
La ragazza del 12 guardò le diverse possibilità. Farsela nemica. Farsela alleata.
Le strinse la mano. – Niente male, davvero.

Sennar si stava esasperando. Essere rinchiuso in quel posto non lo aiutava.
Si era un po’ esercitato con le armi che già sapeva usare – il tridente e la lancia –, ma l’aveva usate come riscaldamento perché non voleva dare sfoggio di sé, specialmente davanti agli altri Favoriti che lo osservavano con aria di sufficienza.
Che vadano al diavolo, si disse, passandosi una mano tra i capelli che gli ricoprivano il viso leggermente imperlato di sudore.
Non sapeva neanche se si sarebbe unito a loro.
C’era Yaacov che incuteva una certa dose di timore, Ibiza che sembrava concentrata ma un po’ fuori luogo, Hydra che camminava in giro senza neanche sfiorare le postazioni, Nathaniel che con la spada faceva a brandelli un altro manichino, e infine la sua compagna di distretto, Samantha, che tentennava dinanzi a una trappola fatta di reti da pesca.
Le si avvicinò furtivo, sperando che lei non lo notasse.
E invece Samantha si voltò di scatto nella sua direzione, trovandoselo a pochi passi di distanza. – Che vuoi? – chiese sbrigativa. – Sono impegnata, non vedi?
Sennar la scrutò per un secondo dal suo capezzale. La frangia sfilzata e albina le copriva gli occhi, per cui non riuscì a decifrare il suo sguardo felino.
Sospirò. – Non è così che si fa un pungo di scimmia.**
– Piantala. Sono fatti miei, se non ti dispiace – replicò la ragazza acidamente. – Tu non sapresti fare di meglio con questi lacci – aggiunse, con una punta di sarcasmo, senza riuscire a trattenersi.
Gli angoli delle labbra di Sennar si incurvarono all’insù. Le prese i lacci da mano senza che lei potesse opporsi.
– Vediamo, allora – fece Samantha ironica, incrociando le braccia al petto.
Con una naturalezza disarmante, il ragazzo eseguì in pochi istanti il nodo tanto discusso.
– Ecco – disse lui, facendo penzolare quell’insieme di lacci intricati davanti al suo viso.
L’altra non poté ribattere, ma sbottò senza cerimonie: – Proveniamo dallo stesso distretto, ma io non sono la pescatrice modello che tutti si aspettano, bel fusto.
E questo non è neanche il mio vero volto. E’ solo una maschera, aggiunse col pensiero, mentre il compagno si voltava verso una fonte di rumore.
A pochi metri da loro, una dei tributi aveva fatto cadere la maggior parte delle lance a terra, provocando un baccano incredibile.
Era stata Karité.
Molti si voltarono verso di lei, altri la lasciarono perdere.
La ragazza del 10 si era portata automaticamente le braccia al petto in un gesto di difesa e fissava tutti con tanto d’occhi.
Aveva occhi grandi, Karité, luminosi ed espressivi come quelli di un cerbiatto alla scoperta del mondo.
A Sennar ricordò terribilmente sua sorella Elle, in quel momento. Indifesa. Spacciata, quasi.
– Sta’ più attenta, ragazzina – la rimproverò Atala con uno sguardo severo.
– Mi dispiace – sussurrò l’altra, così piano che nessuno poté sentirla. Si guardò intorno cercando con lo sguardo qualcuno di familiare, qualcuno che la facesse sentire a casa. Ma trovò solo occhiate perplesse, per lo più rivolte a lei.
Per un momento incontrò gli occhi di Sennar, blu come due zaffiri, o come il mare in bonaccia. Ne fu colpita, tanto da cominciare a credere finalmente di aver visto il mare per la prima volta nella sua vita.
Erano limpidi, puri, come il cielo poco prima che faccia sera.
In cuor suo sapeva – o sperava di aver trovato qualcuno che la facesse sentire meno sola, qualcuno che non la considerasse una pazza visionaria come tutti.
Fire le aveva sempre detto che loro padre aveva occhi molto simili a quelli.
Se ne sentì sollevata, e sorrise placidamente prima di ritirarsi in un angolino sperduto lontana da persone indiscrete.

