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Autore: SylviaGreen    14/01/2013    3 recensioni
Si possono dire tante cose su Sylvia Green: dormigliona, golosa, chiacchierona, irriverente, pigra, incontrollabile. Ma su due cose si può andare sul sicuro: non è una strega e non ha ricevuto la sua lettera per Hogwarts.
Eppure, per una strana successione di eventi, Sylvia Green si ritrova a bordo dell'Hogwarts Express, a chiacchierare tranquillamente con Harry e Ron. L'autrice si sarà bevuta il cervello? Probabile.
Ma allora, cara Sylvia Green, che cosa sei?
«Una wimag», risposi automaticamente. «Cioè qualcosa di strano, complicato e ignoto».
STORIA INTERROTTA
Genere: Commedia, Fantasy, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Draco Malfoy, Famiglia Weasley, Harry Potter, Hermione Granger, Nuovo personaggio
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
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Sono sono un'undicenne che cammina da sola per King's Cross il primo Settembre... che c'è di male?





Stavo girando per la stazione ferroviaria di King’ s Cross, di Londra anche quel giorno. Come tutti gli altri, del resto.
Come al solito, nessun mio amico immaginario mi aveva mandato un sms per chiedermi come stessi e che cosa stessi facendo in quel momento, e io non possedevo il numero di cellulare di nessun mio compagno delle elementari. A dir la verità, non avevo nemmeno un cellulare.
Adoravo passeggiare in città da sola, specialmente in stazione.
Mi permetto di rettificare: solo in stazione.
Quella stranissima passione era spiegata da due fattori: primo, adoravo i treni, così semplici eppure così utili, e secondo, mi divertivo ad osservare malignamente – forse per una sorta di vendetta contro tutti coloro che mi avevano trattata come un cane rognoso – tutte quelle persone che perdevano la loro corsa e poi, disperati per aver chiacchierato cinque minuti di troppo con il loro amico del cuore che aveva il treno tre ore dopo, andavano a piangere contro i poveri impiegati delle biglietterie, chiedendo un nuovo biglietto nonostante la corsa successiva fosse piena. Allora inveivano contro di loro, lamentandosi che fossero dei buoni a nulla incapaci di gestire le emergenze, quando in realtà erano loro gli incapaci di rispettare una tabella di marcia molto semplice: orario treno uguale prendere treno.
Come da routine, entrai in un bar appena sulla destra e chiesi quattro panini, – ero famosa per la mia fame da lupi – due bottigliette d’acqua, delle patatine fritte, dei tovaglioli e un sacchetto di plastica per portare il tutto: quello sarebbe stato il mio pranzo non appena tornata a casa, perché la mia abilità nella cucina lasciava leggermente (ma proprio leggermente) a desiderare un cuoco migliore. Chiunque avrebbe preferito persino un gatto sui fornelli al posto mio.
Sistemai il mio pranzo al sacco con cura nella borsetta vuota che portavo a tracolla, che già avevo predisposto per quello scopo (a mio parere, i bar della stazione erano i migliori della città, forse perché abituati ad un gran numero di clienti e, quindi, di gusti diversi), e aggiunsi anche un pacchetto di cicche alla menta che mi avrebbero sistemato l’alito dopo mangiato senza dover stare a spazzolarmi i denti per dieci minuti.
Camminai oltre la scritta TICKETS HERE e mi stavo recando decisa verso le piattaforme delle partenze quando un uomo (di cui potevo vedere solo un grosso turbante viola e un enorme carrello pieno di pacchi che trascinava) mi venne addosso, sbattendo la sua robusta spalla contro il mio petto. Probabilmente aveva perso il controllo del suo bagaglio, e non me ne stupivo affatto, ma riempirlo di meno no? Insomma, stava trasportando almeno sei o sette scatole di cartone una sull'altra in precario equilibrio, ma a quanto pare non gli era venuto in mente di prendere due borse. Ma perché?
Gli effetti di questa poca praticità si riversarono tutti sulla mia povera cassa toracica, la quale protestò con una fitta dolorosa che io tradussi in un leggero «Ahi».
«Oh, m-m-m-m-mi scusi», balbettò l'uomo quando si accorse che si era tuffato contro di me. Sembrava spaventato, come se fossi un cannibale pronto a mangiarlo. «S-s-s-son-n-o v-v-eramen-nte de-desolat-to». Alzò lo sguardo verso di me e i nostri occhi si incrociarono.
