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Autore: Amy Tennant    10/01/2013    6 recensioni
John Smith e Rose Tyler sono insieme e un altro Tardis sta crescendo nel mondo parallelo, nei laboratori di Torchwood. John però sente che qualcosa sta cambiando ed è qualcosa di cui neanche il Dottore era pienamente consapevole.
Una fine può essere l'inizio di qualcosa di totalmente inaspettato.
Anche per Rose.
Genere: Avventura, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Il passo di quell’uomo sembrava metallico, come i suoi occhi. Uno dei giovani dottori presenti pensò questo per l’ennesima volta, prima che la figura nera di Tashen si manifestasse in laboratorio. Il rumore della grande ventola a forma di ingranaggio era di sottofondo ad ogni azione e pensiero in quel luogo ed incombeva su tutto, anche fisicamente. I primi tempi che aveva lavorato lì, come tutti gli altri, aveva dovuto prendere degli analgesici speciali poiché quel rumore risultava essere assolutamente insopportabile alla lunga. Lavorava al Torchwood da poco. Erano venuti a cercarlo direttamente nel dipartimento universitario dove stava svolgendo un dottorato di ricerca. Sembravano molto interessati agli sviluppi dei suoi studi sui materiali biologicamente compatibili. Gli avevano proposto di lavorare nel laboratorio di una struttura d’avanguardia e dato piena disponibilità a sovvenzionare le sue ricerche ma non era stato quello che l'aveva spinto ad accettare l'offerta. Dopo gli attacchi alieni subiti condivideva ed ammirava l'impegno del Torchwood a lavorare in difesa del pianeta. Onorato di poter dare il proprio contributo in tal senso, aveva quindi lasciato l'università per lavorare con loro. Tornando indietro non lo avrebbe mai fatto. Non perché la ricerca non procedesse nel migliore dei modi, forse era esattamente il contrario; ma qualcosa in quel posto lo infastidiva a livello istintivo e per una persona sostanzialmente razionale come si riteneva, era certo inquietante. Ogni cosa al Torchwood lo era. Almeno ad un certo livello.
Sapere che il Governo aveva un controllo parziale su di esso aveva tranquillizzato molti ma il rappresentate di questa presenza esterna era Tashen, l’uomo più sinistro che avesse mai visto nella sua vita. Odiava il suo passo metallico, la sua voce dal timbro strano. Odiava quegli occhi del colore dell’attrezzatura che avevano in laboratorio; quella per tagliare profondamente.
Il giovane si allontanò da lui sperando che non avesse niente di personale da chiedergli.
Il direttore del laboratorio spiccava fisicamente tra gli altri. Di mezza età, alto e magro, calvo. Tashen si diresse da lui senza degnare gli altri presenti di uno sguardo specifico.
-          Notizie del Dottore? – chiese Tashen.
-          Il signor Tyler ci ha informato. Possiamo contare riprenda a lavorare al più presto al congegno.
-          Bene. Ha seguito le nostre direttive? – il tizio accennò ad un sorriso e annuì – e lei sta eseguendo gli ordini come stabilito?
-          Naturalmente, ispettore. L’equipaggio e le armature sono quasi pronte.
-          I donatori?
-          Ormai rimane poco da sfruttare – disse l’uomo con freddezza – ma abbiamo ancora delle parti a disposizione, parti… interessanti per i nostri scopi.
-          Bene. Manteneteli in vita quanto basta. Poi sapete come riciclare il biologico.
-          Certo, ispettore - Tashen rivolse lo sguardo verso la ventola. Socchiuse gli occhi e  assunse un’espressione compiaciuta. Il direttore del laboratorio continuava a prendere appunti su dei fogli. Tashen lo guardò infastidito e questi gli porse quel che aveva in mano.
L’ispettore lesse velocemente la prima e la seconda pagina. La piega della sua bocca si incurvò verso il basso.
-          Come pensate di superare questi problemi? – chiese asciutto.
