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Autore: Amy Tennant    21/01/2013    7 recensioni
John Smith e Rose Tyler sono insieme e un altro Tardis sta crescendo nel mondo parallelo, nei laboratori di Torchwood. John però sente che qualcosa sta cambiando ed è qualcosa di cui neanche il Dottore era pienamente consapevole.
Una fine può essere l'inizio di qualcosa di totalmente inaspettato.
Anche per Rose.
Genere: Avventura, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Si chiese perché ci fosse così poca sorveglianza. La cosa lo innervosiva. Aveva però visto spesso delle cose abbastanza paradossali per convincersi che anche in quel mondo, durante quelle feste, potevano esserci stranezze e colpi di fortuna. A Natale aveva sempre avuto i migliori. Però era anche vero che qualunque disastro sembrava tendesse pericolosamente a ripetersi proprio durante quel periodo.
Si rendeva conto che era come ragionare sul niente, ma lo teneva più tranquillo.
Si era accorto che il suo nervosismo istintivo diventava più sopportabile nel momento in cui si applicava razionalmente sulla qualunque. Più la riflessione era complessa, più il senso di allarme diminuiva. Ma i muscoli tremavano.
Non era per il farmaco, stava bene. Era proprio quel qualcosa che sentiva dentro e al quale cercava di opporre resistenza mentale, visto che non riusciva a fare lo stesso fisicamente. A fatica riusciva a dominare quel qualcosa che somigliava terribilmente…
All’odio e alla paura insieme.
Tutto ne era impregnato. Non si trattava di quel che avveniva nel presente, non solo. Erano echi mentali così forti da aver inzuppato i muri di quell’edificio.
Con orrore pensò che quella torre di vetro, cemento e metallo stava urlando.
Sempre più forte. Prima o poi qualcuno avrebbe potuto sentirla ma…
Quella vibrazione, quel rumore continuo e sordo, sembrava coprire e inghiottire tutto.
Qualunque cosa producesse quel suono doveva essere enorme e trovarsi decisamente in basso, rispetto agli altri piani. Ma in quel momento John stava seguendo le grida, le grida presenti confuse e attutite, non quelle attaccate ai muri. Era riuscito a concentrarsi oltre i riverberi passati e ora poteva sentire qualcosa di indistinto. Ma vivo. Ancora combattivo, rabbioso anche se sofferente.
Trovò una scala laterale al piano, la percorse stando attento ai rumori ma impaziente di arrivare. Avrebbe corso ma non poteva o non sarebbe neanche riuscito a seguire quella traccia mentale che cercava di tenere stretta dentro di sé con difficoltà.
Conosceva la pianta dell’edificio ma fino ad un certo punto. Sapeva però che quei settori non risultavano esistere. Non si meravigliò della cosa. Che il Torchwood nascondesse interi piani era la prassi anche nell’altro universo.
I corridoi erano sempre più scuri e si sorprese a chiedersi perché il concetto di “sinistro” si accompagnasse umanamente all’oscurità in senso fisico. Forse aveva a che fare con il desiderio di non vedere del tutto, di vedere le cose sfumare in altro. In effetti non era fondamentale come considerazione, soprattutto in quel momento, ma si trattava di un altro pensiero che gli stava dando un po’ di sollievo, visto il crescente senso di disagio.
E il senso di disagio era certamente acuito da quella situazione assurda che si trascinava dalla prima rampa di scale. Era decisamente meglio smettere di ignorarla.
Si voltò dietro di sé, puntò il cacciavite e sonicizzò il vuoto apparente nel corridoio. Due scintille bluastre squarciarono l’ombra.
Sentì mescolarsi imprecazioni e ordini, tutti in una volta.
Davanti a lui si materializzarono cinque persone in tuta scura, elmetto e corazze. Erano armati di fucile.
Ne ebbe subito cinque puntati addosso.
John si mise dritto davanti a loro sollevano il capo e guardandoli dall’alto in basso con espressione più seccata che intimorita.
Quando uno di loro fece per avvicinarsi ulteriormente, John usò il cacciavite sul suo fucile e questo si bloccò di colpo e i comandi iniziarono a lampeggiare.
-          Ma cosa…?
-          Ti consiglio di buttarlo a terra… - disse con un sorrisetto quasi divertito. Il ragazzo non fece in tempo. Una dolorosa scossa glielo fece cadere dalle mani. Tenendosi dolorante quella che lo impugnava, gli rivolse uno sguardo stupito e rabbioso. Un altro guardava il fucile a distanza.
-          Che cosa hai fatto con quel coso?
-          È un cacciavite.
-          Cosa?
