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Autore: Justawallflower_    23/01/2013    1 recensioni
Alex. Jake. Una migliore amica inaspettata e..LUI.
Genere: Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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3. NEVER


Mary mi guida su per una rampa di scale e poi lungo un corridoio illuminato dalle pareti  gialline, gli occhi ancora lucidi, le mani tremanti e il cuore pesante. Apre una porta in noce e poggia una delle mie valigie blu sul pavimento in parquet incerato di recente.
Mi guardo intorno, studiando ogni dettaglio della stanza che diventerà mia. Le pareti verde smeraldo le danno un aspetto fresco, contrastato dalla debole luce solare che, nonostante l’orario, la inonda e la riscalda ancora, penetrando da una porta-finestra posta sul muro di fronte all’ingresso. Il letto da una piazza e mezzo, avvolto da un copriletto lilla dall’aspetto morbido e caldo con federe abbinate,  è posto quasi al centro della stanza, con la testiera appoggiata alla parete; un comodino alla sua destra e un tappeto peloso verdolino gli tengono compagnia. Davanti al letto, nella parete sinistra, affianco a una porta,  c’è un armadio  dalle dimensioni modeste, più che sufficiente per il mio scarso guardaroba. E infine, sistemate nella parete della porta-finestra,  una scrivania e una libreria vuote, ma ancora per poco.
Poggio le ultime valigie e comincio a svuotarle, con forzata disinvoltura. Mia sorella, devo ancora abituarmi a questo termine, sta appoggiata allo stipite della porta e con sguardo curioso osserva ogni mio movimento, ogni singola emozione che modifica l’espressione del mio volto, dallo smarrimento iniziale allo stupore, cercando, probabilmente, di indovinare i miei pensieri.
“Non è necessario che tu stia lì sulla porta” ammicco
“Come?” sussurra lei con un punto interrogativo sul viso.
Talmente assorta nei suoi pensieri  e nelle sue riflessioni, non si è resa conto che la sto studiando a mia volta.
“Dico che se vuoi entrare non hai bisogno della mia autorizzazione” le ripeto.
Con passi incerti avanza dentro la stanza.
Si accomoda sul tappeto ai piedi del letto, le braccia le circondano le gambe e il mento sprofondato tra le ginocchia.
“E’ stato difficile?” chiede con tono malfermo, gli occhi a scrutare la punta delle scarpe, come se si stesse rivolgendo a loro, o come se stesse chiedendo loro del coraggio per continuare, ma siccome non lo fa allora intervengo io
“Cosa?”
“Questo. Separarti dalla mamma, lasciare le amiche e tutto il testo” prosegue con le guance in fiamme. Il suo sguardo timido ora mi fissa aspettando una risposta.
“Me lo stai chiedendo davvero?” rispondo. Il mio tono, più sgarbato di quanto volessi, la fa sussultare e richiudere in se stessa creando un muro invisibile tra di noi. Il senso di colpa mi invade. Stava solo cercando di cominciare una conversazione, per conoscermi meglio, per starmi vicina in una situazione in cui, a giudicare dal suo comportamento disorientato, non sa neanche lei come affrontare.
“Scusa, non volevo essere sgarbata. Quando sono stanca non riesco a controllarmi e divento più insopportabile del solito” cerco di attraversare quella spessa barriera invisibile ma percettibile. Mary rimane immobile, passiva, fissando il vuoto con un’espressione di malinconia e mortificazione insieme.
“Mi aiuti a disfare i bagagli?” propongo, tentando nuovamente, e questa volta con successo, di allentare l’atmosfera.
Le labbra contratte di Mary si rilassano, per poi stendersi in un magnifico sorriso che illumina l’intera stanza e mi inonda il cuore, colmando alcune delle tante crepe che lo dividono in piccoli frammenti.
Cominciamo a svuotare le valigie, riponendo in maniera ordinata l’abbigliamento dentro l’armadio: le camicie e diverse magliette complicate da piegare appese nelle grucce; l’intimo, i pantaloni e il resto delle magliette, felpe e maglioncini collocati nei cassetti; il pigiama sotto il cuscino.