-          Non sappiamo ancora se possano essere risolti definitivamente. Ma la traccia spazio dimensionale è sempre più forte.
-          Potremo allora utilizzarla per passare?
-          Io penso di sì. Ma solo in un senso. Non sarà possibile tornare indietro con questo mezzo.
-          Non sarà necessario. Una volta che avremo il Tardis, cambierà tutto. Cambierà tutto davvero – aggiunse piano in tono cupo – ogni cosa.
 
Pete aveva trascorso la notte inchiodato al letto e con gli occhi spalancati.
Non era riuscito a dormire se non poche ore. Liz aveva pianto molto, Jackie e lui si erano alzati a turno per vedere che avesse ma sembrava solo fosse nervosa, come entrambi i genitori. Sapeva che Jackie pensava a John. Non glielo diceva come non si fidasse di parlargliene, dopo che non aveva voluto chiamare l’ambulanza come gli aveva chiesto la notte prima. Neanche le parole dello stesso John l’avevano convinta che sarebbe stata un’esagerazione. Jackie era preoccupata. In qualche modo Pete sentiva che sua moglie stava diffidando della sua sensibilità. Non poteva biasimarla visto che lo faceva spesso anche lui.
Forse aveva un lato negativo abbastanza sviluppato da sopportare l’ambiguità della situazione e tutto il resto senza fare troppo appello alla coscienza; forse il suo essere capace di mantenere il controllo dipendeva dal fatto che il suo cuore si era come raffreddato. Non spezzato del tutto ma diventato incapace di grandi slanci.
Con rimorso pensò a Rose che lo guardava sempre con occhi pieni di fiducia incondizionata e amore, sentimenti per un uomo che invece era un estraneo e insieme non si sentiva tale, non quanto avrebbe voluto a questo punto, visto quel che stava accadendo. Abbracciarla, chiederle perdono per quel che stava facendo, gli aveva fatto comprendere che perderla sarebbe stato per lui doloroso come per una vera figlia. Ma forse non abbastanza doloroso in assoluto. Forse aveva perso anche la capacità di soffrire intensamente. Forse; perché il pensiero di John a tratti era un tormento.
Si chiedeva sempre come facesse lui, il Dottore, a non essere diventato gelido nei confronti degli altri. Sviluppare l’indifferenza l’avrebbe protetto dal dolore ed invece sembrava che per l’aver vissuto tanto fosse accaduto il contrario. Aveva parlato qualche volta di alcuni suoi compagni di viaggio e sempre, mentre ricordava ogni persona, era percepibile dolore, rimpianto, la traccia indelebile della loro assenza in lui, che si sentiva sempre così solo da cercare disperatamente la compagnia di altri, anche diventato John Smith. Era strano ma molto socievole, curioso. Restava però un alieno. Superiore.
Perché allora cercava il sostegno degli altri? Non comprendeva davvero, dopo novecento anni di viaggi e avventure, come potesse ancora prendere ogni cosa, ogni singola cosa, con tanta passione. Troppa passione. Come aveva fatto un Signore del Tempo ad innamorarsi perdutamente di un essere umano?
Pete se lo chiedeva ogni volta guardando lui e Rose insieme. Lui la amava come gli umani amavano da giovani, totalmente; ma con la pazienza di un vecchio. Lei lo amava come forse un essere umano avrebbe potuto amare alla fine di una lunga vita, fermamente e senza indecisione, ma con la passione della sua giovane età. Se dopo secoli lui era così felice solo tra le sue braccia, Rose doveva essere eccezionale.
Pete non si era mai sentito particolarmente romantico ed anzi, il sentimentalismo lo metteva a disagio. Neanche era stato sempre corretto nei confronti della prima Jackie, come in fondo non fosse particolarmente importante la fedeltà ma solo restare insieme e sostenersi. Aveva poi compreso che era un errore e quindi si era ripromesso di non offendere nello stesso modo quella che viveva come la sua seconda possibilità con lei. La tentazione era però presente, sempre.