– Mi stai dicendo che non sai usare neanche un’arma? – chiese il ragazzo con una piccola risatina. – E non sai neanche fare a botte?
Lorelei fissava Richard dal basso verso l’altro. Le si era avvicinato mentre si vestiva da cespuglio, con il suo solito atteggiamento strafottente e le mani in tasca, come se non avesse nulla di più importante da fare.
La ragazzina del 9 inarcò le sopracciglia. – Non parlarmi come se fossi una bambina, idiota.
L’altro non sembrò minimamente scalfito da quell’insulto gratuito. Piuttosto, le sue labbra si curvarono in un ghigno. – E’ tutto ciò che sai fare, piccola?
Lor non lo calcolò, riprendendo ad ornare le sue braccia di foglie e ramoscelli vari.
Richard, che non demordeva facilmente, le mise una mano sulla spalla, in un ironico gesto di conforto. – Come ti capisco, anche io a dodici anni ero così ingenuo.
Bugia, si disse tra sé. Panem mi ha rubato l’ingenuità molto prima.
La dodicenne sbattè un momento le ciglia e inspirò, tentando ancora una volta di non considerarlo. Non voleva avere a che fare con quel tipo.
– Andiamo, ce l’avrai la lingua, no?
Lorelei si voltò verso di lui, con un’occhiataccia ammonitrice. – Smettila, Distretto 12. Lasciami in pace.
Richard alzò le mani in segno di resa. – Scusami. Hai ragione, non dovrei importunare delle giovani donzelle senza speranza.
Fu allora che l’altra esplose, puntando un dito accusatore verso di lui. – …Coglione!
Stà. Zitto. –
Fece una piccola pausa ad effetto. – Ché sarai tu il primo a morire.
Il ragazzo scosse la testa ridendo. – Woah! Mi piaci così, ragazzina! Non farti fottere dai più grandi, ok?
Stavolta fu Lorelei a sorridere di soddisfazione. – Lo terrò a mente – disse. – Basta solo che non mi fai da madrina, sarebbe davvero…
– Davvero? –
la incitò Richard.
– Controproducente – puntualizzò.
Il biondo affievolì la sua espressione arrogante, pur mantenendo sempre il suo atteggiamento. Lorelei era un’interessante, possibile alleata. Sembrava in gamba, nonostante quello che avesse detto lui in precedenza.
– Diciamo che hai capito come va la vita – fece. – Gli altri dovrebbero stare alla larga da te.
– Per fortuna l’hai capito –
ribatté Lorelei. – Ora lasciami ai miei esercizi, anche se temo che dovremmo rivederci presto.
– Andiamo, so che stai già aspettando quel momento, biondina –
replicò Richard, ammiccando.
– Ma anche no – disse la ragazzina facendo spallucce.
Il ragazzo le ammiccò un’ultima volta, prima di girarsi e dirigersi alla postazione dei coltelli.
Lorelei pensava che Richard fosse estremamente strano per essere capitato agli Hunger Games. Era proprio quel tipo di persona con cui Capitol detestava avere a che fare. Sperò davvero che non venisse penalizzato per questo, dopotutto lui era un tributo come tutti gli altri.
In fondo – ma molto in fondo – le stava simpatico.
– Distretto 12! – lo chiamò.
Richard si voltò verso la sua voce.
– Non farti troppo male con quei coltelli! Non vorrei doverti fare da balia.
La risata dell’altro, nonostante si trovassero a diversi metri di distanza, riecheggiò cristallina.