Gli sorrisi per tranquillizzarlo, commossa dalla sua paura. «Non si preoccupi, signore. Non è successo …», mi fermai per un istante, spaventata dal cambio repentino di espressione dell'uomo, ora pieno di curiosità, «… nulla …», lo sconosciuto si concentrò su di me come se fossi un pericoloso criminale di cui però non riusciva a ricordare i delitti, facendomi impallidire, «… di male».
Quello mi sorrise velocemente di rimando, continuando a fissarmi, e io scivolai via dal suo sguardo indagatore. Mentre proseguivo per la mia strada, mi sentivo ancora la schiena perforata dai suoi occhi, che si erano già trasformati in severi.



Quando mi voltai a guardarlo, per sicurezza, il suo corpo pareva scosso da tremiti incontrollabili, come se avesse un freddo cane – era Settembre, ma il tempo era stranamente clemente, perciò non c’era alcun motivo di aver freddo, specialmente se ricoperti da un mantello nero come il suo – oppure qualcos'altro …
… eravamo tornati alla paura?
Fammi capire: quando lo guardo trema, quando non lo guardo no? È un po' strano come comportamento.
Avrei voluto aiutarlo o per lo meno rassicurarlo; però si trattava sempre di un estraneo, e quindi pericoloso, così prima di fare qualunque azione che mi spingesse ad avvicinarmi a meno di un metro da lui, mi voltai a spiarlo di nascosto per un po' di volte.
E notai un particolare che mi insospettì non poco: non mi toglieva gli occhi di dosso.
I londinesi, i turisti, i manager, le hostess, i passanti, i familiari, gli anziani, gli infermi e chiunque fosse dovuto passare a mezzogiorno meno un quarto del primo settembre in una stazione; tutti continuavano a badare ai loro affari, s’infilavano nel suo campo visivo e ne uscivano senza preoccuparsene, eppure i suoi occhi sembravano non accorgersene: erano sempre fissi su di me, inespressivi, come se fossero quelli di una statua che non potevano fare altrimenti. Sembrava quasi che non avesse altro da fare che continuare a scrutarmi.
Peccato che lui non si trattava di una scultura, ma di un uomo vivente, e anche piuttosto corpulento.
Cosa cavolo c’era in me di tanto interessante? Ero solo una quasi undicenne in giro da sola … problemi? Avevo solo un pranzo al sacco nella tracolla, più delle tasche che non si poteva mai sapere che cosa potessero contenere … problemi? Non c’era nessun genitore a stringermi la mano e a dirmi che cosa dovevo o non dovevo fare … problemi?
Sta’ a vedere che questo è dei servizi sociali che mi ha scambiato per un’orfana e che mi vuole adottare.
O forse no …
Forse il suo animo non era così buono come invece la voce balbettante lasciava intendere.
Oddio. Un malintenzionato.
Prima mi viene addosso per suscitarmi benevolenza, poi mi fissa per attirare la mia attenzione e infine …
Per evitare che completasse il suo piano, camminai via più velocemente - ma anche più naturalmente - che potei fino a raggiungere il cartello: DEPARTURES. Accanto all’elenco dei treni, un enorme orologio dal quadrante bianco splendente segnava le ore 10.48, e subito sotto un display elettronico mi ricordava che quel giorno era il primo Settembre.
Ancora dodici giorni, e sarebbe incominciata la scuola: contavo alla rovescia il tempo rimanente di ferie con molto rammarico.
Tre giorni prima, i miei genitori erano partiti per Milano senza di me e io avrei dovuto iniziare la prima media da sola, con un appartamento che non sentivo mio (il mio cuore sarebbe sempre rimasto italiano, anche in mezzo a tanti londinesi) e pieno di faccende casalinghe da sbrigare, come spazzare i pavimenti, lucidare le finestre, lavare i piatti, strofinare i vestiti, che avevo sempre visto fare dagli altri, ma che a metterle in pratica da sola davano l'aria di essere molto complicate. Specialmente per una ragazzina di dieci anni come me.
Anche se dopo due mesi e otto giorni avrei superato la soglia degli undici, ero lo stesso rimasta da sola a curare una casa ad una così tenera età. Veramente un ottimo modo per responsabilizzarmi, complimenti miei cari parents, come dicevano a Londra.