Pete voleva bene sua moglie, forse l’amava più di quanto non credesse ma l’amava in una forma strana che somigliava a volte al ricordo, al rimpianto. La amava a suo modo ma non come il Dottore amava Rose.
Anche questo pensiero lo tormentava, quello di distruggere qualcosa di raro e irripetibile. Distruggere senza rimorso e per insensibilità. Per uno scopo che forse non era quello giusto. Forse.
Con simili pensieri dentro, dormire non era facile.
Sperava che quei pochi giorni di festa lo rallegrassero un po’ ma la vicinanza della sua famiglia, della famiglia che voleva salvare ad ogni costo, anche dell’anima, lo stava facendo sentire anche peggio.
Sapendo che dopo quella notte orribile John era riuscito addirittura ad uscire, si era quasi illuso di non aver fatto il suo male con quel farmaco ma quando a cena lo aveva visto sentirsi male dopo aver mangiato i dolci di Rose era stato troppo. Perché era stato a casa, aveva visto lei prepararli e lui prenderli solo per farle piacere. Penoso.
Aveva sperato che almeno la notte fosse stata per John più serena ma non era stata tale la sua. 
Alzarsi presto era stato un sollievo.
Incassava l’insonnia cronica, ormai, con freddezza e un paio di caffè caldi. Jackie invece sembrava uno straccio.
Uscito dalla stanza da letto, scendendo le scale, Pete fu attratto dalla grande confusione che sembrava esserci tra la servitù. Pensò fossero già impegnati nei preparativi per il ricevimento, ormai mancava poco e c’erano molte cose da sistemare, ma i movimenti attorno sembravano dettati più dal fastidio e l’esasperazione che finalizzati al fare qualcosa di programmato. Capì presto che il luogo dal quale partiva il trambusto era la cucina.
La cosa lo infastidì in modo particolare, forse anche perché sperava in una colazione serena, nonostante tutto. La sua espressione neutra virò rapidamente verso altro.
-          Che cosa succede? – chiese manifestandosi in cucina ancora in veste da camera e con accanto Jackie ancora assonnata. Con una certa disapprovazione istintiva notò che non aveva preso l’abitudine di darsi una sistemata prima di scendere. In quello era decisamente l’opposto della donna che era stata sua moglie, prima.
Cacciò via la considerazione dalla sua mente e le sfiorò una spalla con finta noncuranza, quasi per sincerarsi che fosse lì con lui. Jackie non ci badò, distratta da quel che c’era in giro. E dalle facce disgustate.
-          Allora, qualcuno può dirmi cosa sta succedendo? – stavolta il tono di Pete fu più alto e infastidito.
Una ragazza si avvicinò con in mano una pentola fumante e lo fece in modo maldestro, come avesse urgenza di fare altro piuttosto che rispondergli.
-          Signor Tyler, ci scusi ma… è il Dottore…
-          E cioè?
-          Il Dottore…sta mangiando.
-          Oh, bene…! - disse Jackie con un sospiro di sollievo, legandosi un po’ meglio i capelli ancora sfatti.
-          Non direi bene – mormorò esitante la ragazza ed entrambi la guardarono perplessi – io… non posso guardarlo mangiare a quel modo, non a quel modo!
-          In che senso? – chiese Pete inquieto. La ragazza accennò al tavolo in fondo ingombro di varie cose, formaggi, pentole sporche che colavano crema giallastra e glassa bruna, bottiglie di latte e succhi di frutta. Forse tutto quel che c’era nei frigoriferi era sul tavolo. L’odore in giro era strano.
Jackie fece una smorfia ma scostò Pete e andò direttamente verso la finestra.
John aveva in mano una pentola e stava divorando una zuppa cremosa direttamente con un mestolo. L’espressione non era rassicurante, sembrava che lo stesse facendo addirittura con sforzo ma mandava giù ogni mestolata quasi con furia. Quando vide Jackie che lo guardava con gli occhi spalancati, lasciò lentamente la pentola , la mise sulle ginocchia e dopo essersi pulito le labbra, la guardò con un’espressione pensierosa.
