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Autore: Angeline Farewell    13/01/2013    8 recensioni
What if Pre-Thor (Movies).
Tom Hiddleston ha sognato di diventare attore da quasi tutta una vita spesa ad inseguire rune e lingue magiche e morte: in apparenza tranquillo e solare, nessuno - nemmeno i suoi genitori - erano mai riusciti ad intuire la polpa più profonda delle sue pulsioni e delle sue ambizioni.
Chris Hemsworth è sempre stato troppo bello per non essere notato, persino in una famiglia come la sua in cui la bellezza è normalità. Il voler diventare attore seguendo le orme del fratello maggiore sembra una scelta quasi scontata che persegue però con insolita testardaggine e dedizione, perchè Chris non lascia mai le cose a metà.
Nessuno dei due è abituato a farlo, persino se sono cose cominciate tanto tempo prima, in un tempo e in un mondo che non ricordano.
[Hiddlesworth/Thunderfrost (sort of)]
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Chris Hemsworth, Tom Hiddleston
Note: What if? | Avvertimenti: Incest
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Samskeyti '
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Con la testa fra le nuvole

 

Atto I, Scena I.

L’inverno su Ásgarðr non esiste. Il regno degli Æsir è una perpetua primavera di latte e miele arricchita dai pomi succosi di Iðunn.

Le foreste di Sigurð non conoscono il peso del freddo, né il colore del ghiaccio.
Le foreste di Sigurð sono state un alleato prezioso a nascondere il crimine di cui si sono macchiati: Loki aveva spiato il cielo che le incorniciava innumerevoli volte, con felci e muschio a fare da tappeto alla sua pelle nuda e umida. Alle loro pelli nude e umide.
Vorrebbe poter dire che gli dispiace, ma se il Dio del Caos conoscesse il rimorso non avrebbe aiutato Alföðr a dividere la bella Freyja dall’amore della sua vita immortale e immorale, costringendola ad un esilio lontana da Vanaheimr e dall’amore di Freyr. Il contrappasso era giunto, puntuale e crudele, come in un gioco di specchi, ed il suo di amore immortale e immorale gli era stato portato via.
Ma il verde di Sigurð non aveva mai incontrato il bianco della neve e sotto i suoi piedi non c’era l’accogliente muschio dei suoi ricordi, solo il candore accecante del gelo invernale. Le parole dell'Alföðr risuonavano taglienti come quelle folate che gli strappavano la pelle, i mostri non sanno amare, ma quella voce ormai odiosa si mischiava all’ululato del vento, al suono di altre voci che chiamavano un nome sconosciuto, una lingua non sua. Non era il suo nome ad essere chiamato, allora perché si dirigeva verso quelle voci ignote? O note. Non era il suo nome… Giusto? Qual’era il suo nome?
Un nome portato dal vento poteva anche andar bene, se pronunciato con amore.

“Tom! Tommy! Mio Dio, tesoro, stai bene? Ti abbiamo cercato tanto piccolino, non allontanarti mai più così! Non piangere, caro, non piangere, la mamma è qui, la mamma ti ha trovato.”
“Ho freddo, mammina, ho tanto freddo.”
“Lo so, tesoro, sei fradicio, torniamo a casa.”
“Sì…”

 

Atto I, Scena II.

Oxford profumava di pioggia. Le guglie della cittadella antica si stagliavano superbe contro il cielo perennemente grigio della contea, ma era bello viverci. Molto più che a Wimbledon, dove era impossibile giocare persino a calcio con gli amici senza rischiare di perdere la palla sotto le ruote di un auto o il piede di un Bobby troppo zelante. Che ironia.
Oxford profumava di pioggia e a Tom piaceva tanto quell’odore, gli piacevano le nuvole cariche di energia pronta ad esplodere, annusava l’aria come un segugio alla ricerca di ozono: a Londra non si era mai accorto di che buon odore avesse la pioggia, di quanto risultasse accogliente la neve, era bastato un bosco d’inverno a fargli cambiare idea.
Tom era un ragazzino strano, o troppo intelligente, come diceva qualcuno, e già lo vedevano tutti come insegnante, perché amava studiare più dei Glasgow Worriors e i suoi libri anche più dell’Arsenal e a scuola qualcuno lo prendeva già in giro, anche se portavano tutti la stessa divisa ed erano costretti a ripetere le stesse formule di cortesia agli stessi ingessati maestri. Che dal canto loro lo adoravano, perché Tom era sempre il primo a rispondere e sembrava una bambina con quei riccioli biondissimi e gli occhi enormi e verdi, no azzurri, forse grigi. Che lo costringevano sempre alla parte muta dell’angelo nel Presepe a Natale, un bell’arredo di scena quando lui invece sognava il posto del mite pastorello che però poteva urlare e parlare e parlare e parlare.
Tom odiava fare l’angelo nel Presepe.

