A HARD DAY’S NIGHT
CAPITOLO
4: I wanna be your man
I ragazzi se la stavano spassando allegramente in una sala
da ballo: mentre Ringo si faceva riconoscere in pista, aizzato da Paul che gli
lanciava strani ed equivoci segnali dai posti a sedere, George cercava di
rimorchiare con discrezione. John stava discorrendo con alcune persone in modo
apparentemente civile.
Tutto fu interrotto dall’apparizione di Norman: sembrava
talmente arrabbiato da poter esplodere da un momento all’altro, e John ci
pensò, ma non gli piacque l’idea di avere delle budella di suino spalmate sul
suo meraviglioso completo.
«Su ragazzi, si torna a casa!» esclamò.
«Su, Norm, tranquillo, ci siamo fatti solo una
passeggiata...» lo tranquillizzò il diplomatico Paul, mettendogli una mano
sulla spalla.
«Andiamo, teoricamente saremmo noi uomini a dover comandare
sui maiali» osservò Lennon, tirando per un braccio Ringo, ancora impegnato a
dimenarsi in pista.
George, in tutto questo, era troppo impegnato a mangiare
tartine con le verdure (ahahahah) per interagire con delle forme non
commestibili, quindi passò praticamente inosservato mentre i suoi amici
tornavano in hotel; solo successivamente si accorse che Norman lo stava
cercando con lo sguardo, perciò sgattaiolò fuori, cercando di non dare
nell’occhio.
Ci riuscì.
In un battito
di ciglia era a farsi un giro nei dintorni, da solo, o meglio, in compagnia di
una sigaretta. Sul marciapiede opposto un gruppo di ragazze ridacchiavano una
vicino all’altra, scherzavano ad alta voce, e, distratte, non notarono George,
che si ritenne fortunato perché non avrebbe saputo come affrontare cinque o sei
ragazzine fuori di senno.
Poco dietro quelle signorine, ve n’era un’altra che
camminava con il soprabito calcato sulle spalle, una borsa e la testa bassa.
Aveva un comportamento, impacciato e anonimo. Per miracolo, dato il buio e la
stanchezza per la giornata non ancora conclusa, il ragazzo la riconobbe e si
avvicinò.
«Che ci fai qui fuori, sola soletta?» azzardò facendo un
mezzo sorriso.
«Se è una battuta da rimorchio, non ha funzionato» lo
rimbeccò Amelia, infastidita. Non aveva riconosciuto la voce nasale ed era già
pronta a colpirlo con la borsetta nel caso si fosse trattato di un
malintenzionato.
«No, seriamente» George si fece serio, quasi offeso «Non è
normale stare a quest’ora della notte a gironzolare… Da sola!» in quel momento
si rese conto che la sua… amica? Conoscente? Insomma, lei, gli avrebbe potuto
fare la stessa domanda, così continuò a parlare per non darle l’occasione di
controbattere «Vuoi venire in Hotel con me?»
«D’accordo...» rispose la ragazza, dopo averlo guardato
stupita e poi indignata… del resto non aveva alcun posto in cui alloggiare. Il
colloquio era andato malissimo ed essendo arrivata in ritardo aveva perso il
treno per tornare a casa.
«Questa era
una battuta da rimorchio: ha funzionato!» osservò ad alta voce Harrison.
«Giusto perché
è meglio stare nel tuo letto che dividere la panchina con un barbone, eh… Che
poi ho i miei dubbi…»
I due si
avviarono verso l’alloggio, e, incredibile ma vero, entrarono in una fitta e
interessante discussione sulle patate al forno e broccoli ripassati in padella.
«Eccoci
qui...» George sorrise. I suoi occhi erano illuminati dalle luci poste sulla
facciata principale dell’hotel.
«Wow…!» sussurrò
lei, incantata da tale lucentezza ed eleganza, mentre affondava il naso freddo
dentro la sciarpa di lana beige e stringeva nelle mani la borsa da viaggio.
Seguì il suo amico all’interno dell’edificio, impacciata.
Dopo la porta
girevole, si apriva sfarzosa e raffinata la hall: le poltroncine di raso rosso
in stile rococò avevano ai loro piedi una moquette color pastello che donava
alla stanza una luminosità piuttosto delicata.
Ovviamente,
Amelia, ebbe l’occasione di studiare il tutto da più vicino, e poté constatare
che sotto alle poltrone non vi era nemmeno un grammo di polvere; il suo amico
chitarrista la guardò imbarazzato, mentre l’aiutava ad alzarsi dopo una
rovinosa caduta.
«Ma dove sei
con la testa, mentre cammini?» esclamò, anche se doveva trattarsi di una
domanda «Ho quasi pensato che ti fossi fatta male!» quasi?
«No… Io sto
bene» rispose la ragazza, rossa in viso, ma almeno le porte dell’ascensore si
chiusero, lasciandoli soli.
Si guardarono,
senza saper che dirsi, ma quel vuoto fu subito colmato dall’unione delle loro
labbra.
La passione
cresceva velocemente e nessuno dei due osava staccarsi dall’altro; Amelia
sentiva le gambe sempre più molli, tant’è che sentì il bisogno di poggiare la
schiena alla parete, tirando a sé George.
Din-Don.
Le porte si
aprirono fin troppo celermente e i due si trovarono davanti a tutti: John fece
un sorriso enigmatico e perverso, diede una gomitata a Paul per farlo girare.
Questo, quando vide i piccioncini, li guardò allibito per poi seguire il suo
amico in una risata fragorosa.
«Be’? Non avevate fretta di cercare il nonno?» Norman entrò
nell’ascensore peccaminoso, tirandosi dietro Shake.