Come ogni volta, non appena pensai a loro un leggero rintocco di malinconia si fece sentire in fondo al mio cuore.
Non provare a piangere per loro, mi rimbrottai,perché hanno avuto la sorte che doveva toccar loro. A fare i genitori si impara sul campo, e loro non si erano rivelati sufficientemente bravi e qualcuno li ha mandati in panchina. Ora tocca agli altri giocatori.
Ecco, magari un uomo sospetto con il turbante non fa parte della mia squadra.
Mi sentii di nuovo osservata, e per prudenza mi accucciai dietro ad un pilastro di pietra grigia sporca, trascinando con me la mia borsetta: per ironizzare, pensai che dovesse per forza trattarsi di un malintenzionato in pensione, dato che puntava sulle ragazzine di undici anni indifese senza quasi soldi in tasca - li avevo spesi tutti nel panino.
Ero abituata a ironizzare sui problemi e sulle tristezze, perché ne avevo ricevute fin troppe. Specialmente quel fatidico 29 Agosto.
I miei mi avevano rifilato tante di quelle scuse, tante di quelle bugie, tante di quelle prese in giro, che oramai io ero diventata un maestro a scovare le falsità. Mi avevano riempito la testa di tanti stai tranquilla, ti telefoneremo, tesoro non ti preoccupare, ma anche siamo in pena per te e perfino se riusciremo, ti verremo a trovare uno di questi giorni.
Certo, avrei voluto rispondere, ma non era il caso di far imbufalire due genitori l’ultimo giorno in cui li vedevo. Mi verrete a trovare, prenderemo un tè insieme, farete finta di aiutarmi a pulire casa, mi chiederete come sto andando a scuola, mi ripeterete che sono sempre nei vostri pensieri e poi tornerete in Italia a fare la bella vita e a sbrigare delle faccende che solo voi conoscete.
Però, contravvenendo al mio istinto, mi ero tenuta quelle parole in testa e le tiravo fuori dal cassetto nel momento in cui la mia mente vagava fino a quel giorno, distraendomi dal pensiero di essere stata rifiutata da chi invece avrebbe dovuto starmi vicino per sempre.
Un fruscio, che sembrava provenire dal pilastro al quale mi ero appoggiata, mi distrasse dai miei pensieri.
Alzando lo sguardo su una specie di ponticello che oltrepassava tre file di binari pieni di fumo, notai, prima che scomparisse, una strana, enorme macchia nera che non pareva appartenere a nessun essere terrestre. Era alta almeno due metri e venti e larga la metà, con le sembianze di un uomo grosso e corpulento e con una lunga barba folta, attorcigliata e cespugliosa.
Nel secondo seguente, quando quella bizzarra ombra sparì (ma forse me l'ero solo immaginata) sul ponte rimase solo un carrello dall'aria molto pesante, simile a quello dell'uomo con il turbante - cos'era, una mania? - e un ragazzino circa della mia età, alto e mingherlino, con scompigliati capelli neri e occhiali, che si guardava intorno stupito. Probabilmente il suo pettine era impolverato dal giorno in cui l’aveva comprato, ma non era tanto importante, a mio parere: nemmeno io mi pettinavo mai.
Abbiamo già qualcosa in comune!
Oddio, cos'era questo? Un pensiero da stupida cotta?



Distolsi lo sguardo subito, temendo di innamorarmi a prima vista: una stazione non era proprio il posto migliore per un primo incontro, e men che meno per un appuntamento romantico. Specialmente nelle mie condizioni.
Mi specchiai su di un vetro che ricopriva un telone pubblicitario di un nuovo e utilissimo rasoio elettrico con quattro marce e quattrocento sterline di costo. Nessuno lo guardava mai, poveretto: almeno in quel momento stava servendo ad aiutarmi a giudicare se fossi davvero così impresentabile nel caso quasi impossibile in cui fossi riuscita a trovare il coraggio di parlare con quel ragazzo.