Aveva tredici anni la prima volta che decise che si sarebbe ribellato. Ne aveva tutto il diritto, dopotutto. Aveva tredici anni e stava per essere rinchiuso in una gabbia dorata lontano da casa, lontano dai suoi genitori che non si volevano più e forse non volevano più nemmeno lui, perché sarebbe stato il solo ad essere allontanato, Sarah avrebbe continuato a tornare a casa tutti i pomeriggi, Emma avrebbe continuato a dormire nella sua cameretta rosa.

“Non voglio entrare come interno ad Eton, voglio tornare a casa.”
“E’ meglio così, Tommy, a casa non c’è una bella atmosfera.”
“Solo per me? E Sarah? Emma? Perché mandate via solo me?”
“Non ti stiamo mandando via, ti stiamo dando una grossa opportunità, Thomas, Eton non è per tutti, riuscire ad essere ammessi come interni è un privilegio che costa caro.”
“Potreste risparmiare e tenermi a casa con voi. Potreste risparmiare e rimanere tutti e due con noi.”

Aveva tredici anni quando aveva varcato i cancelli di Eton ed aveva capito che pestare i piedi per contestare l’Autorità non serviva a niente, la ribellione era un’altra cosa.
La sua sarebbe stata rifiutare un percorso già segnato da altri, e dunque sicuro, per l’odore acre del legno vecchio di un palcoscenico: non sarebbe mai più stato un angelo nel Presepe.

Quando le persone pensano ad Eton, cosa vedono? Una costosa boarding school, tradizioni secolari, rampolli reali, educazione severa, manierismo d’altri tempi.

Cos’è Eton? Un collegio pieno di ragazzini e adolescenti frustrati, stressati e soli. Non ha importanza quanti soldi abbiano i loro genitori, quanto sia blu il loro sangue o quanti nomi affastellino uno sull’altro: la realtà è quella di ogni altra scuola maschile del mondo.

Eton era quello che Tom aveva immaginato, una gabbia dorata con terreni e campi tanto immensi da darti l’illusione di non essere circondati dalle mura spesse del tempo e della convenzione.
Ma Tom era bravo a fingere, di non accorgersi delle cose soprattutto. Quindi non vedeva quei muri, non vedeva chi si dava di gomito ridacchiando quando passava nei corridoi interni perché Sir Chickester-Clark l’aveva di nuovo definito il suo pulcino prediletto – e con un nome come il suo, il professore avrebbe dovuto stare più attento alle parole che usava – davanti all’intera classe di Storia. Non vedeva, ma registrava tutto, e il primo pugno che diede in vita sua fu più che ponderato e meritato: Eton è una scuola antica, ma la carne che la abita è giovane, e la legge che la comanda una sola. Se ti pieghi anche solo una volta accettando l’insulto e l’umiliazione diretta, diventerai un bersaglio e il branco ti mangerà pezzo dopo pezzo.

Tom non era più un angioletto da presepe, si era tagliato tutti i riccioli dopo il primo mese da interno e dopo l’ennesima frecciatina del Capitano di Dunrford. Li aveva tagliati, soprattutto, per salire sul palcoscenico e provare ad avere una chance vestendo la pelle di qualcun altro: aveva bisogno di spegnere le voci stridule nella sua testa, aveva bisogno di fare silenzio e, se quel silenzio poteva darglielo una vita inventata, cosa c’era di male? Tom non sapeva essere pessimista, sapeva di poter trarre il meglio da qualunque situazione e il teatro sarebbe stato il suo angolo ameno in quella situazione che sapeva di carcerazione preventiva.
Ci aveva messo un po’, più per orgoglio che per altro, a dirsi che suo padre aveva ragione, Eton era davvero una grossa opportunità ed un luogo ideale, perché se anche era vero che vivere in una gabbia – se pur dorata – non piace a nessuno, quelle vecchie pietre gli davano l’occasione di aprirsi la mente come non credeva di poter fare, perché Tom era curioso, molto curioso, e divorava libri di storia e grammatica latina senza sentirne il peso. Studiava lingue che non erano la sua per puro desiderio di sapere, lo Spagnolo non gli avrebbe portato crediti extra da sfruttare in vista degli esami di metà termine, gli portava via solo tempo ed energie, ma non aveva importanza.
Una volta scoperto il teatro non gli era pesato più nemmeno dover rimanere in collegio quasi tutti i week-end, perché l’Oxfordshire non era proprio dietro l’angolo e Emma stava preparando gli esami per poter entrare a sua volta in una buona scuola superiore. E poi i suoi genitori quasi non si parlavano più ormai, aveva scoperto appena prima di tornare a scuola dalle vacanze natalizie che suo padre si era trasferito in un altro appartamento. Sarah aveva pianto per giorni fingendo di aver litigato con il suo ragazzo, perché a sedici anni si sentiva troppo grande per sentire ancora il bisogno di un padre accanto. Sarah, però, era sempre stata la prediletta di uno scozzese troppo rigido e inquadrato che regalava carezze di rado, mai senza motivo e mai – soprattutto – all’erede, perché le moine erano affare da donne. Emma, dal canto suo, di anni ne aveva dodici e non gli aveva nemmeno chiesto il permesso prima d’infilarsi nel suo letto l’ultima notte che avrebbe passato a casa.