-          Che c’è?
-          Cosa stai facendo? – gli chiese quasi strillando.
-          Sto… mangiando…
-          Ma che stai mangiando?
-          La tua zuppa, Jackie – lei lo guardò sorpresa ed accennò quasi ad un sorriso – la tua zuppa corretta con mezzo litro di succo di agrumi misti, qualche banana a pezzi e una scatola di cetrioli sott’aceto ben sgocciolati… almeno credo…  – Jackie spalancò la bocca senza riuscire a dire una sola parola. Solo disgustata all’idea.
-          Ma… ma era un minestrone… !
-          E nel minestrone più cose metti meglio è, non è vero? – sorrise quasi perfidamente.
-          E tu stai mangiando…?
-          Ne convengo, resta una porcheria…
-          John! – protestò offesa Jackie.
-          Dai, Jackie, non prendertela. Lo sai che la cucina non è la tua arte – lei, con le braccia conserte, lo fissava indecisa se ucciderlo o chiedergli come mai stesse facendo qualcosa del genere. A parte tutto era ripugnante e neanche John sembrava particolarmente contento della cosa. L’espressione disgustata dei suoi occhi era più che mai evidente. Vide che accanto aveva una brocca piena di liquido traslucido, biancastro. Pete, che si era avvicinato anche lui, fece un’associazione d’idee che lo fece appena irrigidire. John lo guardò e la indicò – questa è limonata, ne vuoi?
-          No… preferirei di no – mormorò lui.
-          Limonata…!
-          Fa bene, se non stai bene – disse cantilenando come fosse stato un vecchio detto scontato – rimedio della nonna, dicono; almeno lo dicono quelli che la nonna l’hanno avuta e hanno rimediato qualcosa, evidentemente – mormorò più piano quasi incerto – e comunque è ottima per il raffreddore, calma la nausea, aiuta contro la diarrea… - la ragazza che portava i piatti alzò gli occhi e scappò via per non sentire il resto. John la guardò accigliato – hey, una limonata potrebbe salvarvi nel momento del bisogno più estremo!
-          Proprio quel che mi piace sentire al mattino prima di colazione – osservò Pete.
-          Intanto io la apprezzo moltissimo. Mi fa buttare giù ogni boccone è… buona. Salata, naturalmente.
-          Santo cielo! – gemette Jackie.
-          Ma che cosa…? – Pete si mise una mano sulla bocca e il naso, leggermente nauseato dalla mescolanza di odori. Cavolo acido, aringhe salate, una giardiniera di verdura a grossi pezzi e panna aromatizzata alla vaniglia, erano tutti insieme nello stesso piatto. E immersi nel succo di qualcosa – John, ma cosa stai facendo?
-          Sto mangiando, Pete. Sto cercando di mangiare. E… davvero, per favore… è già difficile quindi, se non vi spiace, potremmo rimandare le discussioni sulle preferenze culinarie a tra un po’? – lo guardò perplesso.
-          Mi stai cacciando dalla mia cucina?
-          No, no… ! Vuoi restare? – guardandolo riprendere in mano la pentola Pete ebbe un brivido di disgusto.
-          Vorrei un caffè e delle uova con bacon, se ne è rimasto – aggiunse guardando l’assoluta confusione attorno. Uscì scuotendo il capo. Jackie invece si avvicinò a lui. Si chinò verso John e lo fissò dritto negli occhi.
-          Va molto male? – gli chiese direttamente, ansiosa. Lui le rivolse un lungo sguardo che lei ricambiò scuotendo il capo – ho capito. Intanto ti faccio un tè verde, non si sa mai … - lui abbassò gli occhi e rise appena. Jackie si fece largo tra i fornelli iniziando mettere su il bollitore, miracolosamente rintracciato già sul piano di lavoro della cucina.
