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Autore: Federico    24/01/2013    2 recensioni
Salve! Questa è la mia prima fanfiction su "Bleach", un'AU di ambientazione storica e di genere militare.
1940; in una Londra devastata dai bombardamenti, con Hitler all'apice della sua potenza, il primo ministro inglese Winston Churchill convoca sette eroici soldati di diverse nazionalità, capeggiati dall'intrepido colonnello Isshin Kurosaki, e affida loro un incarico top secret: costituire un commando di militari d'elite, superaddestrati e forniti degli armamenti più moderni, da impiegare in pericolose missioni dietro le linee nemiche, nell'estremo tentativo di evitare che le potenze fasciste vincano la guerra.
I nostri vivranno avventure mozzafiato su tutti i fronti, dall'Africa al Pacifico, da Stalingardo alla Normandia, e vedranno in prima persona le miserie della guerra, scrivendo pagine tragiche della nostra storia: ma soprattutto, diventeranno amici e confidenti, un gruppo affiatato e scanzonato, unito nelle difficoltà e nella vittoria.
Spero che vi piaccia, e di non aver fatto i personaggi troppo OOC. In ogni caso mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate con le recensioni! Ciao a tutti!
Avvertenza: i capitoli saranno 14, e usciranno, salvo contrattempi, ogni due giorni.
Genere: Avventura, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Spazio autore
Come già annunciato, questo è il penultimo capitolo della fic, nonché l’ultimo ad avere per oggetto la guerra “guerreggiata” (il prossimo avrà tutt’altro tono). Ringrazio ancora una volta tutti coloro che mi hanno seguito fino ad ora e intendono continuare a farlo, e li invito caldamente, ora che la fine si avvicina, a lasciarmi magari un commento generale sulla fic nel suo insieme, con quello che hanno apprezzato o meno. Buona lettura, e alla prossima!
 

Sons of the Rising Sun

 
Isola di Okinawa, Impero giapponese, 19 giugno 1945
“Però, mica male come posto! Mi piacerebbe venirci in villeggiatura, se arriverò vivo alla pensione” commentò Shunsui, il cappellaccio ben calcato a riparargli la testa dal sole subtropicale ed un sorriso smagliante sulle labbra, indicando al resto del commando l’isola cui si stavano avvicinando; sin da lì si potevano intuire una rigogliosa vegetazione ed un panorama ameno e variegato, con un alternanza di boschi e alture rocciose, mentre le coste consistevano in elevatissimi e brulli strapiombi che terminavano con rocce acuminate battute dai frangenti marini.
“Io non sarei così tranquillo- osservò Byakuya con un leggero ribrezzo- a pensare che non so quanti civili si sono uccisi gettandosi da scogliere come queste. Poveracci, i Giapponesi li hanno persuasi che gli Americani erano venuti a torturare e stuprare e loro ci hanno creduto”.
“E allora? Non erano nemici anche loro?” domandò Kenpachi con molta noncuranza, suscitando più di una smorfia sdegnata, per cui Stark replicò: “No, loro non c’entravano nulla. Gli abitanti di quest’isola appartengono ad un popolo diverso, ed i Nippo non hanno fatto che sfruttarli, arruolandoli a forza, usandoli come scudi umani e rubando loro il cibo. Non c’è da stupirsi che molti abbiano preferito rifugiarsi presso le nostre truppe, nonostante fossero invasori”.
Ancora i nostri non sapevano come avessero fatto ad uscire vive dall’affare Hitler; in ogni caso Churchill, dopo una delle sue tipiche sfuriate, si era complimentato con loro e per ringraziarli aveva pensato bene di spedirli a compiere nuove missioni in Italia ed in Germania.
Alla fine, il Fuhrer era morto sul serio, ed il suo successore, l’ammiraglio Dönitz, aveva saggiamente deciso di gettare la spugna, sancendo la fine della guerra in Europa.
Era ancora fresco nella loro memoria, quell’8 maggio: erano al confine fra Baviera e Boemia, impegnati in una missione di ricognizione per aprire la via all’esercito statunitense e, quando aveva udito la notizia alla radio, Kenpachi era scoppiato a piangere, confessando agli attoniti commilitoni che non lo faceva tanto perché avevano vinto, e la Polonia era vendicata, ma perché così non avrebbe più potuto uccidere tutti i Tedeschi che voleva, cosa alla quale si era ormai assuefatto.