Non era più tornato a casa per i week-end, limitandosi alle lunghe vacanze estive e natalizie. Il teatro non era più una scusa, era una realtà cui non voleva rinunciare per nulla al mondo, sicuramente non per una casa appena tiepida.

Dopo i primi mesi incerti, Tom si era fatto più amici di quanti potesse anche solo ricordare il nome. Le prese in giro erano continuate, ma ormai erano appunto quello, burle giocose, goliardie tra amici, piccole innocue invidie fra compagni di classe che non sfociano in nulla. Tom era un ragazzo troppo solare per non attirare l’attenzione dei coetanei, anche se era troppo riservato per poter diventare il fulcro di un gruppo. In realtà neppure gli interessava più di tanto, gli bastava non rimanere solo nei sabato sera in cui il dormitorio era semideserto e fuori pioveva troppo anche per i suoi gusti. Gli bastava qualcuno che andasse a vedere le prove di rappresentazioni in cui al massimo pronunciava due battute, perché era quello nuovo e doveva ancora farsi le ossa prima di poter ambire a ruoli veri.
Non aveva importanza, Tom era paziente e gli piaceva guardare gli altri, gli piaceva avere la possibilità di imparare da Martin Grantham, diciassette anni di Belfast, madre di antica (e nobile) tradizione cattolica e padre non pervenuto. O da Mary Elizabeth Ingrams, l’Ofelia di una rappresentazione dell’Amleto di cui si era parlato per mesi sui giornali di settore, persino a tiratura nazionale, bruttina e altera come sanno esserlo solo certe ragazze di sangue tanto nobile da sembrare ormai catrame, ma talmente brava da convincerti di un’inesistente bellezza.
Le ragazze della St. Mary’s venivano spesso impiegate per i ruoli femminili, non era più tempo di inutili perbenismi e separazioni; molti ragazzi in realtà si univano al club teatrale esattamente per quel motivo, era l’unico modo per conoscere membri del gentil sesso sotto gli anta.
Tom a quindici anni parlava discretamente lo spagnolo e addentava la prosa di Chervantes e Shakespeare con lo stesso gusto con cui affondava il cucchiaio nel suo pudding domenicale. Si era unito al club per salire sul palco e non per montare luci e spiare sotto le gonne delle timide fanciulle che ridacchiavano dietro le quinte del Farrer mentre si cambiavano accostando malamente le porte.
Non si era aspettato di incontrare Marina Stancer (Marina, non Mary: sono due nomi diversi e Mary è un nome banale, non trovi?) e di prendersi una cotta colossale per i suoi capelli rossi lunghissimi e – forse soprattutto – per la sua terza abbondante.
Marina – non Mary – era stata il suo primo bacio e la prima ragazza a cui aveva spezzato il cuore appena sei mesi dopo, perché nessuno poteva chiedergli di rinunciare alla grande occasione di un ruolo da co-protagonista per una festa di compleanno.
Gli era dispiaciuto non ricevere più le sue telefonate, non scriverle più poesiole sdolcinate da recapitarle nella sua prigione altrettanto dorata? Aveva il teatro e quella era l’ultima possibilità che aveva di poter essere scritturato per la Lower Boys Play(2), perdere quell’occasione gli sembrava una perdita peggiore che rinunciare alle strusciate occasionali a quella terza abbondante.

