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Autore: Roxar    09/01/2013    5 recensioni
Anno 2021. Dopo un estenuante periodo di tensione, Russia e Stati Uniti d’America si sono reciprocamente dichiarate guerra, coinvolgendo ogni nazione del globo.
Così, impelagata in quella che è ufficialmente la Terza Guerra Mondiale, la giovane Valerie è costretta a vivere una vita fatta di ansia, nervosismo e stenti, costretta a badare alle esigenze del piccolo ranch ereditato dal nonno paterno e a Jack, un ragazzino ritrovato moribondo ai margini della strada.
Da una cosa sola Valerie è terrorizzata: vedersi piombare la nemesi in casa, in piena notte, favorita dalle ombre. E il suo terrore diventa concretezza quando Jack rinviene il corpo incosciente del giovane Aleksandr Lebedev, soldato del più efficiente corpo armato russo.
Inizia così una stretta convivenza fianco a fianco, America e Russia costrette a vivere sotto un unico tetto, con tutti i disagi, i litigi e le incomprensioni che questo comporta.
E chissà che i due giovani, infine, non riescano a giungere ad un trattato di pace.
[Dal capitolo 9:]
"Che relazione turbolenta, la nostra. Quando credevo di aver commesso un fallo, quando pensavo che la tregua fosse giunta al termine, tutto si era capovolto un’altra volta e tutto era terminato sulle nostre labbra."
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Alek si rifiutò di vedermi e parlarmi. A notte inoltrata, che l’euforia per la vittoria statunitense era già scemata, mi risvegliai di soprassalto e non mi rimase altro da fare che arrancare verso la mia camera da letto.

Quella notte non riuscii più a dormire. Il sonno mi girò intorno senza mai ghermirmi completamente, sprofondandomi in fastidiosi stati di dormiveglia, fatti di sogni insensati e confusionari.

Quando il sole gettò fasci luminosi sulla terra, inaugurando un nuovo giorno – nuovo in ogni senso possibile – mi stropicciai il viso stanco e non riposato e scostai le coperte.

Il pensiero di Alek non mi abbandonò mai. Sentivo l’esigenza di chiarire quanto prima. La guerra era finita e non avevo più tempo. Immaginavo sarebbe andato via, tornato a casa sua, in un altro emisfero, in un altro continente.

Perciò, dopo una doccia impacciata e dopo essermi liberata della benda ormai inutile, mi trascinai sino alla mansarda per trovare la porta spalancata e il suo interno completamente vuoto. Di lui restavano solo fugaci tracce: una carta nel cestino, un bicchiere sul comodino, il letto riordinato frettolosamente. Qualcosa, appena sotto la finestra, brillò, ammiccando.

La riconobbi ancor prima di prenderla tra le dita: la spilla della sua divisione, quella spilla incrinata in due metà asimmetriche. Per scrupolo e con l’amara consapevolezza che non vi avrei trovato nulla, aprii l’armadio alla ricerca della sua tuta mimetica, ovviamente assente.

Solo il ripiano più basso ospitava i vecchi vestiti del padre di Sam. Il gesto aveva un significato inequivocabile: addio.

Per questo, quando furiosa scesi in cucina, rischiai di inciampare nei miei stessi piedi quando lo vidi in piedi davanti al bancone, a trangugiare caffè.

Indossava la sua tuta – che moltissimi giorni prima avevo messo a lavare – da cui spuntava la tel'njaška a righe bianche e blu. Il basco azzurro era abbandonato sul tavolo.

A colpirmi fu il senso di ordine e compostezza che emanava da lui. Si era accuratamente sbarbato e aveva pettinato indietro i capelli, scoprendo la fronte. Il suo viso era una maschera di gelida indifferenza.

«Che fai?» domandai, avvicinandomi. Non seppi se fu un gesto conscio o meno, ma lui indietreggiò con disinvoltura, evitandomi.

«Bevo un caffè prima di andarmene».

Non che ci volesse un genio, questo l’avevo capito da me.

«E perché vuoi andartene?» avvertì l’ansia nella mia voce, perché le sue labbra si piegarono in un sorriso serafico.

Oh, bentornato soldato Lebedev.

«La guerra è finita, è ora di tornare in patria. In questa fogna ho perso fin troppo tempo».

Mi domandai se si riferisse al mio ranch o all’America. Ma tutto ciò che riuscii a dire fu: «Non mi pare che ti sia dispiaciuto troppo».