I combattimenti, però, erano tutt’altro che cessati, e, per quanto fieri e orgogliosi dei propri meriti, i nostri non potevano dormire sugli allori: lasciatasi alle spalle l’Europa in rovina, percorsa e occupata da eserciti e dove perniciose separazioni cominciavano già a svilupparsi fra gli Alleati, potevano concentrarsi interamente sull’Oriente, dove l’Impero giapponese, nonostante le sconfitet subite su tutti i fronti, la fame e i bombardamenti che imperversavano in patria, continuava a resistere testardo, e sacrificava la sua migliore gioventù mandandola a schiantarsi con gli arei o a difendere fino all’ultimo uomo remoti baluardi, in nome di un monarca parte dio e parte uomo.
In particolare gli USA avevano investito con ingenti forze marittime e terrestri la piccola isola di Okinawa, che avrebbe costituito un punto d’appoggio per l’invasione del Giappone vero e proprio in programma per la fine dell’anno, ma se si aspettavano una vittoria facile avevano preso un grosso abbaglio: fra stormi di kamikaze e combattimenti all’ultimo sangue nelle grotte e sulle colline, gli Americani si erano trovati di fronte alla resistenza più accanita che i Nipponici avessero mai offerto, subendo un numero di perdite spaventosamente alto, e, per quanto la conquista dell’isola fosse inevitabile per l’eccessiva disparità fra gli schieramenti, ogni metro quadrato di territorio costava letteralmente litri di sangue, perfino negli ultimissimi giorni dello scontro.
Al commando di Churchill era stato chiesto di intervenire in zona per vincere questa vivace opposizione, ed ora, a bordo di un vaporetto in servizio presso una delle portaerei che avevano
partecipato alla battaglia, si stavano dirigendo verso terra.
La prima località che visitarono fu un campo base dove soldati, marines e altre figure gravitanti nell’ambito militare si aggiravano trafelate sotto il sole cocente o trascorrevano qualche minuto a rilassarsi, in attesa di rituffarsi di nuovo nel fervore della battaglia; c’erano anche parecchi civili okinawani, per la maggior parte vestiti di stracci e dall’aspetto quanto mai misero, che vagavano mestamente fra tende e carri armati supplicando pietà a qualche animo gentile.
D’un tratto Ichigo si trovò a passare davanti a due ragazzini, presumibilmente gemelli, i piedi scalzi e la faccia sporca e smunta: avevano gli occhi pieni di lucciconi e lo fissavano senza avere il coraggio di chiedere, così fu lui ad estrarre dallo zaino una generosa porzione della sua razione a porgergliela.
Mentre i piccoli saltellavano via ridacchiando per la contentezza, il giovane si sentì una mano sulla spalla e voltandosi incrociò lo sguardo fiero comprensivo del genitore.
Frattanto, mentre gli gruppetto attendeva l’ufficiale americano che avrebbe funto da collegamento con il quartier generale ed esposto loro la questione da sbrigare, un paio di militari statunitensi, dei marines a giudicare dalla divisa, e piuttosto alticci a giudicare dal colorito rossastro delle guance, si fermarono davanti a loro e, riconosciuta l’uniforme di Stark, cominciarono a cantare con voce impastata e stonatissima: “From the halls of Montezuma/ To the shores of Tripoli (sono le prime parole dell’inno dei Marines, e si riferiscono alle battaglie da questi sostenute in Messico e in Africa nel corso del XIX secolo nda)… A casa soldatino di merda! Qui ci vuole gente con i coglioni! (Nel corso della Guerra del Pacifico fu sempre molto forte la rivalità fra i Marines, che la consideravano la “propria” guerra, e l’Esercito comandato da MacArthur, che non scherzava anch’egli quanto a manie di protagonismo; Okinawa fu una delle poche battaglie in cui le due forze armate si trovarono a combattere fianco a fianco nda)".