Ebbe la parte di Peter Trofimov quasi senza problemi, lo rosa dei candidati per il ruolo fu sfrondata con estrema velocità dal vecchio regista prescelto per quei dodici mesi di passione. Tom aveva quasi sedici anni ed era troppo alto e magro, mangiava troppi dolci e andare a correre due volte a settimana con un vecchio walkman sotto la pioggia gli aveva regalato buoni polmoni e cosce fibrose, ma sembrava comunque ancora un bambinetto imberbe. Ma Peter era uno studente e aveva la testa piena di sogni e utopie, era russo e biondo e Tom aveva gli occhi che cambiavano colore sotto le luci dei faretti, la voce che sbocciava e una capigliatura da incubo: erano perfetti insieme.
Tom lenì il dispiacere di dover rinunciare a Marina leggendo Checov, Puskin e grossi tomi sulla Russia pre-rivoluzionaria, perché doveva diventare uno di loro, un bolscevico appassionato e impegnato, un giovane che diventa uomo nel tentare di cambiare una società ingiusta.

The Cherry Orchad fu il primo gradino che sentì di poter salire nella sua scalata interiore verso la tranquillità: il suo Trofimov convinse tutti, persino suo padre si alzò in piedi ad applaudirlo accanto a sua madre, orgoglioso come non l’aveva mai visto, il Farrer(3) si unì in un’unica lunga ovazione.
Lo sarebbe stato meno quando, anni dopo, gli avrebbe comunicato la sua decisione di fare della recitazione un lavoro, ma come poteva dargli torto? Suo padre era uno scienziato che sapeva sognare solo con sigle e numeri, per lui le parole avevano senso solo se il risultato finiva in una boccetta. A quel punto della sua vita aveva già fatto pace con il divorzio dei suoi genitori ed il risentimento si era tramutato in pena: poteva parlare con suo padre come un uomo e guardarlo negli occhi, un padre che poteva dargli un consiglio, ma Tom non era più costretto a seguirlo.

I cinque anni ad Eton poi, erano passati persino troppo in fretta. I suoi voti non erano mai calati – guai a perdere crediti, avrebbe dovuto rinunciare al grado di Capitano che gli concedeva la tranquillità in dormitorio e alla libertà di pomeriggi accucciato su un parquet a ripassare le parole di un altro – nemmeno in matematica, che pure odiava, e Marina non era stata l’unica a concedergli una seconda occhiata e un appuntamento pomeridiano agli Alexandra Gardens di Windsor. Lui e Amelia erano rimasti insieme per quasi due anni e quella volta fu lui ad averne il cuore spezzato: Amelia era più grande di un anno e sembrava uscita da una commedia Shakespeariana, era piccola e formosa e intelligente e prepotente, una Titania che lo faceva sentire un misero Puck più che Oberon (4), ma a diciassette anni l’avrebbe seguita in capo al mondo. Solo che Amelia aveva deciso che il mondo l’avrebbe girato da sola e dalla Windsor’s si iscrisse alla Humboldt di Berlino senza nemmeno dirglielo: lo mise davanti al fatto compiuto con una lunga e-mail piena di fumose promesse per non dirgli che lo stava lasciando - lo aveva lasciato. Non ne seguì nemmeno una telefonata. Tom ci pianse come uno stupido come non aveva fatto nemmeno la prima notte a Eton, tre anni prima.

Dopo Eton, essere ammessi a Pembroke fu persino semplice: aveva un ottimo curriculum scolastico ottenuto nel collegio più prestigioso della Gran Bretagna. Avrebbe potuto tornare ad Oxford, avrebbe potuto tornare a casa, ma scartò immediatamente la scelta, perché aveva diciotto anni e i suoi genitori stavano vedendo altre persone nei rispettivi appartamenti e lui, dopo cinque anni, non aveva più voglia di tornare a casa per il week-end. Non aveva voglia, soprattutto, di decidere in quale casa tornare. L’Università di Cambridge gli offriva una scusa perfetta per la sua latitanza ed un club teatrale di tutto rispetto. Gli offriva i migliori studi classici potesse sognare, poi. Probabilmente quella scelta – fatta già al terzo anno a Eton – contribuì a nutrire il mito del suo amore per l’insegnamento: in realtà non sapeva perché avesse deciso di studiare lettere classiche, perché il latino avesse un tale fascino su di lui, così come l’Anglo-Sassone, che ricordava più le lingue scandinave che non l’inglese moderno. Studiando il Cædmon's Hymn (5) dal vecchio sassone, seguirne le evoluzioni in latino, sentirne la musicalità sotto la lingua, fonologia e lessicologia erano diventati in breve i suoi corsi preferiti, e proprio non riusciva a capire il perché il suono e l’origine delle parole scatenassero la sua curiosità in modo tanto virulento da sembrare morboso.
Il venerdì sera usciva con i nuovi colleghi, matricole come lui o poco più grandi, ragazzini che tentavano di darsi un tono facendosi crescere un filo di baffi. Tom era biondo e a diciotto anni ne dimostrava quattordici e di baffi ancora non ne aveva visti spuntare, ma tentava di darsi un tono comunque bevendo scotch scozzese senza arricciare le labbra, facendolo scivolare giù per la gola come se fosse un semplice analcolico. Era abituato ai liquori forti, suo padre ne aveva sempre avuta una buona scorta in casa che non si preoccupava di chiudere sotto chiave: una panacea persino per un ragazzino tranquillo come era stato Tom.