Dovetti convenire sul sì. Ero sporca: i miei capelli marroni erano quasi neri grazie ad una patina di fumo che, chissà come, ritrovavo sempre sulla cute quando uscivo dalla stazione – non eravamo mica nell’ottocento, insomma – e le occhiaie sotto ai miei occhi castani parevano due occhiali da quanto erano marcate. Toh, ecco un altro aspetto comune. Il cappottino nero imbottito con cappuccio era stato perfino lucido una volta - incredibile a dirsi - però ormai si era rassegnato e adattato alla mia routine di almeno sette gite in stazione che mi concedevo a settimana, e si era ricoperto di una strana polverina grigia preventiva che non cercavo più nemmeno di togliere. Perlomeno aveva salvato dalla lavatrice la mia anonima maglietta a tinta unita. I jeans non erano molto sporchi, grazie al cielo: non sembravo proprio un barbone fatto e finito. Appena tornata a casa, avrei dovuto fare una doccia: ciò implicava anche pulire il pavimento, asciugare il vetro appannato, raccogliere tutti i capelli che perdevo da terra e sciacquare il tappetino dalle tracce di shampoo. Bello.
Sbuffando, pensai che avrei dovuto comunque darmi una ripulita. Se quel ragazzo mi avesse visto di nuovo …
Non mi andava però di utilizzare i tovaglioli che avevo comprato insieme al panino, e purtroppo non avevo fazzoletti di carta. Cosa avrei potuto usare?
Accidenti, era la prima volta in vita mia che mi preoccupavo di migliorare il mio aspetto. Questo sconosciuto mi stava cambiando veramente tanto. Doveva essere la giornata degli sconosciuti strani.
In una situazione di emergenza come quella, però, mi tornava sempre utile il mio cappotto. A guardarlo da profana, pareva uno di quei cappottini inutili esposti alle bancarelle dell'usato, che dopo due giorni già si restringevano. Invece bastava indossarlo per neanche una settimana e già manifestava la sua meravigliosa e strabiliante qualità, che credevo pochi altri avessero: essendo stato probabilmente concepito da chi aveva progettato la borsa di Mary Poppins, possedeva almeno un migliaio di tasche - molte delle quali aggiuntive, perché cucite da mia madre in un impeto di istinto materno - e aveva la capacità di contenere le cose più strampalate tutte insieme senza aumentare il suo peso di un grammo.
Ad essere sinceri, questo potere poteva anche dipendere dalla mia pigrizia di infilare oggetti su oggetti in tasca quando non ne avevo bisogno subito ma supponevo mi servissero in seguito: in questo modo, pensavo, sarà più facile ritrovarli. Non era assolutamente vero, dato che nelle tasche finiva per crearsi una piccola montagna di cianfrusaglie che rendeva impossibile una qualunque ricerca, però mi piaceva dirlo a me stessa. Era divertente trovare scuse inutili e assolutamente false, però verosimili. Chissà se quella capacità mi sarebbe tornata utile in futuro. Probabilmente no.
Annoiata della mancanza di vitalità che c'era quel giorno in stazione, mi sedetti alla base del pilastro su cui mi ero appoggiata e, per trovare qualcosa da fare, decisi di svuotare tutte le tasche che riuscii a raggiungere, e di segnare su un blocco di appunti che mi portavo sempre dietro cosa stavo trovando, in modo da non accanirmi poi come una stupida a cercare qualcosa per tutta casa senza ricordarmi che il loro - presunto - posto giusto era quel giaccone.
In mancanza di meglio, mi pareva un buon passatempo, così feci un lungo respiro profondo e iniziai.
Per prima cosa, in una tasca trovai uno straccio grigiastro e del sapone liquido, che provai senza convinzione a spiegarmi come il testimone della mia recente pulita dei sanitari del bagno. Era stata il giorno prima … o quello ancora prima … forse. Non mi ricordavo il giorno esatto, però rammentavo di aver per errore acceso a palla l’aria condizionata e, nella mia totale incapacità, non ero stata in grado di spegnerla: per quel motivo avevo tenuto addosso il giaccone per due ore filate, e poi ero andata a disturbare la mia arcigna vicina di condominio nella speranza che mi aiutasse. Lo aveva fatto, ma era stata anche un'ora a spiegarmi che cosa fosse assolutamente imperdonabile nel mio bagno.
Nella speranza di ricordarmi di rimettere lo straccio al suo posto, lo utilizzai per pulirmi il viso - asciugamano formato tascabile, in vendita nei migliori cappotti Green - poi ripresi la ricerca.