Uno dei due sputò sull’abito di Coyote, che fuori di sé per la rabbia, dovette essere trattenuto disperatamente da Ukitake e Renji per non scattare loro addosso come un cane inferocito, e la scena sarebbe sicuramente degenerata se una voce, dal tono squillante, ma autoritario, non avesse intimato: “A posto, voi due! E’ così che si trattano gli ospiti? Filate, o dovrò fare rapporto ai vostri superiori!”.
A parlare era stato un uomo alto e snello, i capelli biondi tagliati a caschetto ed un viso incorniciato da dei grossi denti da castoro; aveva la divisa dello US Army e, non appena lo riconobbe, Stark si precipitò a stringergli la mano: “Shinji, amico mio! Quanto tempo! Non ci vediamo dal ’37. Ti ricordi che bei tempi, a Panama?”.
L’altro vinse un momentaneo imbarazzo e ricambiò, in modo sincero ma un po’ ingessato: “Guarda un po’ qui, “Coyote” Stark! Sembra ieri che eravamo a West Point! Non dirmi che sei uno di loro!”.
“Del commando? Eccome se lo sono! Ma tu invece, cos’hai fatto per tutti questi anni?”.
“Un po’ di tutto! Ero a Bataan con MacArthur nel ’42, poi sono stato in Nuova Guinea, nelle Marshall, a Leyte … Ne ho viste di cotte e di crude, ma per fortuna sono ancora qui!”.
“Io sono stato a Vella Lavella, in Nuova Guinea, a Tarawa, ma anche in Africa, in Russia, in Normandia … E’ ancora sulla breccia il vecchio Doug (MacArthur nda)? E’ un po’ che non lo vedo!”.
“Non vorrei essere scortese, Stark … Ma avremmo del lavoro da sbrigare” intervenne pacato Isshin, e subito l’americano si scusò: “Certamente, signore, certamente. Signori, questo è il mio vecchio amico Shinji Hirako, che, a quanto vedo, è diventato maggiore. Presumo che sia lui l’ufficiale di collegamento che attendevamo”.
Il biondo si lisciò i capelli e disse: “Sì, sono proprio io. Il vostro capo sarebbe …”.
“Non mi piace per niente questo qui, mi sembra uno che si dà troppe arie” commentò sottovoce e in tono acido Renji, e a Byakuya quasi scappò un: “Senti chi parla!”.
“Molto piacere, colonnello Isshin Kurosaki del British Army. E’ un onore servire al suo fianco” disse in tono formale l’inglese, e Shinji replicò ironico: “E’ piacevole constatare come gli ufficiali di Sua Maestà non perdano mai la loro consueta educazione …”.
“ Ci sarei anch’io, signore! Colonnello Shunsui Kyoraku dell’Australian Army, per servirvi!” si introdusse l’australiano con una svolazzo del cappello, ed in breve anche gli altri si presentarono.
“Venite, ho fatto preparare delle jeep apposta per voi. Discuteremo dell’affare lungo la via£ spiegò il loro anfitrione, ed in breve si trovarono a saltellare su aspri sentieri cosparsi di crateri e carcasse di veicoli, i motori che scoppiettavano faticosamente in salita.
Shinji prese a delineare la situazione a Isshin e Shunsui, che sedevano vicino a lui: “Come saprete, ormai i combattimenti sono limitati al settore meridionale dell’isola. I Nippo si sono barricati nelle grotte, e non c’è verso di farli uscire nemmeno con le bombe. Proprio ieri il comandante della X° Armata, il tenente generale Buckner, è rimasto ucciso dalle loro cannonate! Morti e feriti ammontano ad una quantità esorbitante da entrambe le parti. In particolare, in una zona c’è una sacca di resistenza che ci sta procurando notevoli grattacapi. Saranno più o meno duecento uomini, che sono nascosti in una caverna sotterranea da dove nessuno è stato ancora capace di stanarli. E non che ci manchino i mezzi! Ogni sera, quei bastardi se ne escono per una delle loro stupide cariche banzai, e ammazzano un sacco dei nostri ragazzi, sfuggendo ogni volta che stiamo per metterli nel sacco. Sono dei figli di baldracca maledettamente astuti, e potremmo continuare a combattere fino a che Truman non verrà rieletto. Per questo abbiamo bisogno di professionisti del settore, dico bene?”.