Quattro tributi, estraniandosi dagli altri, stavano seguendo con attenzione la lezione di arrampicata su pareti scivolose. L’addestratore, un tipo alto e magrissimo che pareva quasi un elfo, si era assicurato a una corda e faceva vedere ai ragazzi come proseguire. La parete, costellata di prese per mani e piedi, era stata inumidita con del fango.
– Non credete che sia facile – disse loro. – Un piccolo errore e potreste essere morti.
– Grazie per avercelo ricordato –
commentò Bleika ironica. Accanto a lei, Julian sorrise mestamente a quella replica.
L’addestratore la ignorò, prendendo a scalare la parete fangosa.
– Ho una domanda – annunciò Julian, facendo un passo avanti. – Non avremo di certo delle corde nell’arena, come faremo?
Evidentemente l’istruttore non sapeva rispondere a quella domanda, perché balbetto frasi sconnesse e senza senso. Quando scese, baldanzoso e rosso in viso, disse: – Ora provate voi.
Diede a tutti e quattro delle corde e dei caschi che ricordavano molto quelli dei minatori, gialli e saldi.
Ognuno di loro di stabilì su una parte della parete, un po’ distanziati.
Quella che sembrava avere più difficoltà era Luna, perché era sempre stata abituata ad arrampicarsi sugli alberi, non sul fango. E poi le sue scarpette consumate la facevano scivolare spesso.
Adam, accanto a lei, la guardava preoccupato. – Vuoi una mano?
Luna in un primo momento scosse la testa, poi, quando scivolò di nuovo, si accostò al ragazzo del 6, che le mise una mano intorno alla vita per aiutarla.
– Ecco, vedi, devi solo essere un po’ più prudente, come ha detto l’istruttore.
La ragazzina si sentì rincuorata da quell’aiuto. Dalle sue parti era raro che un suo compagno la sostenesse in quel modo.
Ma lei non poteva sapere che Adam la sentiva vicinissima a sua sorella Keira, perché le due erano molto simili, anche fisicamente.
Lui era protettivo, gentile e altruista, anche se un po’ sulle sue. Le ispirava fiducia come nessuno aveva fatto fino a quel momento.
Luna aveva provato a studiare un po’ tutti i tributi da lontano e quelli che le stavano più simpatici erano Julian, Bleika e Adam stesso, per questo si era unita a loro. Quest’ultimo in particolare era diverso da chiunque altro. Aveva un’aura benigna, speciale. L’aveva capito dai suoi occhi grigi come il ghiaccio e un po’ spenti come le nuvole poco prima della pioggia.
Luna, a pelle, si fidava di quegli occhi, ne era sicura.
Julian, dal canto suo, era concentrato al massimo perché raramente nel suo distretto aveva provato ad arrampicarsi.
Gli riusciva abbastanza difficile, a dire il vero, ma tentava in tutti i modi di non scivolare e cadere.
Nonostante la corda a cui era legato, infatti, aveva il terrore di precipitare.
Bleika, che sembrava davvero a suo agio grazie al suo corpo flessibile e agile, gli si accostò con un gran sorriso. – Non vuoi morire prima di entrare nell’arena, vero?
Julian scosse la testa, cercando di non guardarla per evitare di scivolare. – Direi di no.
– Ottimo –
ribatté lei, genuina. – Ma scommetto anche che non vuoi morire affatto.
La cosa era paradossale, ma entrambi scoppiarono a ridere, rischiando anche più volte di capitolare.
– No, assolutamente no – rispose Julian con sincerità. – Anche se l’idea di uccidere mi disgusta.
La ragazza tornò seria, guardando verso l’alto, la parte superiore della parete. – Abbiamo una cosa in comune, allora, a quanto pare.
Anche Julian si rabbuiò. – Non capisco come una persona possa desiderare di volerlo fare.
Bleika non rispose, pensosa.
– Prendi quelli del 2, ad esempio. Non vedono l’ora di farci a fettine – aggiunse il ragazzo.
– Pare di sì – ribatté l’altra, voltandosi un momento verso Hydra, che bighellonava in giro. – Ma non m’importa.
Julian assunse un’espressione interrogativa. – Non… t’importa?
– Capitol non mi cambierà. Gli Hunger Games non mi cambieranno –
confessò Bleika, decisa. – E se dovrò uccidere qualcuno di disarmato e indifeso, beh, sappi che non lo farò affatto.
Il ragazzo rifletté su quelle parole per qualche minuto. – Non puoi permetterti di ragionare così.
Lei lo guardò delusa, credendo che non avesse compreso il suo discorso. – Invece posso. E’ il mio modo di ragionare, non posso farci nulla.
Julian la fissò intensamente negli occhi, rimanendo profondamente colpito dal loro color del cielo e dall’incredibile voglia di libertà che sprigionavano.
Bleika era una rondine chiusa in gabbia. Ma si sarebbe liberata presto, spiccando un volo senza fine.
– Hai ragione – concluse lui. – Ma dovrai usare altre armi per difenderti.
– Già –
replicò Bleika. – Le mie armi.
E molto probabilmente non si riferiva a delle lame o a delle pallottole, ma alla sua forza interiore e alla sua morale.
Quando l’arrampicata fu finita, nessuno si era fatto male.
I quattro si guardarono a vicenda. Avevano trovato dei possibili alleati e ne erano coscienti.
Forse sarebbero stati meno soli in quella solitudine passiva che erano i Giochi della Fame.