-          Jackie…
-          Sì, John?
-          Credo di volerti bene – le disse piano. Lei annuì e lo guardò.
-          Potrei anche crederti – le sorrise come sorrideva ogni volta che non aveva altro da aggiungere. Lo vide quindi riprendere a mangiare quel che c’era nella pentola e sebbene l’espressione del suo viso sembrasse quasi divertita dalla ripugnanza per il suo comportamento e dagli sguardi inorriditi e di disapprovazione che gli lanciava la servitù, Jackie, che lo conosceva, pensò che i suoi occhi erano inquieti e di una tristezza infinita.
Da una stanza vicina sentirono qualcuno dire che stava nevicando. Jackie sbirciò fuori dalla finestra un momento. I fiocchi sembravano piume di cuscino ma erano pochi e cadevano lenti.
John continuava a mangiare apparentemente indifferente.
 
Sylvia guardò la neve cadere e fece una smorfia di fastidio. Non lo faceva da qualche giorno e proprio quel pomeriggio aveva appuntamento a casa di un’amica, Avrebbe certo trovato più traffico in città. Ma almeno quella stramba di sua figlia aveva riportato in tempo la macchina, questa volta. Viste le contenute dimensioni, avrebbe parcheggiato più facilmente in centro. In realtà più di una volta le era parsa troppo piccola e con gli stessi soldi avrebbe potuto comprare quella per cui Donna aveva tanto insistito, un’auto in offerta speciale al concessionario, ma era di un blu improponibile davvero ed anche se il suo valore era superiore, quel colore la rendeva decisamente poco appetibile quindi aveva preferito comprare l’auto bianca e più piccola per lo stesso prezzo. Certo Donna aveva dovuto contribuire.
Se si trattava di dividere casa e mezzi, anche tutte le spese andavano divise ed ora che era, per l’ennesima volta, rimasta senza lavoro erano punto e a capo. L’avrebbe spronata a cercare subito qualcosa, la qualunque, senza quelle stupide pretese che avanzava. Tristemente, per un attimo, il suo pensiero andò al padre. Le mancava ma certo non le sue stranezze che spesso la facevano innervosire.  
-          L’unica eredità che mi hai lasciato è stata una figlia stramba come te, papà – mormorò. E bevve l’ultimo sorso del suo tè, già troppo freddo.
Si chiese che stesse facendo Donna.
Era tornata a casa più scossa di quanto non immaginasse, dopo l’ultimo licenziamento. Le aveva chiesto se sapeva il motivo o semplicemente la commessa fosse tornata al suo posto. Le aveva risposto molto vagamente. E questo nonostante le sue insistenze. Qualcosa doveva essere successo e doveva sapere cosa. Vista la scarsa intelligenza di sua figlia era proprio il caso che stesse attenta a non farla cadere vittima di qualche strana idea. Poggiò la tazza sul tavolino e con passo risoluto entrò in camera di Donna.
Rimase sulla soglia con l’aria infastidita vedendo che il letto ed anche ogni maniglia di porta, finestra e armadio, era ingombra di grucce e vestiti.
-          Non sembra che tu stia facendo le valigie per uno dei tuoi assurdi viaggi alla ricerca di te stessa – disse e Donna, che frugava in un cassetto, sollevò lo sguardo verso la madre – che cosa stai cercando? Qualche risparmio messo da parte in qualche posto strano? Tuo nonno aveva quest’abitudine, di lasciare soldi nei vestiti. Pessima abitudine davvero.
-          Non sto cercando soldi, mamma.
-          Peccato, ce ne servirebbero. Visto poi che hai avuto il buon senso di restare disoccupata proprio in questo momento…
-          È un momento come un altro, come tutti gli altri – disse continuando a rovistare nel cassetto e gettando altre cose sul letto.
-          Donna, non sembri prendere seriamente la cosa. E poi, dimmi che stai facendo! – Donna guardò la madre esasperata.