Apro lo scatolone contenente tutti i soprammobili, libri e album fotografici che non ho avuto il coraggio di abbandonare, e, piano piano, tiro fuori tutto, soffermandomi ad osservare le foto che mi capitano sotto mano. Fotografie che ritraggono me il giorno del primo compleanno, il primo giorno di scuola, io e la mamma mentre addobbiamo l’albero di Natale, io con addosso la divisa bianca e blu della squadra di basket del paese con una palla tra le mani, io e la mamma il giorno del mio diciassettesimo compleanno. Le esamino tutte, una per una, e ognuna mi riporta alla memoria episodi della mia vita, situazioni brutte e situazioni belle, gioia e tristezza.
Sistemo sul comodino affianco al letto il portafoto in argento che fa da cornice alla foto in cui io e la mamma ci abbracciamo sorridenti come non mai dietro una piccola torta interamente ricoperta di panna e con una candelina accesa a forma di 17 posta sopra. Ricordo perfettamente quel giorno, la mamma era più emozionata di me. La mattina era venuta a svegliarmi con la colazione a letto, aveva preparato i pancake ricoperti di nutella come piacciono a me, e poi mi aveva fatto scartare un pacchetto rosso contenente un braccialetto di perle
“Questo me lo regalò la nonna il giorno del matrimonio augurandomi tanta felicità. Il suo desiderio è stato esaudito, perché tu, tesoro sei la mia felicità. Però ora voglio che lo prenda tu. Perché possa aiutare te, come ha aiutato me, a trovare la felicità.” Disse, gli occhi due stelle lucenti nel bel mezzo dello spazio vuoto e freddo. Una piccola scatola in pelle con la bordatura argentata, che all’apparenza poteva apparire inutile e priva di valore, al suo interno custodiva un tesoro prezioso. Un tesoro che avrei custodito con cura: l’amore di mia madre.
L’espressione triste e nostalgica dipintasi sul mio viso, spinge Mary ad avvicinarsi, e a poggiarmi una mano sulla spalla, per consolarmi, fin dove la sua timidezza le permette.
Il bagno, nascosto dietro la porta che affianca l’armadio, è una grande stanza quadrata con le pareti ricoperte la tante mattonelle di diverse dimensioni, ognuna con una diversa sfumatura di azzurro. A destra, appoggiate al muro, una vasca da bagno e, poco più in fondo, una doccia con box dai vetri opachi. A sinistra, invece, campeggiano un lavandino, un grande specchio dalle forme morbide, un mobiletto bianco lucente, e, naturalmente, i servizi igienici. Nella parete opposta all’entrata, è posta un’altra porta.
“Condividiamo in bagno” mi spiega Mary con un sorriso un po’ imbarazzato.
Torniamo in camera cercando di trovare qualcosa da dire per colmare quell’imbarazzante silenzio appena calato tra di noi.
“Ragazze, sono io, posso entrare?” chiede Ben bussando alla porta e salvandoci, entrambe, in corner “Avete fame? Ho preparato la cena”
Lo seguiamo in cucina, una stanza allegra, con le pareti arancioni e rosse, ci sediamo nella tavola già apparecchiata.
“Alex domani vado ad iscriverti a scuola così potrai frequentare già da subito” dice mio padre versando la pasta nei piatti.
“Perfetto” rispondo facendomi inondare la faccia dal vapore caldo del cibo che mi inumidisce il viso“Ah Mary, a scuola c’è una squadra di basket?” proseguo con la bocca piena
“Si però è una squadra maschile. Ora che ci penso non ce n’è mai stata una femminile..”
“E qui nel quartiere? Non c’è nessuna squadra? Sai ho dovuto abbandonare la mia perché mi sono trasferita qui e mi piacerebbe riprendere a giocare..”
“Tu non giocherai a basket.” S’intromette Ben con tono deciso.
“Come prego?” chiedo con la voce più alta di un’ottava
“Tu non giocherai a basket” ripete lui, le parole scandite lentamente per sottolineare il significato e l’incontestabilità di quella decisione.
“Cosa vuol dire che non posso giocare a basket? Non ti è bastato strapparmi dalla mia vita? Ora vuoi anche privarmi delle mie passioni?” ribatto, un briciolo d’indignazione nella voce.
“Assolutamente no. Ma io non ti permetterò di giocare a basket. Ci sono tanti altri sport che potresti praticare. Prendi tua sorella per esempio, lei gioca a pallavolo e le piace molto, perché non provi anche tu? Magari scopri che ti soddisfa anche più del basket, e magari ci sei anche più portata..”