Come a fugare ogni dubbio e a far pesare l’indubbio bagaglio della propria esperienza, il colonnello britannico si lasciò andare ad un commento quasi casuale: “Mi ricorda un po’ quella volta in quella fabbrica di Stalingrado. Rammentate, colonnello Kyoraku?”.
“Altroché se rammento! Quella volta non prendemmo neppure un prigioniero! Vediamo se i Giapponesi di qui saranno tosti come quelli in Birmania!”.
In quello stesso momento, su un’altra macchina, mentre Kenpachi continuava ad annoiare Renjio farneticando della propria maggiore avversione verso i Tedeschi che i Giapponesi, ricevendo per tutta risposte piccate e sarcastiche del russo ( e non era solo perché fra Alleati occidentali e Sovietici si aprivano già le prime crepe, perché i rapporti fra i due erano sempre stati di questo tipo), Ukitake sospirava stanco e malinconico, appoggiandosi ad Ichigo: “Finirà mai questa guerra? Ogni volta ci illudiamo che sia l’ultima, ed invece ci mandano sempre più lontano … Il mio dovere è combattere, ma ormai ho versato abbastanza sangue, e ho paura che un giorno dovrò scontarlo. Sarebbe stato meglio cadere nella mia terra che qui, all’altro capo del mondo. Non ti manca l’Inghilterra, figliolo?”.
“Moltissimo, ma so che se metto tutto me stesso nella lotta contribuirò alla vittoria e potrò tornare prima” replicò il ragazzo con convinzione, ed il francese disse: “Bravo, è questo lo spirito giusto”.
Dopo qualche ora di sobbalzi, giunsero alla meta prefissata, un po’ più a nord delle zone dove attualmente infuriavano i combattimenti: si trattava di un grande spiazzo erboso, intervallato da rocce e da un boschetto, davanti a cui si alzava una brulla collinetta, in cui si apriva un antro oscuro, i cui meandri rocciosi si snodavano nelle viscere del sottosuolo fino ad essere invisibili.
Shini scese dalla jeep, seguito a ruota dagli ospiti, e si recò verso una batteria composta da alcuni mortai, affiancati da mitragliatrici; soldati ed artiglieri, qualche centinaio, si dividevano fra chi oziava allegramente, fumando e giocando a carte, e chi montava la guardia con occhio vigile.
Il maggiore si avvicinò ad un individuo altissimo e dalla pelle scura, voltato di spalle, e lo informò dei nuovi venuti: non appena questi si voltò, i membri del commando trasalirono.
Coyote, riconoscendolo con felicità, balbettò: “Ma noi ci siamo già visti! Sì, in Tunisia!”.
Il giovane ispanico eseguì il saluto militare con deferenza: “Sergente Sado Yasutora, 7° Divisione di Fanteria, di San Juan, Porto Rico, signore! Anch’io mi ricordo di quando ci avete salvato dai Tedeschi! E’ un piacere rivedervi sani e salvi, signore!”.
“Riposo ragazzo, riposo” intervenne bonario Shunsui, che poi aggiunse: “Vedo che ti hanno promosso da allora. Cos’hai combinato di notevole nel frattempo?”.
Sado replicò in tono conciso, senza vantarsi: “Dopo l’Africa, sono stato mandato in Sicilia, e lì sono rimasto ferito piuttosto gravemente in un attacco aereo. Mi hanno rimpatriato e mi hanno anche proposto il congedo, ma io non l’ho accettato ed ho insistito per essere inviato nel Pacifico. Ho combattuto nelle Filippine, ed ora eccomi qua, solo che ora è molto, molto peggio”.
“Dove sta esattamente il problema? Ogni quanto si fanno vivi i Giapponesi?” domandò Byakuya, ed il portoricano rispose: “Ogni sera, più o meno verso le 10, escono per una carica, uccidono quanti più nemici possono, e tornano nelle grotte. Questo si ripete ormai da una settimana, nonostante ogni giorno raccogliamo nuove forze. Crediamo che le caverne abbiano un’uscita segreta da qualche parte, visto che tutto quello che abbiamo buttato nei cunicoli non  servito a nulla. D’altronde, entrare lì dentro significherebbe solo mettersi in loro potere”.