-          Senti, sto cercando un vestito, un particolare vestito. E non lo trovo.
-          Un vestito di che tipo?
-          Elegante!
-          E che te ne fai, tu, di un vestito elegante? Hai in programma qualcosa che non so?
-          Può darsi – mormorò e Sylvia strinse le labbra innervosita.
-          Sarebbe?
-          Sono stata invitata ad una festa – Donna la guardò con aria di sfida incrociando le braccia e gustandosi l’espressione stupita della madre.
-          Vista la situazione, ti sembra il caso di buttare soldi in qualche pub con le tue amiche?
-          Non intendevo questo!
-          Non puoi certo avere in programma qualcosa di più elegante…
-          E invece sì – sorrise Donna. Sylvia si irrigidì. L’aria soddisfatta di Donna non le piaceva per niente. Improvvisamente le venne in mente un'altra opzione e i suoi occhi si assottigliarono.
-          Ci vai con un uomo? – la vide sorridere e sorridere stranamente. Le bastò – ci vai… con un uomo!
-          Se anche fosse?
-          Chi è? Uno che ti ha presentato qualcuna delle tue conoscenze altolocate?
-          Perché, non posso averlo incontrato in altro modo, secondo te? – ringhiò Donna.
-          In altro modo... E quando? E soprattutto chi mai potresti incontrare, visto gli ambienti che frequenti? Mi chiedo stavolta con che razza di tipo d’uomo te ne uscirai. Cos’è il solito disoccupato dallo stile di vita alternativo? Un filosofo del nulla? Uno incontrato all’ufficio collocamento?
-          Niente di tutto questo.
-          E cosa allora, un medico? – Donna sorrise.
-          È un dottore.
-          Ah. Un… dottore in cosa?
-          Lavora al Torchwood – Sylvia la guardò stupita accigliando la fronte.
-          È un uomo sposato, vero? – Donna ebbe un attimo di indecisione, subito colto dalla madre che non capì  – complimenti davvero, Donna! Esci con un uomo sposato…!
-          Non è sposato – precisò lei – e comunque sei fuoristrada.
-          Ma davvero? – mise le mani sui fianchi con un sorrisetto – e dimmi, secondo te, un uomo che ti invita ad una festa per la quale stai disperatamente cercando un vestito che ti faccia apparire migliore di quello che sei… che cosa vuole in cambio?
-          Niente… mi ha solo invitata e…
-          Sei ingenua o troppo stupida? – Donna la fulminò con uno sguardo.
-          Ma ti sembra periodo buono per una tresca?  - Sylvia la guardò con disappunto – senti, mamma, gli uomini con l’amante, proprio di questi tempi, li trovi ben appiccicati a mogli e figli! – aveva ragione Donna. E la cosa le diede ancora più fastidio – in ogni caso, lui si chiama John Smith e l’ho incontrato al negozio. E’…una persona particolare.
-          In che senso? – incalzò.
-          Un uomo attraente e molto gentile – la voce di Donna diventò dolce. Sylvia la guardò stravolta. L’espressione della figlia non prometteva niente di buono.
-          E’ un… vecchio? – chiese con disprezzo. La vide perplessa – tu esci…?
-          No, mamma. Lui è giovane…
-          E perché lo dici a quel modo? – lei fece spallucce distogliendo lo sguardo da quello della madre. Neanche comprendeva il perché avesse difficoltà a definirlo tale - da quanto vi conoscete? – Donna cercò rapidamente qualcosa da dire con tono sicuro, qualcosa che facesse sembrare la faccenda meno assurda e che tranquillizzasse Sylvia.
-          Da qualche tempo – il tono indeciso non giovò alle parole più vaghe che potesse pronunciare. Un invito per un affondo.
-          Da qualche tempo – ripeté Sylvia con un sorriso perfido.
-          Da non molto ma abbastanza perché possa dirti che è una persona davvero… speciale.