Skye era rimasta alla postazione dei coltelli per un’ora abbondante. Li sapeva già usare parzialmente, ma aveva preferito esercitarsi di più con quelli che con la balestra, visto che questa era l’arma che conosceva meglio.
Su diversi tiri, pur avendo calibrato il peso e la distanza, ne aveva centrati solo tre, il che per lei era inconcepibile.
Ma, dopotutto, era solo il primo giorno al Centro Addestramento. Poteva sempre migliorare.
Decise di fare una pausa. Bevve un po’ d’acqua da una bottiglina che aveva fornito lo staff ad ogni tributo.
Guardando il resto dei ragazzi nella grande sala, capì che non aveva bisogno di nessun alleato per sopravvivere. Era in gamba, poteva farcela da sola.
E poi nella sua vita aveva imparato che a meno persone ci si affezionava, meno si aveva l’ansia e la paura di perderle. Un sollievo per lei, insomma.
Doveva già badare a suo fratello Tyler, così magari, vincendo, avrebbe potuto trovare la cura a quella misteriosa malattia che gli aveva afflitto i polmoni.
E poi gliel’aveva promesso. Aveva promesso che sarebbe tornata sana e salva da lui.
Si legò i lunghi capelli color mogano in una coda alta, per essere più pratica. Prima che potesse ricominciare con i coltelli, però, una voce dietro di lei la fermò.
– Non è così che s’impugnano – aveva detto Everett Hughes leggermente imbarazzato.
Skye si voltò verso di lui stizzita ma, quando incrociò il suo sguardo smeraldino non potè non rilassarsi. – E come dovrei impugnarlo, scusa?
Everett si passò una mano tra i capelli. – Beh, devi essere meno rigida e più sciolta.
– A quanto pare ne sai più di me in materia, Distretto 8 –
disse con falsa modestia. – Perché non mi fai vedere?
Skye non voleva un alleato. Skye voleva una marionetta, una persona che facesse il lavoro sporco per lei.
Detestava a volte essere così fredda, calcolatrice e manipolatrice, ma ne andava della sua vita. E di quella di Tyler.
Everett, vagamente sollevato, le si avvicinò e prese uno dei coltelli, soppesandolo per un secondo. Con agilità malcelata lo lanciò, colpendo un punto poco lontano dal cuore del manichino.
– Niente male, Distretto 8 – disse con poca sincerità. – Dovresti insegnarmi.
Il ragazzo prese bene la proposta, aiutandola nelle seguenti due ore, dove Skye apprese qualche tecnica in più.
E mentre i due si esercitavano, qualcuno li osservava da lontano e in silenzio.
Alec era alto e di fisico ben piazzato, ma aveva un’abilità non comune a tutti: il silenzio. Quando camminava a stento ci si accorgeva della sua presenza, motivo per cui Skye ed Everett non si erano accorti di niente.
Il ragazzo del 9, pur essendo piuttosto riservato, era rimasto colpito dai due tributi, anche perché sembravano entrambi disponibili e meno scontrosi degli altri.
Pur riluttante, si accostò ad Everett, che si voltò verso di lui con un’espressione interrogativa. Alec era anche più robusto di lui, non vedeva come potesse essere interessato a un’alleanza vista la sua corporatura esile e poco allenata.
– La postazione dei coltelli sembra una delle più frequentate – disse sforzandosi di sorridere. La verità era che non c’era niente di divertente o ironico in quella situazione. Tre ragazzi che provano a stringere alleanza per evitare di morire subito.
Skye alzò un sopracciglio, Everett annuì passivamente. – Forse sono l’arma più semplice da usare.
– Non credo –
affermò Alec. – Io ad esempio sono pessimo in queste cose. Non ho una buona mira.
– Quella si acquista con il tempo –
replicò il ragazzo dell’8, rincuorato che qualcun altro volesse fare amicizia con lui. – Stavo giusto spiegando a Skye come…
– Ora devo allenarmi –
lo liquidò la ragazza con un’espressione di superiorità. – Tanti saluti.
Alec rimase deluso dal suo comportamento, tanto che riprese a parlare con Everett evitando di calcolarla. Era strana, Skye. Senza scrupoli.
O forse era solo quello che voleva far credere a tutti.