Aveva conosciuto Charlie Hinchcliffe e James Kayode durante il suo primo June Event (6), poco prima d’essere additato come secchione della compagnia per l’ennesima volta. Erano diventati amici immediatamente pur frequentando corsi diversi, Charlie ambiva davvero a diventare insegnante, Jim sarebbe tornato in Nigeria dopo essere diventato giudice, ma si erano promessi di non perdersi di vista, mai non aveva importanza cosa la vita avrebbe avuto in serbo per loro. Charlie aveva una fidanzata deliziosa, stavano insieme dal secondo anno di college ed era evidente non si sarebbero mai lasciati, tutti e due biondi e pallidi e londinesi: Tom ne fece la sua famiglia senza chiedere loro permesso, ma nessuno lo allontanò.
Conobbe Alexandra Grantham durante il suo secondo June Event. Erano quasi le cinque del mattino, il sole sarebbe sorto a breve, e quell’anno si era ripromesso che sarebbe stato tra i coraggiosi “sopravvissuti” della festa. Charlie e Joy si erano ritirati già da un paio d’ore, e James era stato costretto a tornare a Laos subito dopo gli esami di fine trimestre, e Tom era decisamente alticcio, ma non tanto da non reggersi in piedi o da rinunciare alla cravatta. Alexandra si era tolta le scarpe e camminava a piedi nudi sul prato, era da sola ed aveva l’aria annoiata e determinata a divertirsi quanto la sua. Alexandra era bionda e a Tom non piacevano le bionde, gli ricordavano sempre troppo le sue sorelle, ma Alexandra aveva le lentiggini e gli occhi castani, qualche chilo di troppo, un culo bellissimo e un vestito che non faceva nulla per nasconderlo.
Alle cinque del mattino di un inizio giugno insolitamente caldo, Thomas William Hiddleston decise che avrebbe sposato quella sconosciuta che ora lo guardava divertita sulla distanza e gli faceva cenno di avere il bicchiere vuoto. Erano entrambi più ubriachi di quanto immaginassero.

Non arrivarono all’altare, ma si fermarono a Roma.

Rimasero insieme fino alla fine dell’università, ma non andarono mai oltre, trascinando forse un po’ troppo una relazione che era diventata comoda per entrambi. Tom non aveva tempo per una vita che non contemplasse la recitazione e Alexandra – che studiava legge con Jim – riusciva a capirlo fino ad un certo punto. Lo aveva accompagnato a qualche casting, gli aveva preparato un dolce per festeggiare quando era stato contattato da un talent scout e per le sue prime apparizioni televisive, ma lei non voleva stare con un attore: Tom era carino e dolce e troppo colto e gentile per lasciarselo scappare, questo le dicevano tutte le sue amiche. Ma Tom sembrava anche sempre avere la testa altrove, a volte le accarezzava i capelli con una concentrazione che la metteva a disagio, come se stesse cercando qualcosa tra i fili dorati delle sue ciocche. Tom era buono e divertente ed aveva un sorriso da illuminare una stanza, ma quando pensava nessuno lo guardasse, gli calava un’ombra negli occhi tanto scura da far mutare i tratti del suo viso. Alexandra voleva una vita tranquilla insieme ad un uomo tranquillo, e Tom lo era solo in apparenza, o si sarebbe accontentato di declinazioni e rune, non avrebbe inseguito le vite di altri per indossarle come una seconda pelle.

Tom organizzò la vacanza a Roma una settimana dopo la discussione della tesi: aveva avuto il massimo dei voti, i professori si erano tutti complimentati, suo padre era tanto soddisfatto da essersi addirittura commosso. Sua madre, dal canto suo, non aveva trattenuto le lacrime.
Per la prima volta si servì del suo status di figlio di divorziati per averne un vantaggio, perché voleva davvero, davvero vedere Roma prima di essere costretto a dire ai suoi che non avrebbe proseguito gli studi classici e non avrebbe fatto l‘insegnante. Aveva già pronta la sua domanda per la Royal Academy ed aveva già scelto il brano da presentare all’audizione per poter rientrare tra i ventotto fortunati che sarebbero stati ammessi a settembre, non poteva permettersi di fallire, non avrebbe avuto un’altra occasione.