Probabilmente fu la cosa sbagliata perché la sua bocca tornò ad essere una linea dritta e dura e i suoi occhi mi studiarono con scherno.

«Ho dovuto adattarmi. In verità», disse, facendosi vicino, «fare il carino con te non è servito a niente. Avrei voluto infilarmi tra le tua gambe, ma, ahimè, ho fallito. Sono certo che Sam avrà più fortuna di me, state così bene insieme. Siete uguali, tu e lui».

Con il tempo, avevo imparato a capire che quando l’accento russo era particolarmente evidente nella sua voce, Alek era nervoso.

Nondimeno, c’era una cosa che non avevo colto affatto: Alek non era affezionato né a Jack né a me. La sua era stata una recita ben costruita, un castello di equivoci e frasi ambigue interpretate male, proprio come desiderava.

Questo era quello che mi imponevo di pensare, almeno. Perché non potevo permettermi di afferrare l'altra metà di quella medaglia, di considerarla, di ritenere le sue parole una mera bugia. Perché questo avrebbe implicato cose e sentimenti per cui non ero pronta.

Chiudere gli occhi era più semplice.

Seguendo questa mia malata linea di pensiero, riuscivo a vedere con disarmante lucidità le motivazioni che l’avevano spinto ad agire; bisognava accaparrarsi l’amicizia di Jack perché il ragazzino sarebbe stato forte abbastanza da buttarlo fuori a calci. Bisognava accaparrarsi la mia, di amicizia, perché ero attraente abbastanza da poter soddisfare qualche sua perversa fantasia, oltre il primordiale desiderio carnale.

Ma era davvero così semplice chiuderli, gli occhi?

Lo fissai a labbra schiuse e dovevo avere un’aria davvero stupida.

«Avanti, non prendertela. Te la sei presa?» aggiunse frettolosamente, preoccupato. Abile attore, consumato bugiardo.

Russo fin nel midollo.

Sorrisi stordita.

«No, no affatto» mi concessi una pausa leggera, soppesando le parole.

«Non è colpa tua», continuai, «è che sei fatto così. È colpa nostra, mia e di Jack, che abbiamo sempre interpretato male tutti i tuoi gesti e tutte le tua parole» recitai bene la mia parte, eravamo due attori talentuosi, dopotutto.

Mi sentii parlare con voce ferma, rassegnata, per nulla incollerita. Un moto di gioia mi strinse lo stomaco quando registrai d’essermi ascoltata con entrambe le orecchie.

Il sinistro, a quanto pareva, era definitivamente guarito. Un’altra bella notizia, un’altra bella notizia di cui non riuscivo a rallegrarmi.

Il cerchio di stupore e sgomento e sospetto che mi stringeva la testa non allentava la morsa, non mi permetteva di provare i giusti sentimenti, schiacciati dal peso delle domande.

«Bene, nessun rancore allora?» tese la mano, come in un ultimo, benevolo gesto.

La chiusura della storia, il punto alla fine della frase, la parola fine vergata in fondo al foglio.

La strinsi con foga, come se fosse mio desiderio incrinarne ogni articolazione. Il cerchio alla testa si allentò.

«Nessun rancore» convenni.

Nessun rancore davvero. Non gli avrei donato quell’ultima soddisfazione di vedere il mio sangue incendiarsi di rabbia e la mente rimuginare su un proposito di vendetta.

Lo avrei scaraventato in un angolo lontano della testa, sepolto dagli impegni quotidiani, incatenato, imprigionato, occultato.

O quanto meno, ci avrei provato.

«Bene. Ho saputo che l’aeroporto di Dallas-Forth Worth ha riaperto i battenti. Mi domandavo se—»

«Nessun problema, ti ci porto» lo interruppi bruscamente, ammorbidendo quindi il tono imperioso con un sorriso tirato.

Aleksandr Lebedev doveva uscire dalla mia vita e volevo essere io ad accompagnarlo all’uscita.

Eppure. Eppure.

«Pensi che i tuoi torneranno a casa?» domandò all’improvviso e qualcosa, nella sua facciata disinvolta, si incrinò.

Mi strinsi nelle spalle. Il pensiero di mio padre e mio fratello era troppo doloroso, avevo bisogno di calma e serenità per considerare l’ipotesi della loro morte.

«Allora, partiamo immediatamente?» chiese, impaziente.

«Certo».

Quando intrapresi il breve tragitto dalla cucina alla mia camera da letto, ebbi la sensazione di lasciarmi alle spalle molti pezzi di me stessa.