– Fatemi stare con voi – disse Makaira convinta. – Non ve ne pentirete.
Nathaniel e Hydra soffermarono lo sguardo su di lei. – E perché dovremmo? – chiese la ragazza con una risatina.
La ragazza dell’8 non ci pensò neanche due volte. Si voltò verso un manichino e tirò tutti e tre il coltelli che aveva in mano, centrandogli la fronte. Si girò nuovamente. – Perché potrei essere un’avversaria pericolosa.
I due ragazzi del Distretto 2 ghignarono, ma si limitarono a non rispondere.
– Beh? – fece Makaira, stizzita.
– Benvenuta tra i Favoriti, allora – disse Hydra, pur mantenendo la sua espressione sardonica. Potresti tornarci utile, si disse la rossa tra sé.
Mentre la bruna si allontanava con un piccolo sorriso soddisfatto, qualcuno le prese il polso, facendola voltare di scatto.
– Sei tu Makaira Win?
La ragazza fissò Jesse Chletter dalla testa ai piedi. Obiettivamente un bel ragazzo, le sue spalle larghe e il fisico muscoloso potevano incutere timore.
– Già, sono io – rispose incrociando le braccia. Il suo era un invito a proseguire.
Makaira aveva dei grossi sospetti sul perché l’avesse bloccata nel bel mezzo della sala.
– E’ tutto quello che volevo sapere – fece Jesse, lanciandogli uno sguardo infuocato. Quello che brillava nei suoi occhi era odio puro. Stava per andarsene, ma fu l’altra a bloccarlo stavolta.
– Ne sei sicuro, Chletter? Non vuoi sapere di più?
Jesse non provò neanche ad ignorarla. Gli iniziarono a prudere le mani. – Sono sicurissimo, piccola stupida favorita.
Makaira inarcò le sopracciglia. – Io sarei stupida? – chiese, cominciando poi a ridere come se avesse appena ascoltato una barzelletta.
Il ragazzo le prese di nuovo il polso. – Sì, tu e quella stronzetta di tua sorella.
Lei smise di ridere, tornando seria. Non sopportava quando offendevano Camilla. Era una persona speciale, non meritava di morire.
– Offendi di nuovo mia sorella e sarai morto prima di entrare nell’arena – fece, puntandogli un dito contro.
Jesse non si scompose affatto. – Ne dubito. E poi tu farai la sua stessa fine, contaci.
Makaira non poté resistere olte. Gli saltò letteralmente addosso, cacciando un coltellino da una lasca e puntandoglielo alla gola. Jesse si dimenò, finché la quattordicenne non cadde a terra, per poi rialzarsi di nuovo e menargli un calcio che non andò a fondo.
– Smettila. Sei solo una bambina – disse il ragazzo con un piccolo ghigno. – Una stupida bambina viziata.
Makaira urlò di rabbia, riprendendo ad attaccare con una furia, finché non fu tirata via da Atala in persona, che si era accorta del trambusto.
Entrambi furono rimproverati severamente per la loro condotta infantile, ma la ragazza non aveva occhi e orecchi che per Jesse. Lo fissava come se lo stesse uccidendo con lo sguardo.
Ti ammazzerò, Chletter. Ti ammazzerò come Camilla ha fatto con tuo fratello.
Anche l’altro sembrava furioso e voglioso di vendetta. Non aveva pensieri che per Clay. Vendicherò mio fratello, stupida favorita nata nel distretto sbagliato.
Sembrava un odio destinato a perdurare, quello che si era creato tra i due.