«Il nonno è sparito di nuovo?» domandò George, mentre
aiutava Amelia ad uscire. «Vengo ad aiutarvi! Tu puoi restare in camera... insomma,
fai ciò che vuoi...» disse, porgendo le chiavi alla ragazza.
«Ok, grazie.» rispose lei, afferrandole e sparendo nel
corridoio.
Tutti si pressarono all’interno dell’abitacolo e si
apprestarono ad uscire di nuovo.
«It’s so hot in here»
sussurrò Lennon, che dovette soffocare una risata.
«Smettetela! Non siate invidiosi se ancora non avete trovato
ancora qualcosa di vivo in cui infilare le vostre perverse lingue… o altro!»
«Vedrai, un giorno o l’altro sistemeremo un paio di belle
ragazze, vero Paulie?»
«Già...» rispose lui, con le mani nelle tasche, distratto.
Ancora non sapeva cosa lo aspettava.
«Avete qualche idea su dove potrebbe essere andato il
nonno?» chiese l’ultimo arrivato.
«Al casinò, da Kate.»
Al casinò si respirava un’atmosfera di ostentata
tranquillità, fino a che non arrivarono i Fab. Il buttafuori cercò di fermarli,
ma invano.
«Siete in lista? Questo è un club privato...» domandò.
«Ringo Starr + il suo nasone» rispose ironicamente John,
entrando senza badare ad altri encomi.
«Siamo con Kate...» rispose Paul.
Entrarono e si divisero, quel posto era enorme. Gli occhi
del bassista furono magneticamente attirati da qualcosa che non era il nonno.
La bella croupier che l’aveva pubblicamente rifiutato sul treno se ne stava
dietro un tavolo del blackjack a fare le sue mosse. I suoi fluenti capelli
erano ora tutti raccolti perfettamente dietro la nuca con una spilletta
elegante. Indossava una camicetta bianca che stringeva nei punti giusti e un
farfallino, poi un paio di pantaloni neri molto aderenti. Non vide le scarpe,
ma non era molto importante. Il bassista pensò che chiedere a lei sarebbe stato
un buon modo per iniziare le indagini… o un approccio.
«Mi scusi,» domandò cortesemente «ha mica visto un signore
anziano con un’aria sospetta?»
Kate, che normalmente non si sarebbe fatta problemi a
rispondergli a tono, di nuovo, era sul posto di lavoro, e quindi fu costretta
ad essere cordiale.
«Credo che lei si stia riferendo al nostro cliente, il
Signor McCartney.» la ragazza, che stava finendo il suo turno, si alzò da
dietro il tavolo e indicò l’anziano signore che veniva portato via dai suoi
amici. John lanciò un’occhiata a Paul e gli fece l’occhiolino: aveva il via
libera e la copertura per rimorchiare un po’ senza dover badare al nonno.
«Finito il turno?» chiese il bassista.
«Sì, adesso me ne torno a casa...» rispose lei, avviandosi
verso i camerini dei dipendenti.
«Ma... non ti lasci offrire neanche qualcosa da bere?» tentò
lui.
«No.» replicò, chiudendosi la porta alle spalle. L’uomo
stava per perdere ogni speranza, quando la ragazza tornò indietro e aggiunse
«Al massimo puoi venire da me e ti offro qualcosa da bere io, visto che sono
stata scorbutica con te!»
Per la strada i due parlarono del più e del meno, del lavoro
di lei, del perché i Fab fossero in città, del tempo, dell’ecosistema protetto
nella bocca di George, di quanto fosse romantica la luna. La casa di Kate era
leggermente fuori città: si trattava di un bilocale arredato in modo spartano e
Paul subito si meravigliò che una ragazza tanto graziosa dovesse abitare in una
sottospecie di tugurio. Quella bruttura fu subito spazzata via dall’immagine
della ragazza che si scioglieva i capelli e si liberava della giacca per
lanciarla, insieme alla borsetta, su una sedia della cucina. I suo capelli ondeggiarono
in un movimento così sensuale che il bassista si sentì morire.
«Accomodati pure» lo esortò lei, mentre prendeva un paio di
bicchieri da una mensola scassata. L’uomo cercò di sembrare il meno impacciato
possibile: tutto quel nervosismo non era da lui. La ragazza riempì i bicchieri,
li afferrò e si diresse nell’altra stanza, proprio mentre lui si stava sedendo.
Paul prontamente si alzò e scattò al suo seguito.
Si guardava intorno con circospetto, terrorizzato all’idea
che qualche strana creatura che albergava in quella dimora potesse
nasconderglisi del colletto della camicia... si parlava di insetti, insetti di
ogni tipo.
«Lo so che non è il massimo, ma non navighiamo tutti
nell’oro come voi!» commentò Kate, preoccupata dagli sguardi che l’uomo si
lanciava intorno.
«Stavo solo pensando a quando i tempi non erano facili
neanche per noi...» replicò lui, arrampicandosi sugli specchi. «Non nasciamo
tutti ricchi...»
Kate annuì, trangugiò una sorsata di liquore e si tolse le
scarpe per gettarsi a corpo libero sul letto. Invitò l’uomo a raggiungerla non
tanto per malizia quanto perché non c’erano molti altri posti in cui
accomodarsi, in quella casa. La ragazza continuava a fissare il soffitto,
mentre Paul era terrorizzato all’idea di notare qualche ragno che si calava giù
per il lampadario, sempre che quella lampadina che si calava per un filo
potesse essere chiamata lampadario. Kate lo guardò ancora una volta: quella sua
paranoia lo divertiva da morire.
«Mi sembra che tu sia un po’ teso...» commentò, mentre lui
si voltava lentamente verso di lei per posarle un bacio sulle labbra. Avventurò
le dita tra i bottoni che chiudevano la camicia e sussurrò, prima di baciarla
di nuovo:
«Aiutami ad allentare la tensione, allora...»