 

Inchiodai appena sotto uno dei rarissimi semafori sopravvissuti alle bombe, tornato finalmente in funzione.

Preferii scrutare il cielo sulle nostre teste e ignorare gli enormi pilastri di cemento che un tempo avevano sorretto belle villette a schiera, le fondamenta sradicate dal cuore della terra, gli alberi dal tronco mozzo e annerito come il corpo di un moccolo di candela.

«Nervosa?»

«Affatto».

Eppure, quando ingranai la prima e le ruote slittarono sull’asfalto impolverato la mia negazione si rivelò talmente fasulla che Alek sbottò in una risata compiaciuta, sistemando la cerniera della tuta.

«Toglimi una curiosità, prima di partire» disse all’improvviso, gli occhi puntati sulle distese di grano un tempo lussureggianti, ora ridotte ad un cumulo di sterpaglie carbonizzate.

Non ero certa di voler rispondere. Quale che fosse stata la sua domanda, sospettavo sarebbe stata estremamente personale. Potevo perfino tirare ad indovinare su cosa vertesse.

«Che fine ha fatto tua madre?»

Sorrisi stizzita. Avrei potuto scommettere tutti quei pochi dollari che mi erano rimasti e li avrei riavuti indietro con i dovuti interessi.

«La vita domestica non faceva per lei. Quando io e Adrian eravamo ancora molto piccoli, fece le valigie e andò via di notte, come una ladra. Non la vedo da più di diciotto anni. Fine» aggiunsi seccamente, sperando che capisse l’antifona e che non insistesse.

Ma l’informazione sembrò accontentarlo perché, per grande parte del viaggio, tenne gli occhi puntati in un punto cieco, nel vuoto, a rimuginare.

Quando avvistai l’indicazione stradale – sbilenca e penzolante – che indicava l’uscita per l’aeroporto, il ricordo di quella misteriosa fotografia – la fine di tutto – mi balzò davanti agli occhi, con così tanta intensità che quasi sbandai.

«Toglimi una curiosità, prima che tu te ne vada. Chi era la ragazza della foto?» domandai velocemente, prima di avere ripensamenti.

Azzardai un’occhiata solo per vederlo irrigidirsi sul sedile, le spalle tese e la mascella contratta. Era palese che l’argomento lo mettesse in imbarazzo e non me ne dispiaceva nemmeno un po’. Non avevo assolutamente dimenticato tutte le sue carinerie dal fine pervertito. Non le avevo dimenticate e non le avevo neppure analizzate.
Benché armata dei migliori propositi, sapevo bene che quella notte mi sarei rigirata tra le lenzuola, sopraffatta da emozioni negative e domande.

Sapevo che avrei sviscerato il suo comportamento fin nel profondo per giungere a chissà quale conclusione.

«Mia sorella. Ma è una storia troppo lunga per essere raccontata in un paio di miglia o poco più» precisò, utilizzando il mio stesso tono fermo e incontrovertibile.

La risposta mi confuse, come se non lo fossi già abbastanza. E tuttavia, non feci ulteriori domande. Fissai la strada senza vederla veramente, chiedendomi se si trattasse di Inna o di Zoya o di una sorella di cui aveva opportunamente omesso l’esistenza. Quando le mie congetture raggiunsero un livello tale da confondersi ed accavallarsi tra loro, il profilo basso e frastagliato dell’aeroporto internazionale spezzò la linea dell’orizzonte.

Da quanto ne sapevo, era stato riaperto per permettere ai soldati stranieri di tornare in patria; anche ai russi era stato concesso il perdono. Gli Stati Uniti avevano preferito spartire i territori russi con gli alleati, smembrando la nazione fino a ridurla ad una dimensione irrisoria, come l’Austria e la Svizzera.

Ai soldati nemici non era stato torto un capello; si era deciso, di comune accordo, che in quei sei anni i morti erano stati fin troppi. Nessuno doveva più macchiare la propria bandiera del suo sangue.

«Eccoci» dissi, posteggiando il pickup poco lontano dall’entrata principale. Riflettei che Alek non aveva nessun bagaglio con sé, nessun ricordo da portar via.

Come me, forse anche lui desiderava lasciarsi l’esperienza americana alle spalle.

«Vediamo un po’» mormorò soprappensiero, scrutando i tabelloni elettronici che, in alcuni punti, erano guasti. Le destinazioni, nonostante alcune lettere mancanti, erano chiare e l’aereo per Mosca partiva da lì ad un quarto d’ora.