Ecco ciò che mi appuntai:

- Qualche spicciolo di sterlina;
- Tre boccette omaggio di profumo Dior, Giorgio Armani e Bulgari(probabilmente li avevo staccati da una pagina di pubblicità di una rivista);
- Un libro formato tascabile (questo non riuscii proprio a spiegarmelo, ma vabbè);
- Un block notes;
- Due penne;
- Bottoni di ricambio compresi di ago e filo;
- Un orologio;
- Due salvaslip (anche per quelli mi era ignoto come fossero finiti nella mia tasca, dato che avevo solo undici anni);
- Una mela mezza schiacciata ma probabilmente ancora buona.

E poi ci rinunciai, consapevole che, se avessi continuato, sarebbero saltate fuori altre meraviglie.
Probabilmente, pensai, a forza di svuotare e riempire un giorno sarebbe saltata fuori la nuova teoria della relatività.
Mi spiai di nuovo sul vetro e mi feci una linguaccia: avevo ancora le guance opache, e dato che lo straccio non poteva incidere poi molto sulla loro pulizia, ero obbligata a tornare a casa.
O forse no …
No, no, proprio no, invece!
Potevo prolungare la mia gita a piacimento e ritardare la doccia al ritorno: quando sarei tornata, non ci sarebbe stato nessun genitore imbronciato che si lamentava per la mia passione inutile e sconclusionata. Evvai!
Mi avvicinai ai binari quasi saltellando, per festeggiare: di solito non lo facevo per evitare di sporcarmi troppo, ma non potevo lasciar scappare quell’occasione di studiare più da vicino gli isterici clienti delle biglietterie. Proprio per niente.
Individuai, a circa cinque metri da me, il passo frettoloso di un londinese imbronciato con ventiquattrore in mano che si recava velocemente tra i binari nove e dieci, e capii che quello probabilmente avrebbe perso il treno, almeno a giudicare dal suo cipiglio che gli piegava il volto. Scommisi da sola le cinque sterline che il bar mi aveva dato di resto e m’intrufolai nella massa di gente per seguirlo.
Speravo di coglierlo in flagrante mentre cacciava la solita inutile imprecazione e il treno intanto correva via, ma quell’uomo, purtroppo, era in orario, e s’infilò dietro una coppietta di sessantenni teneramente abbracciati per salire sulla carrozza a lui destinata, stringendo bene il biglietto.
Uffa: stavo perdendo colpi. Ero ormai diventata brava ad avvistare il-passo-di-uno-che-sta-per-perdere-il-treno, ma spesso i manager lo usavano anche quando erano tre ore in anticipo, e mi disorientavano. Stavo per tornare indietro, quando dietro di me sentii una voce di un ragazzo, la cui serietà e quasi urgenza contrastava con la frase che stava proferendo.
«Mi scusi, signore …». Si stava rivolgendo ad un grosso controllore con una corta e ispida barba punzecchiante e una divisa troppo stretta per lui. «Sa dirmi dove posso trovare il binario nove e tre quarti?».



*Angolino autrice*
Eccomi qui con la mia prima storia :) E' banale più che mai, ne sono più che consapevole... però è da anni che la tengo lì nella mia chiavetta e volevo pubblicarla in qualche modo, per sapere che cosa pensa la gente dei miei stupidissimi filmini mentali.
Molto bene, ora attendo con ansia il vostro parere. Non siete riusciti a finirla? Vi siete bloccati a metà? Stavate per vomitare? Vi è piaciuta? Avete temuto che fosse una Mary Sue? Siete ancora convinti che lo sia?
Non abbiate paura di dirmelo: ogni parere, positivo e negativo, è bene accetto e accolto. Forse le critiche costruttive sono addirittura più accolte delle recensioni positive, perché mi aiutano a migliorare!
Sì, beh, l'istinto è prendersela, e probabilmente verrà anche a me; ma in quel caso aspetterò a rispondere e poi vi risponderò più tardi, digerendo il groppo e aprendo gli occhi per vedere se è vero!
Ah, una cosa: per costruttivo intendo la spiegazione precisa su che cosa non va bene e, se proprio non chiedo troppo, un parere su come posso migliorare. Possibilmente senza insulti, ma se proprio mi tocca ... almeno, ripeto, spiegatemene il motivo!
Grazie per avermi letto e buona giornata! :)
   
 
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