“A proposito, dov’è il carro armato? Non vi avevo detto di arrostirli col lanciafiamme, se necessario?” chiese Shinji profondamente seccato, come se fosse stata una questione personale.
Sado si limitò ad indicare prosaicamente la carcassa di un cingolato annerita e divelta che giaceva a non molta distanza, soggiungendo: “Evidentemente hanno anche un cannone”.
Gli otto del commando si radunarono un attimo per consultarsi, bisbigliando e gesticolando, quindi Isshin prese la parola a nome di tutti: “Maggiore Hirako, pensiamo di aver escogitato una soluzione. Facciamo affluire altri rinforzi in zona, ma teniamoli nascosti, e facciamo lo stesso con la maggior parte delle truppe qui presenti; se i Nippo vedranno l’obiettivo sguarnito, sarà un boccone troppo succulento per non provarci. A quel punto, entrerà in azione il grosso delle forze, e li falcidieremo prima che possano anche solo guardarci negli occhi. Siete d’accordo nell’attuare questa strategia?”.
Shinji si lisciò il mento, quindi assentì col tono di chi faccia una concessione: “Sì, si può fare. Ma badate bene, colonnello, che se vi siete sbagliati siamo tutti fritti”.
***
Le nuvole oscuravano in buona parte la luna, ma quel po’ di luce bastava ad illuminare un paesaggio irrealmente deserto, con solo tre o quattro bivacchi ad illuminare l’ambiente.
Mentre intorno agli altri i militari statunitensi si facevano grasse risate su qualche battuta che capivano solo loro, attorno ad un fuoco vegliavano Stark, Renji e Kenpachi.
“Stasera mi sento proprio ispirato! Scommetto, caro il mio maledetto russo, cinque sterline che stasera ne faccio fuori almeno venti!” si vantò sbracciandosi il polacco, ed il sovietico ridacchiò sarcastico: “Sì, venti moscerini! Tu vuoi proprio farti ammazzare! Comunque ci sto”.
“Sarà meglio che manteniate le promesse” osservò serio Coyote “perché sento che stasera ci faranno sudare sette camice quegli stronzi! Di solito fanno le cariche banzai per morire in combattimento piuttosto che farsi catturare, e questi devono essere motivati al massimo se continuano a passarla liscia da una settimana”.
In quello stesso istante, nascosto fra gli alberi, i reparti americani, che i superiori di Shinji avevano deciso di prestargli per quell’operazione, e gli altri membri del commando si preparavano allo scontro: chi pregava, chi dava disposizioni nel caso non fosse tornato, chi scherzava, il maggiore
Hirako che fissava nervoso l’orologio, Ukitake che lucidava la canna del fucile,  Shunsui che tentava di tirare su di morale Ichigo e Byakuya ed Isshin che cercava di ostentare serenità davanti a tutti.
Ad un tratto si udì uno scalpiccio lontano, ed una sorta di sordo brontolio che saliva dalla terra; più di qualcuno tese un orecchio guardingo, molti occhi si levarono preoccupati.
Una fiumana umana si slanciò fuori dall’ingresso della grotta come lava eruttata da un vulcano, una fiumana che portava le divise, ormai logore e stracciate, dell’Esercito Imperiale giapponese; tutti quegli uomini, con le barbe lunghe e i lineamenti rifiniti dalla fame, avevano negli occhi cerchiati di rosso un che di invasato, come se una folla di demoni guerrieri li possedesse.
Stringevano nelle mani fucili, pistole, granate, qualcuno un paio di bandiere con il Sol Levante legate alla bell’e meglio a delle aste, ed in prima fila c’era un ufficiale, in apparenza giovanissimo, assai alto e segaligno, i capelli rizzati sotto il berretto ed un paio di occhiali sopra il naso, che si agitava come un folle, brandendo un’affilatissima katana.
Un grido innaturale, più simile ad un tuono, uscì dalle loro gole: “Nippon banzai!”.