Era previsto uno scalo intermedio a Shangai e da lì la rotta era relativamente breve per giungere in Russia.

«Bene, il tuo volo parte tra quindici minuti» dissi, arretrando.

«Già».

«Allora, buon viaggio» lo salutai, stringendomi nelle spalle.

La tristezza mi pervase. Mesi di convivenza sfumati tutti in un gesto freddo e distaccato, impersonale. Ripescai appositamente quei pochi, bei ricordi che avevo di lui, quasi volendomi persuadere a provare un poco di nostalgia. Ma non accadde. I ricordi più recenti erano anche i più vividi. E le menzogne erano veleno.

«Grazie» mi fissò sfacciatamente, quasi in attesa. Accolsi il suo invito alla svelta, avanzando a passo svelto verso l’uscita.

Era tutto finito. Così, nel peggiore e nel più desolante dei modi. Quella che avevo prospettato come un’amicizia solida e duratura, magari sincera, era scemata in un gelido addio in un aeroporto affollato.

La rabbia mi risalì dallo stomaco e stavo quasi per sferrare un calcio ad uno pneumatico bruciato quando la voce tagliente di Alek sferzò il silenzio.

«Non posso crederci! Mi lasceresti davvero partire così?»

Mi voltai fulminea, incredula.

«Cosa?!»

«Sei un’idiota. Speravo che abboccassi alle mie provocazioni e invece sei una dannata credulona, un’ingenua, una stupida» mi aggredì, spintonandomi.

«Ehi!» mi difesi, spingendolo a mia volta.

«Credevo avessi un’opinione più alta di me» sbottò, quasi ringhiando.

E pensai di essere finita in un universo parallelo, invertito.

«Tu dici che avresti voluto solo portarmi a letto e io dovrei avere un’opinione più alta di te, infido bugiardo?! Dimmi, Alek, hai mai voluto bene al ragazzino? O hai approfittato anche di lui? E già che ci sei, quali delle tue parole devo considerare vere e quali false? Perché, dannazione, sei così bravo a mentire che non riesco a capire quando lo fai o quando no».

Andava tutto per il verso sbagliato. Mi ero ripromessa di analizzare tutto dopo, ma la rabbia mi aveva trovato prima. Nessun rancore? Non proprio.

«Come al solito sei giunta alla conclusione sbagliata» mi fece notare.

«Ah, piantala!» strillai e sì, me ne vergognai anche molto quando due giovani coppie di fidanzati si voltò a fissarci con fare comprensivo.

«Dimmi che vuoi che io parta, dimmi che vuoi stare con quel figlio di troia, dimmi che quando ti ho baciata non hai sentito assolutamente nulla» mi strinse il braccio e sentii i nervi protestare sotto le sue dita.

Dunque, avevamo scoperto il nervo principale di tutta quell’assurda pagliacciata.

E sicuramente non avremmo potuto parlarne lì, in quello spiazzo polveroso e con il rombo assordante di un aereo che decollava, diretto a Shangai.

E anche se avessimo preso tempo, non sarebbe cambiato nulla comunque. Se mio padre e mio fratello fossero tornati, non avrebbero mai accettato Alek e Sam non mi avrebbe mai più neppure guardata.

Ma era davvero un prezzo così alto? I sentimenti si potevano davvero pesare e scartare quelli in eccesso?

Scoccai un’occhiata rammaricata a quel volo. Alek doveva andarsene e questo era quanto.

«Voglio che tu parta» dissi stancamente, solo per sentirmi afferrare bruscamente per il mento.

«Ripetimelo».

E invece, mi ritrovai a studiare con languore i suoi occhi azzurri, fin troppo lucidi, fin troppo chiari.

Solo quattro parole.

«Voglio che tu parta» ripetei e trattenni il fiato, senza battere ciglio. Quel che mi esplose dentro, invece, non lo dimenticai mai e continuò a tormentarmi anche nei giorni a seguire. Fu lui il primo ad abbassare gli occhi e allontanarsi come se lo avessi profondamente ferito.

«È un addio?» domandò e il tono definitivo della sua voce non lasciava spazio ad equivoci.

«Sì», convenni, «è un addio».

Lo vidi avanzare di una sola, singola falcata e chinarsi sul mio orecchio.

«Il prossimo volo è alle venti di stasera. Io sarò qui. Pensaci».