-          Un cacciavite. È molto utile e non fa male come una pistola. Avete qualche altro gingillo nascosto nei pantaloni? Ci  manca solo che mi rivolgiate contro un phon per capelli…  – aggiunse ironicamente.
-          Siamo ben equipaggiati.
-          Bah! – fece una smorfia poco convinta – vecchie coperture standard, fucili obsoleti…  – mormorò squadrandoli, quasi più interessato alla loro dotazione che alla loro presenza – pessimo. Davvero pessimo – disse quasi fra sé scuotendo il capo.
-          Cosa ne sai tu di armi?
-          Decisamente più di quel che vorrei. Ora togliamoci di qui o ci vedranno. Tutti – si guardò intorno poi puntò il cacciavite verso una porta di ferro più pesante che si aprì di scatto. Si diresse dentro la stanza e il gruppo dietro di lui.
Entrati dentro videro che si trattava di una sorta di lavanderia. Almeno sembrava quello, vista la grandissima quantità di camici e tute, appesi a vari ganci e avvolti in cellophane semitrasparente. John si guardò intorno impensierito. Il gruppo con lui addirittura disorientato.
Sembrava quasi che sulle loro teste fossero appesi dei corpi. Migliaia di corpi avvolti in sudari in plastica.
Una grande quantità di bidoni era accatastata vicino ad un macchinario.
Uno di loro fece per avvicinarsi.
-          Non farlo! – disse John – credo si tratti di quel che usano per le tute. E non si tratta di sapone – il ragazzo si ritrasse indeciso guardandolo diffidente.
-          Cosa sono? – chiese un altro.
-          Macchinari per la decontaminazione e distruzione delle coperture da laboratorio – mormorò turbato dalla grande quantità di materiale nella stanza. Era enorme e piena – alcune non sono recuperabili e non possono essere semplicemente buttate quindi le portano qui e le eliminano-  fu tentato di mettere la mano in uno dei secchi dove vedeva un mucchio di guanti viscidi e ricoperti di materiale maleodorante ma ricordò che ora poteva contaminarsi più facilmente.
Conosceva l’odore del sangue non umano, purtroppo. Ne era tutto impregnato. La sensazione di disagio era forte ma controllabile. Cercò un pensiero razionale che gli desse sollievo ma si accorse che istintivamente pensava invece a Rose. Sorrise appena.
-          Lakil! – John si voltò verso la voce che aveva avuto un tono preoccupato. Un componente del gruppo che lo aveva seguito aveva portato le mani alla testa con espressione sofferente. Una compagna gli si era avvicinata per sostenerlo ma lui l’aveva allontanata con un cenno.
-          Non è niente, è passato  – si era già messo dritto ma con un certo sforzo. John lo fissò un lungo momento.
E poi si accorse che di fatto lo circondavano di nuovo, tenendolo sotto tiro.
Sicuramente si trattava di un gruppo improvvisato, non con una vera dotazione. Si era subito accorto di poter facilmente disattivare gran parte delle loro armi ma non era il caso di lasciarli lì privi di copertura. Lo pensò anche se praticamente gli puntavano tutto addosso.
-          Sono in arresto? – chiese ironicamente – non so neanche chi siete.
-          Da quando ti sei accorto di noi?
-          Il vostro dispositivo di occultamento interferisce con il mio. Ed decisamente pessimo anche quello – aggiunse con un sospiro annoiato – inoltre uno di voi ha il passo davvero molto pesante. Contro gli elefanti non ci sono ammortizzatori che tengano, neanche di questo tipo – indicò gli stivali che avevano ai piedi mentre il più robusto di loro assottigliò lo sguardo rivolgendogli un’occhiata che prometteva decisamente altro. Ma non era il momento.
-          Devi sentirci piuttosto bene – disse una delle ragazze – non è facile distinguere i passi occultati da un rumore di fondo.
-          Per me lo è – concluse John.
Fissò meglio il gruppo davanti a sé. Tre uomini, due donne. Uno di loro evidentemente alieno. Era il ragazzo che aveva avuto un mancamento. Lo guardò fisso. Non conosceva la sua specie.
-          Smettila di guardarmi come fossi una cavia, Dottore – mormorò con voce tagliente.
Era giovane, lo sentiva chiaramente. Giovane, irruento e sofferente. A prima vista poteva sembrare umano ma gli occhi erano di un blu cobalto innaturale. Visto l’elmetto che indossava, apparentemente era l’unica cosa che lo rendesse differente dagli altri.
-          Mi conoscete, dunque.