“Papà, lasciaglielo fare” il sussurro di Mary suona come una supplica.
“Ho detto di no. E finché vivrai sotto questo tetto seguirai le mie regole, che ti piaccia o no.” Conclude con un tono che non ammette controversie.
Abbasso lo sguardo decisa a far morire lì la conversazione e ingoiare la rabbia che stava già invadendo la mia bocca, per non peggiorare ulteriormente una situazione già abbastanza burrascosa. Ma quando i miei occhi si chiudono nel tentativo di ritrovare la pace interiore, mi torna in mente la sensazione del pallone ruvido e duro tra le mani, del rimbombo delle scarpe da ginnastica sul pavimento in parquet, la felicità di riuscire a segnare un punto al canestro,  torno alla carica decisa a difendere la mia posizione mandando a quel paese la pace e i buoni propositi.
“Onestamente non me ne sbatte niente di te e delle tue regole, pensi davvero che riuscirai a impedirmi di giocare?” sibilo tra i denti, con una nuova scarica di adrenalina che mi percorre la schiena e facendomi prudere le dita.
“Sono tuo padre, non ti permettere di rivolgerti a me in questo modo!” tuona lui, passando da un’espressione sorpresa per la mia sfacciata risposta a una più dura e autorevole
“Tu? Tu te ne sei sempre fregato, di me e della mamma, ci hai abbandonate perché hai avuto paura di soffrire, perché sei un codardo! Non ti sei fatto ne vedere ne sentire, mai! Quindi non hai nessun diritto di dirmi quello che posso o non posso fare.” Gli urlo contro con voce isterica “Io ho passato 17 anni sola con la mamma immaginandoti come un supereroe, e invece sei solo uno che scappa davanti a un po’ di sofferenza” continuo rigirando il coltello nella piaga “Dov’eri quando avevo bisogno di te? Quando cadevo e mi sbucciavo le ginocchia, quando prendevo brutti voti a scuola, o quando ho avuto la mia prima cotta!? Sai quanto avrei voluto un papà che facesse il geloso? O quando ho avuto la mia prima delusione d’amore” sussurro ricordando tutte le lacrime che piansi quel giorno tra le braccia della mamma “Avrei voluto che tu fossi stato lì per abbracciarmi, per poterti dire che non importava quanti ragazzi mi avrebbero tolto il respiro, tu saresti rimasto sempre il mio unico principe azzurro. Ma tu naturalmente tutte queste cose non le sai perché non c’eri.” Sputo parole piene di veleno. Ho fatto centro, ho colpito una ferita ancora aperta che ora, a causa mia, brucia più del solito. Lo guardo negli occhi sostenendo il suo sguardo triste e deluso. Mi alzo facendo strisciare la sedia sul parquet interrompendo un improvviso silenzio
“Il fatto che io abbia metà dei tuoi geni non fa di te il mio papà. Sarai anche mio padre, ma mettitelo bene in testa, non sarai maiil mio papà!” sibilo tra i denti calcando la parola mai.
Esco dalla cucina con passo svelto dirigendomi in camera. Frugo sotto il cuscino tirando fuori il pigiama rosso e grigio e lo indosso. Mi infilo sotto le coperte fresche, il cui contatto con la pelle nuda delle gambe e delle braccia mi fa rabbrividire. Spengo la luce e chiudo gli occhi. Il respiro pesante, l’adrenalina ancora in circolo, il sapore amaro dei residui di veleno nella mia bocca, il forte bisogno di una persona amica con cui parlare. Avvolta dal buio, tormentata da questi pensieri, perdo gradatamente consapevolezza della realtà e scivolo nel sonno.
 


HEEEEEEEEY SEXY LADIEEES!! 
Bene, questo è il terzo capitolo, non è molto ma speriamo vi piaccia :')
Ringraziamo tutte quelle che hanno letto gli altri due capitoli anche se nessuno ci ha lasciato una recensione. Vorremmo solo sapere se vi piace o no, se invece preferireste farvi inculare da un umpa lumpa piuttosto che leggerli o roba del genere, per qualunque cosa fatecelo sapere, ci adegueremo e magari miglioreremo :D
Bene per oggi è tutto, belle ragazze :3 
peace
love
and Justin Bieber
Baci xx 

A&C
  
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