Ibiza, dopo essersi allenata con la katana e il giavellotto, se ne stava seduta su una panca a riprendere fiato e per bere un sorso d’acqua.
Si guardò intorno per scegliere la sua prossima postazione, stavolta preferendo concentrarsi sulle cose che non sapeva fare. Che erano poche, tra l’altro.
Non era stata addestrata per nulla, in fondo, nonostante si fosse offerta unicamente per la cugina Jade. Non per orgoglio. Non per la fama – che aveva già in grande quantità – né per il denaro.
Nel Distretto era conosciuta come la figlia dello spagnolo, una ragazzina che prometteva bene ma che non avrebbe mai concluso niente di importante nella vita, se non sposarsi con un altro ragazzo ricco del distretto, per poi dar vita a una progenie di uguale prestigio.
Ma Ibiza non era destinata a quello. Ibiza era destinata ad aiutare le persone, anche quelle meno fortunate, a farle rallegrare e donare un sorriso a chi non poteva permetterselo.
Ibiza era una persona buona, che non meritava un destino del genere, già prescritto.
A soli tre anni era stata buttata nell’Istituto della Guerra, per prepararsi sin dalla tenera età per gli Hunger Games, anche quelli previsti dalla sua prosperosa famiglia.
Non aveva mai fatto nessuna scelta da sola, aveva sempre dovuto sottostare agli ordini degli altri, ma ormai vi era abituata. Voleva solo tornare a casa da Jade. E da Chiyo e Rommel, le sue migliori amiche. A qualunque costo.
Si avvicinò all’istruttore di mimetizzazione.
– Scusi – gli disse, nonostante quello fosse di poco più grande di lei. – Ho bisogno d’aiuto.
L’addestratore si fece tutt’orecchi.
– Vede… so nascondermi, ma il mio problema è che sono troppo rumorosa… mi può aiutare?
Il suo interlocutore fece un mezzo sorriso. – Pare che tu abbia lo stesso problema di quel ragazzino – fece indicando qualcuno poco più in là, alle prese con pitture e ramoscelli vari.
Le sembrò che fosse Vladimir, il tributo del Distretto 11, il più giovane dei maschi.
Gli si accostò, osservandolo di sottecchi. Le pareva simpatico, con quei riccioli biondi e le lentiggini che davano un tocco di innocenza al suo volto abbronzato.
Vladimir, avendola sentita arrivare, si voltò verso di lei con gli occhi sorridenti. La verità era che non vedeva l’ora di parlare con qualcuno. Odiava stare da solo.
– Ciao – la salutò gioviale, come se non stesse aspettando altro che parlare con lei. – Anche tu con la mimetizzazione?
Ibiza annuì energicamente. – Ho bisogno di perfezionarmi – gli disse.
– Credevo che quelli dell’1 fossero sempre perfetti – ammise Vladi con sincerità, senza peli sulla lingua.
La ragazza scorllò le spalle. – Nessuno è perfetto, tantomeno io.
Il ragazzino la osservò per qualche secondo, spostando i suoi occhi verde scuro sul volto ispanico dell’altra. Non sembrava affatto la classica favorita. Se se la fosse fatta amica magari si sarebbero potuti proteggere a vicenda.
– A chi lo dici, sapessi quanto rumore faccio solo quando respiro – disse allora con un sorriso genuino.
Ibiza rispose al sorriso in egual modo. – Siamo in due, quindi. Sto praticamente cercando di parlare a bassa voce.
Vladimir ridacchiò. Gli stava decisamente simpatica. – Proviamo a mimetizzarci insieme allora, ti va?
La ragazza sembrò felice di aver conosciuto qualcuno di così disponibile e aperto – a differenza, per esempio, del suo compagno di distretto.
– Certo… spero solo di non attentare alla tua vita.
Entrambi risero e, allegramente, si strinsero la mano.
Forse da quei giochi sarebbe nato qualcosa di buono, dopotutto.
 
Come scegliersi gli amici? […] Bastano le parole e i sorrisi?
Basta un saluto, un cenno, una risata?
Probabilmente no. Non bastano, mai. A differenza della guerra e dell’amore, in amicizia non tutto è lecito.
























* La famosa leggenda secondo la quale Ercole (Eracle per i Greci) uccise l’Idra, l’imponente drago dalle infinite teste.
**Un tipo di nodo marinaio






Leddy’s Corner:
Salve, giovani donzelli e donzelle. Indovinate? Sono in ritardo!
Che bello!
*passa una balla di fieno*
Bene, scusatemi. Avevo promesso che avrei postato per Lunedì e invece non l’ho fatto. Perdonatemi, ho avuto una montagna di cose da fare  in questi giorni prefestivi ç_ç
Veniamo al capitolo. E’ una schifezza assurda, vero? Ecco, l’avevo immaginato.
Questo è il battesimo del fuoco, quello in cui tra i vostri personaggi tutto comincia.
Spero sempre di averli trattati tutti bene, è il dubbio che mi preme maggiormente.
Comunque, spero che Ari non me ne voglia, ma avevo intenzione di creare un gruppo su facebook come lei, perché ha avuto un’idea geniale *-*, in cui discutere della storia.
Se siete d’accordo basta che me lo fate sapere via messaggio con il link della vostra pagina facebook, così vi aggiungo.
Sarà il posto in cui potrò postare tutte le schede, le foto e le informazioni per le sponsorizzazioni, che ho deciso di pubblicare a tutti nel capitolo della Cornucopia.
E magari vi rivelerò anche qualche spoiler!
Accettate, così potrete conoscere bene tutti gli altri personaggi e delirare un po’ con noi :3
Ora vado, che ho un sonno cane. A presto, e fatemi sapere se volete aderire al gruppo!



Leddy



 

  
Leggi le 18 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Hunger Games / Vai alla pagina dell'autore: Leddy