-          E chi non conosce il Dottore? Un alieno che è diventato umano… !  - l’ultima parola fu pronunciata con un disprezzo impressionante. Non era però quello che lo toccava di più in quel momento. John chiuse gli occhi una frazione di secondo ma troppo lunga per la ragazza che lo stava fissando.
-          Che cosa c’è? – gli chiese perplessa.
-          Pensavo che purtroppo non sono umano abbastanza o troppo umano, ancora non l’ho capito – disse piano.
-          Cioè?
-          Oh, nulla  – disse con un sorriso quasi svagato  – ora… signori, mi dispiace di non avere altro tempo da dedicarvi ma devo… tornare alla mia ricerca. Mi spiace ma… non posso indicarvi l’uscita, non so dove ci troviamo…  – li vide guardarsi in faccia spiazzati.
-          Pensi davvero di potertene andare così?
-          Ne sono sicuro – il tono di voce e i suoi occhi fecero rabbrividire anche chi gli puntava l’arma addosso. Si guardarono perplessi e turbati. Lui invece, guardò loro preoccupato. Erano un gruppo di ragazzini mal equipaggiati e addestrati ancora peggio. Non poteva lasciarli a quel modo  – perché voi siete qui?
-          Facciamo noi le domande!
-          Va bene – incrociò le braccia, le labbra piegate dalla perplessità estrema -  sembrate la banda Bassotti allo sbaraglio.
-          Cosa??
-          Andiamo! La banda…  - si interruppe  - ah, lasciate stare! – mormorò scuotendo il capo seccato – qui avete Jeff Duck!
-          Cosa stai farneticando?
-          L’umorismo aiuta nelle circostanze più difficili e credetemi, siete oggettivamente nei guai.
-          Tu no?
-          Io lo sono sempre e mi piace  – disse con un sorriso che li lasciò inquietati –ma siete voi che fate le domande, giusto! Beh, prima che mi faceste perdere tempo con il vostro inseguimento improvvisato, stavo cercando di raggiungere delle celle di detenzione. Credo che in questo posto vi siano delle vere e proprie prigioni, prigioni con dentro delle persone che vengono torturate, temo. Io devo trovarle – il gruppo si scambiò delle occhiate d’intesa – devo dedurre che siate qui per lo stesso motivo? – l’alieno lo fissava più nervoso degli altri. Gli tremavano appena le mani. Gli occhi blu erano venati di rosso. Si chiese se per caso non fosse come per un umano avere gli occhi lucidi di rabbia - senti molto dolore? – gli chiese. Il giovane si irrigidì stupito dal tono gentilmente sincero e lo guardò più intensamente. Sentì che lo aveva toccato, dentro.
Gli occhi scuri del signore del tempo incrociarono quelli di un essere sconosciuto, molto potente telepaticamente, più di lui.
Si rivolsero un’occhiata silenziosa, lunghissima.
-          Sei molto… vecchio – mormorò l’alieno e gli altri guardarono John perplessi.
-          E tu molto, molto giovane  – lo vide abbassare lo sguardo. John continuava a fissarlo impensierito.
-          Ha detto la verità – disse rivolto ai compagni.
-          Sicuro? – alieno annuì.
-          Le sto cercando anch’io, ve lo ripeto.
-          E noi siamo qui per una missione di salvataggio, diretti proprio dove dici – John li guardò con gli occhi spalancati.
-          Cooosa…? Salvataggio? Hanno mandato voi per…? – si portò le mani alla testa e si scompigliò i capelli scuotendo il capo incredulo con gli occhi rivolti al soffitto – non posso crederci, non posso crederci! Una missione di salvataggio costituita da cinque persone e un equipaggiamento plausibile solo in un film d’azione con Sylvester Stallone…! - li fissò indeciso – lui è un attore anche qui, giusto?
-          Ovviamente… ma che…?
-          Certe tragedie devono ripetersi come punti fissi – mormorò sconfortato. Lo guardavano tutti e cinque con espressione quasi traumatizzata – che c’è?
-          Parli sempre così e così tanto?
-          Solo quando sono nervoso. E sono sempre nervoso.
-          Allora calmati.
-          Non è facile con quello che sento! – sbottò improvvisamente.
Era troppo eccitato, troppo agitato. Era qualcosa che lo stava stressando, che gli tendeva i sensi e l’anima. Tremava di più, sempre di più. E lo odiava profondamente.
La cercò, allora. La cercò d’istinto oltre l’utile matematica. E trovò le sue dita strette nelle sue.
Rose. Come fosse lì.
… Restagli vicino…
Un singhiozzo di pianto. Si irrigidì.
Che cosa significava?
La voce di Donna nei suoi pensieri. Non un ricordo, non qualcosa di accaduto. Un singhiozzo di pianto vicinissimo. John schiuse le labbra stupito.