Lui e Alexandra si erano di fatto già lasciati quando s’imbarcarono a Heatrow per Fiumicino, ma proprio per quel motivo erano tranquillissimi. Dormirono insieme nello stesso letto come facevano da quasi due anni, l’ultima notte prima di ripartire alla volta di Londra fecero addirittura l’amore, un addio alla Città Eterna e alla loro storia finita. Alexandra gli scompigliò i capelli e gli diede un bacio sulla fronte prima di salire sul taxi che non avrebbero diviso per tornare a casa. Non si rividero più, ma avevano conservato solo bei ricordi.

Come previsto, suo padre non la prese bene. Tom si concesse qualche giorno per conservare il profumo dei platani sul Tevere, l’odore della polvere del tempo che copriva i marmi antichi e bruniti, il colore troppo azzurro e troppo immobile del cielo primaverile italiano, il movimento perpetuo dei quartieri trasteverini e la bellezza di forme candide e tanto morbide da sembrare quasi sbuffi di nuvole.

“Thomas, hai studiato tanto, sei un ragazzo intelligente con un’istruzione prestigiosa. Vuoi davvero buttare tutto questo al vento per una blanda possibilità? Vuoi davvero buttare l’occasione di trovare te stesso per diventare qualcun altro?”

Norman James Hiddleston non perdeva mai la calma e non lo fece nemmeno in quell’occasione. Tom poteva leggergli la delusione sul viso come in un dipinto, la rabbia negli occhi come una luce sinistra, ma non perse la calma nemmeno per un istante: odiava quel lato di suo padre e lo invidiava, perché non era mai stato capace di mascherare tanto bene emozioni così estreme. Una parte di lui avrebbe tanto voluto sentirlo urlare, vederlo agitarsi sulla sua poltrona preferita, tormentarne i braccioli con le dita. Invece niente, era rimasto fermo a guardarlo fisso negli occhi, perfettamente composto, non tremava nemmeno il whisky nel bicchiere che teneva in mano.
Tom fece un respiro profondo e smise di guardare il bicchiere immobile di suo padre per concentrarsi sul suo viso, sulla rete di piccole rughe che lo segnavano, sulle occhiaie dietro gli spessi occhiali da professore, le tempie che diradavano e cominciavano ad imbiancare. Suo padre aveva superato abbondantemente i cinquant’anni e non faceva nulla per nasconderlo, non concepiva nemmeno l’ipotesi di poter essere diverso da com’era sempre stato. I suoi genitori si erano separati da quasi quindici anni, eppure non si erano mai risposati, avevano recuperato un rapporto cordiale, ma cercavano di rivedersi il meno possibile: come lui e Alexandra, si erano conosciuti all’università ed erano sempre rimasti insieme. Al contrario di lui ed Alexandra, non avevano voluto capire che la monotonia e il silenzio non sono una piacevole routine a cui tutte le coppie sono destinate, solo l’inizio della fine. Tom non voleva seguire il percorso dei suoi genitori, il silenzio e la monotonia non facevano per lui. Una sola pelle non gli bastava.

Non seguì i suggerimenti di suo padre, che smise di chiedergli di pranzare con lui la domenica. Non aveva importanza, Londra era distante da Oxford, avrebbe comunque dovuto declinare gli inviti.

La sua istruzione prestigiosa gli fu solo d’ostacolo per tentare l’avventura alla RADA. L’Accademia preferiva menti vergini, non già formate, inquadrate. Preferiva menti giovani, menti vuote da poter trasformare in creta buona da poter essere modellata: niente più accenti, vezzi, posture. L’attore non esisteva, c’era solo il suo personaggio.