-          Ah, fatico a crederci.
-          E perché mai?
-          Perché tu non lo sei affatto! – Donna si scosse. Le parole di sua madre erano sempre le stesse ma si sentiva ferita lo stesso. Lei era capace di farle male come nessuno e non aveva pietà di lei, mai.
-          Sei molto crudele…
-          E tu sei una delusione – le rispose asciutta – ti sei impegnata poco negli studi, hai sprecato le tue possibilità, hai buttato anni a sognare di poter fare qualcosa che non eri in grado di fare. Cara mia, hai davvero poche speranze di trovare qualcuno che ti voglia! Ma guardati…!
-          Che cosa c’è che non va in me? – Sylvia la guardò acidamente.
-          Non hai davvero niente di eccezionale. Prendine atto. Chissà cosa vuole da te questo tizio, chissà!
-          Non ti riguarda!
-          Certo che mi riguarda! Tu vivi sotto il mio tetto e fin quando sarai qui, a vivere come una ragazzina immatura, io ti tratterò da ragazzina immatura!
-          Non te lo permetterò, mamma – Sylvia ebbe un gesto di stizza e buttò all’aria quello che Donna aveva sul letto. Lei la guardò ostentando indifferenza ma già gli occhi le diventavano lucidi. Li rivolse ancora verso l’armadio aperto e la cassettiera in disordine. Sua madre fece per uscire ma si fermò sulla soglia.
-          Ah, Donna… stai per caso cercando… quel vestito blu, di raso, quello lungo? – Donna la fissò speranzosa – l’ho dato mesi fa a Gladys, sua figlia doveva partecipare ad una festa in maschera e più o meno ha la tua taglia – lei impallidì.
-          Ma era mio! Come ti sei permessa…?
-          Non mi sono permessa. Quando è stato ti ho chiesto se potevo darlo a lei e tu mi hai risposto solo di farmelo pagare qualcosa. Beh, l’ho fatto. E tu hai speso quei soldi! – Sylvia la guardò un momento e poi con un sospiro infastidito uscì dalla stanza lasciando la porta aperta.
Donna abbassò lo sguardo. Mesi fa, era vero.
Mesi fa dell’ennesimo anno di vita trascorso nel nulla. Certo non avrebbe mai creduto nemmeno una settimana prima che quel vestito le sarebbe potuto servire. Fu presa da un momento di sconforto; ma solo un momento. Ora diventava una sfida, doveva trovare qualcosa da mettere. Immediatamente.
-          Ok, Donna! Sarai come Cenerentola – si disse a voce bassa. Ripensò a lui, a come l’aveva abbracciata a quel che le aveva detto e sorrise – ci vuole altro per fermare Donna Noble – pensò.
Prese dalla borsa il telefono e compose rapidamente un numero.
 
Passeggiava in giardino tra la neve, lo sguardo assorto verso il cielo, il viale e le altre case. Era inquieto e si vedeva. Più inquieto di quanto non fosse normalmente. Fece un lungo respiro come per prendere la rincorsa e quindi si decise ad avvicinarsi. John rivolse subito lo sguardo verso di lui e si fece raggiungere.
-          Si gela – disse Pete sfregandosi le mani. Le mani di John erano sprofondate nelle tasche del suo cappotto, lui lo fissava in silenzio – non so se ti convenga… restare qui fuori, non dopo quel che hai passato questi giorni.
-          Il freddo dà un certo sollievo – la voce di John era più fredda della neve attorno. Pete abbassò il capo, si sentiva a disagio. Lo sguardo di John era fiero e sofferente. Quegli occhi puntati addosso sembravano bruciare.
-          Senti, John… - mormorò.
-          Oggi ho fatto una colazione davvero abbondante! – Pete rimase smarrito dal tono imprevisto che aveva usato, svagato e scherzoso. Aveva sorriso. Non i suoi occhi.
-          Perché hai mangiato a quel modo, stamattina?