-          Li senti pure tu, non è vero? – il giovane alieno lo guardò con comprensione – li senti anche se sei umano – non era quello che aveva sentito, era altro. Altro che non capiva.
Gli occhi profondamente scuri di John erano lucidi, strani. Fu l’alieno a chiedersi come potessero credere fosse umano un uomo con quegli occhi.
-          Dottore, lei cercava la strada ma noi sappiamo dove andare.
-          Perché vi guida lui che ne è fuggito, certo – disse. L’alieno aveva abbassato l’arma puntata su di lui e i suoi compagni lo avevano imitato scambiandosi un cenno di assenso – quando è successo?
-          Cinque mesi fa, Dottore. Davvero lei non sa nulla? – John scosse il capo.
-          Se mi conoscete, sapete che cosa sto cercando di fare.
-          Costruire il T.A.R.D.I.S. la mostruosa nave spaziale più pericolosa di tutti i tempi ! – la ragazza che aveva pronunciato quelle parole l’aveva fatto con disprezzo e John le rivolse uno sguardo profondamente risentito.
-          Prima di tutto puoi chiamarlo semplicementeTardis, senza scandire le lettere – osservò – e poi non si costruisce ma sialleva…
-          Stiamo parlando di una macchina o di un animale?
-          Che stupidi! – mormorò alterato – il Tardis è un essere potente che esiste oltre i tempi e lo spazio e voi, voi pensate che …!  - lo fermò il dolore. Comprese subito.
Se non manteneva la calma lo avrebbe raggiunto. Emise un lungo respiro.
… Una forma energetica metasolida, sviluppata principalmente in dodici dimensioni, può essere divisa in entità regolari dalle quali ricavare variazioni fisico-modulari ad incastro multiplo, compatibili variabilmente con le alterazioni dei vari piani causate da un’ingerenza fisica temporale a più livelli …
Il dolore si calmò.  Cercare anche solo di pensare a come il Tardis potesse assumere una forma e un volume variabile in quell’universo, o in altri, lo aveva messo al riparo da quell’orrenda marea di impressioni.
-          Voi non capite – riprese con voce più ferma - non si tratta di una mostruosità è esattamente l’opposto. Ed è parte di me – aggiunse più piano.
-          Qualunque cosa sia è pericolosa.
-          Tutto è potenzialmente pericoloso, soprattutto le migliori intenzioni – John lo disse con tono lugubre. Guardò il ragazzo alieno. Era evidentemente in difficoltà anche lui e lo percepiva. La sua presenza amplificava la scia telepatica che sentiva – da quale pianeta provieni? – gli chiese. Lui abbassò lo sguardo. I suoi occhi erano sempre più blu.
-          Il mio pianeta è conosciuto come Sancter – John lo guardò stupito. Conosceva un luogo chiamato Sancter anticamente, per tutti Stx02 del sistema Agak. Era una landa desolata da molto prima che lui nascesse. Ma nell’altrove che conosceva. Il popolo che lo abitava prima del disastro ambientale che lo aveva ridotto ad un ammasso di rocce desertiche, sul quale restavano rovine interessanti solo per gli archeologi, si era sparso in altre colonie dell’universo e quindi perduto del tutto. Tante le storie al proposito e tutte diverse. Pensava che le differenze tra universi fossero spiccate ma non fino a quel punto. Quello andava al di là di ciò che chiunque avrebbe teorizzato al proposito. La cosa era eccitante. Nuovi mondi, passati presenti e presenti diversi. Viaggiare tra quelle stelle sarebbe stata un’avventura strepitosa. Era terribilmente eccitante e John sorrise – che cosa la diverte, Dottore?
-          I paradossi dei mondi, Lakil – lui lo guardò perplesso ma non era necessario sapesse che altrove non esistevano da talmente tanto da essere diventati quasi la misura del tempo perduto – come siete giunti sulla Terra?
-          Le crepe tra gli universi. Ad un certo punto ha iniziato ad accadere – la vibrazione.
Pianissimo, dentro. Ma c’era. John fece un lungo respiro. Il presentimento. E il dolore di nuovo bussava nel suo petto.
Rose… stringimi forte, sto cadendo…
La sua voce, la sua stessa voce nella testa ma come un pensiero non suo.
Perché quelle parole? Ne rimase turbato.
-          Quando si sono aperte le crepe negli universi è iniziato ad accadere. Nei cieli della Terra hanno iniziato a materializzarsi strani oggetti. Qualcuno precipitava, altri atterravano. Parecchi restavano sospesi in orbita.