Il suo sussurro, benché non avesse nulla di suadente o persuasivo, mi portò a tentennare, improvvisamente insicura.

Avrei voluto dirgli di restare, che avevo già sperimentato il senso tagliente della sua mancanza, che di Sam non me ne importava niente e che se ne sarebbe fatto una ragione.

Avrei voluto essere sincera, senza freni né limiti. Solo sincera.

Dirgli almeno che gli volevo bene e che non mi interessavano le sue intenzioni, giacché ero certa che fossero menzogne e che, in fondo, anche lui tenesse a me.

Forse avrei voluto dirgli anche che quel bacio mi aveva rammentato di essere viva più di quanto non avessero fatto le bombe o le risate di Jack o la solida presenza di Sam.

Ma tutto ciò che mi limitai a dire fu: «Addio, Alek».

Lo spinsi dolcemente via, sbattendo la portiera. Avrei voluto frenare, invertire la marcia e tornare da lui, eppure tenni le dita ben strette sul volante e vidi per quella che credevo essere l’ultima volta la figura di Alek che, lentamente, sbiadiva nella nuvola di terra rossa sollevata dagli pneumatici.

 

 

 

 

 


 

 

NdA: Zanzanzan. Fine.

Teoricamente la storia finisce qui. E finisce proprio con questa conclusione all'americana, con l'automobile che si allontana in molte nuvole di terra rossa.

O almeno, questa era la fine che avrei desiderato, perché i presupposti per attuarla c'erano tutti. Ma praticamente non ho saputo resistere e mi sono rifatta nell'epilogo.

Alla fine è capitato che anche io mi sia innamorata di questi due e che mi sembrava giusto concedere loro il lieto fine, dopo tante tragedie e tanto angst.

Quindi, ai fan della Valek (ossì, ho dato anche i nomi alle ship, giusto per risparmiare tempo e caratteri) dico: state tranquilli, l'epilogo sarà di vostro gradimento.

Ai fan della Salerie (Sam/Valerie, per intenderci) invece dico: *patpat* vi rifarete nel sequel, se e quando verrà scritto.

Riguardo questo capitolo, ebbene, spero che sia stato confusionario abbastanza. Le molte frasi in corsivo - in chiaro disaccordo con il contesto in cui sono inserite - avevano il solo scopo di creare un senso di ansia e confusione, così da potervi far sentire più vicini a Valerie.

Se ci sia riuscita, ahimé, io non posso dirlo. Ma potete farlo voi; il mio invito a recensire è sempre valido.

Accidenti, mi sembra ieri che postavo il prologo e invece siamo già arrivati alla fine del viaggio!

Ebbene, stando così le cose, io mi sento in dovere di ringraziare tutte le persone che hanno recensito, tutte quelle che hanno inserito la storia tra preferite, ricordate e seguite.

E visto che siamo arrivati alla fine, mi tolgo anche il famoso sassolino nella scarpa: mi ha molto rammaricata vedere che questa storia è stata seguita da più di venti persone e che solo tre o quattro abbiano espresso il loro parere.

Una recensione non sarebbe costata nulla, se non qualche minuto del vostro tempo. E non dico questo perché mi premeva avere tante recensioni (della quantità, francamente, me ne sbatto, così come me ne sono sempre sbattuta e sempre ne ne sbatterò), ma perché mi premeva avere dei giudizi obiettivi e sinceri. Tant'è. Ovviamente io ci ho fatto il callo, ma molto bravi autori si scoraggiano proprio per questo e gettano la spugna, giacché si sentono poco apprezzati ad essere seguiti da tante persone ed essere poi ripagati con il nulla.

Ho sentito tante persone lamentarsi di autori bravi che hanno mollato EFP; ebbene, prima di lamentarsi forse occorrerebbe chiedersi perché quel tale autore o quella tale autrice abbiano chiuso la baracca.

Comunque, non spetta a me impartirvi ramanzine sulla moralità (credo che da una certa età in poi si abbia un minimo di autocritica e auto-giudizio) o roba del genere, perciò chiudo la parentesi.

Non sentitevi offesi, era qualcosa che mi premeva di dire sin dai primi capitoli e che tuttavia mi sono riservata per la fine.

 

Ciò detto, l'appuntamento ultimo è fissato per mercoledì prossimo, con l'epilogo.

Ancora una volta, grazie. È stato un bel giro.

 

 

 

Passo e chiudo.

   
 
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