-          Oh, dicono che si mangi molto anche per noia – mormorò.
-          Ma a quel modo…!
-          Beh…In effetti ha un senso, nonostante tutto. Vedi, l’unico sapore che sento sopra ogni cosa è l’acido e l’acido mi aiuta a sopportare il resto. Ho quindi cercato di capire i gusti che tollero e con le banane ho decisamente sbagliato, purtroppo…  – scosse il capo facendo un’espressione disgustata  – poi… ho solo unito un po’ di cose assieme, qualcosa di sostanzioso. E’ stato… disgustoso ma divertente.
-          Sembrava ci stessi prendendo in giro… - disse Pete piegando appena le labbra.
-          Non è il peggio che abbia mangiato, credimi.
-          Se ti riferisci alla cucina di Jackie, non posso che darti ragione.
-          Gli odori, Pete. Gli odori a volte dicono molto di quel che c’è in pentola. Anche gli odori della spazzatura – Pete gli rivolse uno sguardo lungo ma indeciso. Gli occhi di John erano severissimi.
-          John, a cosa ti stai riferendo? – un lungo silenzio tra loro.
Attorno i rumori delle case vicine avvolte da un velo di neve già grigiastra sui bordi delle strade. Pete rivolse attorno gli occhi non riuscendo a reggere quelli di John. Fermi, scintillanti.
-          Il materiale isolante, Pete. Dimmi del materiale isolante – lo guardò sconcertato.
-          Di cosa stai parlando?
-          Di quei rotoli di spugna psichica che si usano per sigillare le prigioni e le camere di tortura – la luce nei suoi occhi gli fece paura. Un lungo brivido percorse la schiena di Pete anche se cercava di ostentare sicurezza.
-          Io… non ne so niente…
-          Quanto non ne sai niente?
-          John… davvero, non capisco a cosa ti stia riferendo! – John fece un gesto di stizza e sgranò gli occhi stringendo i denti.
-          Tu non sei uno stupido, Pete. Non puoi ignorare cosa succede, non puoi!
-          Non so cosa tu ti stia riferendo. Davvero. Te lo giuro! – Pete lo disse sicuro. Sicuro perché davvero non lo sapeva, non sapeva a cosa si riferisse. John lo guardò poco convinto. Fece un sospiro, si chinò a terra e prese un po’ di neve indurita nella mano, stringendola, immergendo le dita nel ghiaccio che era diventata. Poi lo guardò nuovamente mentre la sbriciolava lentamente.
-          Non la sento – mormorò - non sento freddo, non sento dolore, non sento piacere. Non sento niente. Tu… sei nelle stesse condizioni, Pete. Cosa ti hanno fatto? – Pete abbassò nuovamente lo sguardo e John  sollevò invece gli occhi al cielo, occhi umidi – va bene…  – disse in un triste sussurro – ora… dammi… quattro ore. Quattro ore e avrò assimilato qualcosa. Poi potrai fare quel che devi – Pete trattenne il fiato fumoso guardandolo. Poi annuì con le labbra strette.
-          John…
-          Fai quello che devi – ripeté risoluto con gli occhi così lucidi che quasi  Pete ebbe l’impressione di potervisi specchiare. E Sapeva già che quel che vi avrebbe visto non gli sarebbe piaciuto.
-          Spero che il Tardis possa aprirsi al più presto – mormorò con un filo di voce. John sorrise tristemente.
-          Lo spero anch’io  – gli rispose. Pulì la mano bagnata d’acqua sul cappotto con noncuranza e dopo aver incrociato silenziosamente gli occhi di Pete ancora una volta, si girò verso il viale e fece per tornare in casa. Pete rimase qualche minuto lì, da solo. Immobile ma purtroppo non indifferente. Invidiò l’albero del giardino che aveva davanti. I rami tesi, spogli, gocciolavano e sembrava piangesse.
Ma diversamente da lui era un silenzioso testimone del cielo.
Senza alcuna colpa.
  
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