Tom aveva già ventun’anni, andava per i ventidue ed aveva in tasca una laurea che poteva spalancargli tutte le porte tranne l’unica gl’interessasse: era vecchio e troppo pieno per gli standard della RADA(7).
Evitò di tagliarsi i capelli fino a settembre perché si allungassero sul collo e i boccoli creassero delle onde invitati, si presentò con abiti volutamente ambigui che mettevano in mostra la flessuosità di un corpo che pensava ridicolmente magro, ma che in quella circostanza avrebbe giocato a suo favore: sarebbe stato Viola e Cesario, avrebbe fatto innamorare la bella Olivia e si sarebbe disperata per l’amore di Orsino. (8)

Dopo il provino, il professor Nael era stato il suo principale sponsor per l’ammissione, la sua interpretazione di Viola in abiti maschili l’aveva tanto colpito da fargli chiudere un occhio su tutto, l’età, l’università. E aveva convinto Mrs.Tyson a fare altrettanto. Gliene sarebbe stato grato per sempre, perché nonostante tutto, nonostante i tre anni di studi e passione che ancora aveva davanti, poteva finalmente dire di aver fatto un vero passo avanti per realizzare i suoi sogni.
I suoi studi classici lo aiutarono a superare senza difficoltà i corsi di dizione e inflessione vocale, perché quando riesci a cantare Ovidio e Sofocle senza sbavature, imitare un contadino gallese diventa una passeggiata.
Ma con il professor Nael si rese conto di non saper nemmeno stare in piedi come un essere umano. La professoressa Coleman lo fece sentire un gorilla spastico in più occasioni, il professor Yount una femminuccia innocua(9). Furono tre anni talmente intensi da non riuscire a respirare, ma passarono fin troppo in fretta.

Sicuramente più di quelli successivi, che sembrarono non passare mai. Quando nel 2005, fresco di diploma della più prestigiosa Accademia di recitazione del mondo, si ritrovò per la prima volta davvero solo, decise che non avrebbe comunque chiesto aiuto alla sua famiglia. Aveva un po’ di soldi da parte, abbastanza da non doversi preoccupare per diversi mesi anche nella sfortunata ipotesi non fosse riuscito a trovare subito lavoro. Aveva preso in affitto un piccolo appartamento non troppo periferico, ma abbastanza lontano dalle zone più care della città. Abbastanza vicino all’appartamento di Emma, soprattutto, che ormai viveva da un po’ con il suo fidanzato.

Non rimase a lungo disoccupato come gli aveva sempre preannunciato suo padre, ma nemmeno riuscì davvero a smentirlo, perché nessuno dei ruoli per i quali fu scritturato gli aveva concesso gli onori di pubblico che aveva sperato. Di critica, sicuramente, il suo nome era sempre tra i primi ad essere incensati, nonostante non fosse mai il protagonista.

Inanellò una serie di piccoli ruoli, poi film per la TV, per la BBC, persino qualche ruolo da protagonista per film indipendenti. E poi il teatro, caro vecchio teatro, Shakespeare e odore di legno vecchio, Londra e tour europei.

Non era un attore famoso, non poteva permettersi altro che un piccolo appartamento ed una vecchia Peugeot, ma poteva ritenersi soddisfatto. Cominciava ad avvicinarsi ai trenta e sapeva che, superata quell’età, avrebbe avuto poche possibilità di diventare davvero famoso, lui non era Alan Rickman. O Anthony Hopkins.

Ma intanto aveva la possibilità di lavorare con Kenneth Branagh e farsi maltrattare dal suo personaggio, aveva la possibilità di farsi dirigere da uno degli attori e registi più blasonati di Gran Bretagna, del mondo. Non era una condizione ideale, ma non gli dispiaceva, a lui bastava poter recitare.

Fu proprio Ken – Kenneth – a parlargli del nuovo film di cui sarebbe stato regista. Manda un provino, sei bravo, sei molto bravo, se metti su un po’ di peso ti ci vedrei bene addirittura come protagonista. Ken era ingrassato di svariati chili per interpretare Wallander, si era fatto crescere una barbetta incolta che gli stava malissimo e lo faceva sembrare un alcolista più che un serio – troppo serio – detective svedese. La prima cosa che gli avevano insegnato alla RADA era stata proprio quella: bisogna essere pronti a modificare tutto il modificabile per dar vita ad un personaggio. Non aveva importanza il ruolo, solo la serietà con la quale lo si affrontava.

Ma Tom, per la prima volta in vita sua, si ritrovò quasi a sperare di non avere la parte. O meglio, voleva fortemente far parte di quel film, ma non riusciva a vedersi come Thor. Andò in palestra, però, cominciò a seguire scrupolosamente un regime di allenamento durissimo, persino un regime alimentare più sobrio. Niente cioccolata e niente dolci: nemmeno i muscoli che per la prima volta in vita sua vide tendere le maniche della camicia bastarono a consolarlo di quelle rinunce. La vita andò avanti come se nulla fosse e dall’America nessuno fiatava. Ken gli aveva detto di avere pazienza e lui non chiedeva. Sapeva l’avessero preso in considerazione per i due ruoli principali, ma non sapeva quale e se sarebbe riuscito ad averne uno.