-          Navi spaziali…
-          Navi civili, mercantili…
-          Navi da guerra – aggiunse piano tra i denti. Il materiale isolante proveniva sicuramente da lì. Dovevano aver smontato praticamente tutto ma a ritmi velocissimi e non potevano aver fatto tutto da soli. Le carcasse dove venivano nascoste?
Sicuramente i contatti del Torchwood con gli istituti di difesa nazionale con il medesimo ruolo in altri paesi, dovevano essere continuativi e costanti. Scambio di favori, condivisione della tecnologia ricavata da quella aliena.
Materiale, materiale prezioso.
… Se è alieno è nostro…
Il motto del Torchwood del suo universo.
Erano dei principianti rispetto al corrispettivo parallelo.
-          Tecnologia, tecnologia aliena da esaminare e replicare – mormorò stravolto.
-          Le armi sono state migliorate, potenziate per la difesa. Sono state create armature da battaglia, l’esercito vanta la migliore dotazione al mondo e parecchie risorse sono ancora segrete – il senso di disagio stava nuovamente aumentando e così il tremore. I suoi nervi stavano cedendo, il suo cuore batteva troppo in fretta. Cercò un altro pensiero complesso sul quale concentrarsi ma intanto sprofondò le mani tremanti nel cappotto.
-          Ma nessuna di queste navi cercò di difendersi, cercò… un contatto? – chiese.
-          A causa dei precedenti contatti alieni, il Governo aveva disposto la costruzione di un’arma che fosse utilizzata in caso di offensiva esterna, così dicevano. In realtà…
-          Preferirono l’attacco preventivo, Dottore – disse una delle ragazze. John impallidì – non ne parlò nessuno. Si seppe poco. Non bisogna parlare di alieni, mai. Il Torchwood veglia sul mondo intero.
-          È molto peggio di quanto potessi immaginare – gemette piano John.
Potevano non essere le uniche prigioni. Potevano non essere i soli luoghi nei quali alcuni si spingevano ben oltre i limiti che un umano dovrebbe avere per ritenersi tale fino in fondo. Un uomo, a prescindere dal luogo di nascita o dal suo status biologico. Ma se l’attaccare poteva essere condiviso dalla paura, se lo sfruttamento tecnologico diventava persino ovvio, non era affatto sicuro che torturare e uccidere fosse contemplata come una possibilità accettabile dall’ufficiale struttura governativa.
Poteva darsi che quel limite fosse stato oltrepassato in quel senso solo da pochi e di nascosto.
Poteva sperare fosse così.
-          Non abbiamo tempo, ne abbiamo già perso troppo – disse preoccupato guardando i ragazzi davanti a lui – visto che ormai abbiamo capito di essere dalla stessa parte, vi suggerirei di fidarvi di me.
-          Lei sta costruendo quella nave, Dottore!
-          Quella è la mia nave e vi assicuro che non sarà mai di nessun altro, non è una nave da guerra, non lo è mai stata e non lo sarà mai – lo disse con tono sicuro, guardando ciascuno di loro dritto negli occhi – fidatevi di me – ripeté. Sembravano indecisi e spaventati. Il ragazzo alieno però lo guardava diversamente dagli altri. John gli si avvicinò e mise una mano sulla spalla e lui lo guardò stupito. Ora che lo toccava lo sentiva tremare. E lui poteva sentire lo stesso attraverso la sua mano. Questo li tranquillizzò entrambi di istinto.
-          Loro non lo sanno, vero?  - l’alieno lo fissò un lungo momento e poi scosse il capo.
-          Cosa non sappiamo? – John fece un lungo sospiro e poi gli rivolse un sorriso triste.
-          Una bella squadra davvero. Quattro ragazzi. Quattro ragazzi e un… bambino – si guardarono l’un l’altro smarriti.
-          Dottore, cosa sta dicendo?
-          Il vostro amico è solo un bambino.
-          Che cosa…? – la ragazza accanto a lui lo guardò con gli occhi sgranati, l’espressione stupita e inorridita insieme.
-          È un bambino molto spaventato e proprio per questo molto coraggioso. Ma pur sempre un bambino, per la sua specie – lo guardò tristemente.
-          Come lo hai capito? – gli chiese con un filo di voce. Lui sorrise appena.
-          Sono molto molto vecchio. E conosco delle storie su di voi. Storie bellissime – il ragazzo mise la mano su quella che gli teneva sulla spalla. John sentì forte in lui, il conforto di aver trovato un adulto, qualcuno che lo proteggesse. Nessuno era meno adatto a combattere ma pochi così coraggiosi da provarci. Era tornato per qualcuno, lo  percepiva.
E percepiva che non gli avevano detto tutta la verità. 
  
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