Aveva messo su quasi quindici chili di muscoli quando lo chiamarono da Los Angeles.
Era tornato a Londra da qualche giorno dalla Svezia, avevano dato a tutti qualche settimana di stop dalle riprese per riposarsi, e stava uscendo da un bar in cui aveva appena bevuto qualcosa con Charlie e Joy che avevano preso ad organizzare il loro matrimonio. Sapeva di dover essere felice per loro, e lo era sul serio, ma dovette sforzarsi non poco di sorridere: Charlie, il suo migliore amico, era diventato grande, era riuscito davvero a diventare insegnante ed ora avrebbe sposato la donna che amava da più di dieci anni senza essere caduto nel vicolo cieco della monotonia.
Non riusciva a fare a meno di sentire una punta di gelosia per quei sorrisi felici, per quell’unione felice, non riusciva a fare a meno di sentire la morsa della malinconia stringergli il petto come una morsa gelata e ne aveva paura, perché non era da lui.
Quindi, quando era uscito dal pub per cercare un improbabile taxi ed aveva sentito squillare il cellulare, aveva accolto quel suono con sollievo senza chiedersi chi potesse essere.

La parte è tua, sei Loki, l’avevamo deciso fin dall’inizio, non avevi altri concorrenti all’altezza.

Si era seduto sul selciato per paura di cadere, avrebbe voluto urlare per  riuscire a smettere di tremare per l’incredulità e l’eccitazione, alla fine non era riuscito a far altro che prendersi la testa fra le mani e piangere. Charlie l’aveva trovato così, rannicchiato sul selciato di un brutto vicolo male illuminato che piangeva come un bambino.
“Andiamo, piccolo Bruce, le lacrime non ti faranno diventare Batman.”
Caro vecchio Charlie. Aveva tentato di spezzare la tensione e c’era riuscito, perché era scoppiato a ridere come al solito, e poi l’aveva abbracciato come il fratello che era. Non era andato molto lontano dalla realtà, solo che non sarebbe stato Batman, non sarebbe stato un eroe e nemmeno ne sentiva la necessità: lui, dell’eroe, sarebbe stata la nemesi e il cuore.

La seconda chiamata – quando si era fortunatamente già calmato – fu di Ken che si congratulava. Sapeva già avesse avuto la parte e ne era felice, ma non volle sentire ringraziamenti, perché sarebbero stati due volte offensivi: Kenneth Branagh non raccomandava nessuno, perché di brocchi inutili e incapaci ne aveva visti fin troppi a Hollywood. E Tom doveva entrare nell’ottica che quel che otteneva era dovuto al suo duro lavoro. Che paga sempre.
A quel punto, doveva solo incontrare il suo Thor.

 

 

 


Note:

(1)  Såsom i en spegel “Come in uno specchio”, film di Ingmar Bergman del 1960. No, non conosco lo svedese. u.u
(2)  Rappresentazione teatrale riservata esclusivamente agli studenti di Eton del primo e secondo anno iscritti al Club di Recitazione.
(3)  Uno dei teatri di Eton e tra i più grandi di Oxford con i suoi 400 posti.
(4)  Personaggi di “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare.
(5)  Il più vecchio testo codificato in Old English.
(6)  Sorta di balli di fine anno che si tengono a Cambridge nelle varie sedi universitarie: i balli sono quasi tutti piuttosto formali e si entra solo previo invito (il biglietto è solitamente molto caro e può arrivare anche a superare le 100 sterline): per i ragazzi è richiesta la cravatta, le ragazze l’abito da sera.
(7) http://www.rada.ac.uk/courses-at-rada/acting-and-performance/ba-hons-in-acting/ba-acting-overview
(8)  Viola/Cesario è la protagonista de “La Dodicesima notte” di William Shakespeare. Ovviamente mi sono inventata tutto, non ho idea di che brano abbia portato ai provini! XD
(9) http://www.rada.ac.uk/about-rada/rada-staff




Ringraziamenti:
Questa storia non esisterebbe senza la mia Callie, infatti è sua l'idea di base di questa What-if, così come sue sono le mani che mi spingono sempre ad andare avanti quando scalcio o mi arriccio nell'angolo della fanwriter indegna: è la mia spingitrice ufficiale, fornitrice di ogni fangirlismo ed elargitrice di pat-pat al momento giusto.
Un grazie va anche a Kiara, che ha scritto Hiddlesworth talmente carine da farmi venir voglia di dire la mia, togliendomi l'ultima briciola di dignità. Un doveroso ringraziamento a Federico: senza di lui NULLA esisterebbe.

   
 
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