“Eccoli, eccoli, eccoli!” ridacchiò Kenpachi battendo le mani, quindi imbracciò il fucile e si mise a sparare, contando i morti, mentre gli Americani si precipitavano alle mitragliatrici ed i mortai aprivano il fuoco; una granata atterrò in mezzo ai Giapponesi provocando molte vittime, ma essi non sembrarono curarsene e proseguirono imperterriti.
Stark si posizionò ad una mitragliatrice e si unì al carnaio, abbattendo i frangenti estremi dell’onda che distava ormai una sessantina di metri; mentre premeva il grilletto e Renji gli passava le munizioni, borbottava mentalmente: “Avanti Shinji, non fare la merda … Esci fuori!”.
Come se gli avessero letto nel pensiero, quando ormai pareva che il piccolo manipolo di difensori sarebbe stato inesorabilmente travolto, dalla selva emerse il resto delle forze statunitensi, e la tempesta di fuoco che si scatenò fu impressionante.
Non per questo, però, gli ostinatissimi Nipponici gettavano la spugna: erano quasi da soli, su un’isola che entro pochi giorni sarebbe caduta, soverchiati nel numero e nelle armi, e l’unico risultato che potevano proporsi era quello di vendere cara la pelle e uccidere talmente tanti invasori da sconsigliare agli Stati Uniti un’invasione della madrepatria.
Nelle tenebre si susseguivano le fucilate a breve distanza, finché non si giunse al corpo a corpo, che come sempre sarebbe stato una roulette russa di sangue e budella.
Byakuya si riparò da una coltellata con il calcio del fucile, inciampando, ma proprio quell’involontario slittamento fece cadere anche il suo avversario, consentendogli di avventarglisi addosso e di finirlo; frattanto Ukitake, in posizione fra i cespugli, eliminava un nemico dopo l’altro ed Ichigo si misurava con avversari ben più robusti a colpi di pugni e baionetta.
“Venti! Venti!” gridò entusiasta Kenpachi, mentre pugnalava un uomo allo stomaco facendgli vomitare sangue, ma Renji era troppo occupato per stare ad ascoltarlo; un po’ più in giù, Sado fracassava la testa di un giapponese con il fucile, mentre Coyote infilzava un  uomo da dietro e Shinji gli sparava in mezzo agli occhi.
“Gioco di squadra! Ci hanno insegnato bene, a West Point!” esclamò il primo, e l’amico sorrise: “Davvero! Ma il prossimo lascialo a me!”.
Intanto Isshin, un pugnale per mano, stava fronteggiando il giovane ufficiale con la sciabola; questi riuscì quasi a decapitarlo, con un fendente precisissimo che si limitò a fargli perdere il copricapo, quindi tornarono a scontrarsi e ad avvinghiarsi; per essere così giovane e smilzo, il nemico era molto forte e soprattutto esperto.
Dopo varie finte e affondi, il britannico si trovò disarmato, e il nipponico, lanciando un selvaggio
urlo di soddisfazione, levò la katana; ma si bloccò in quella posizione, perché Shunsui gli saltò addosso gettandolo a terra, e con un pugni gli fece perdere i sensi.
“Grazie mille colonnello. Se non fosse stato per voi …” lo ringraziò Isshin mentre raccoglieva i coltelli, e l’australiano lo liquidò con un gesto: “Pfui! Robetta! Una volta, nel ’39, in un circo a Canberra, ho avuto un incontro di boxe con un canguro decisamente più interessante!”.
Alla fine il numero aveva prevalso, e, nonostante vistose perdite fra morti e feriti, gli Americani potevano dirsi vincitori: dei Giapponesi non rimaneva che una pila di cadaveri mutilati, e furono fatti prigionieri solo quelli troppo feriti o intontiti per suicidarsi.
Fra costoro c’era il giovane ufficiale con gli occhiali, appena rinvenuto, che, portato al cospetto di Shunsui e Isshin, l’ squadrò gelido attraverso le lenti e scandì in un buon inglese: “Capitano Uryu Ishida, Esercito Imperiale giapponese. Riconosco la sconfitta e vi chiedo il permesso di morire con onore”.
“Avete già dimostrato il vostro valore, capitano. Non c’è bisogno che sprechiate la vostra vita invano” rispose l’inglese, e, mentre veniva trascinato via, Ishida si voltò e gridò: “Ricordatevi di quello che avete visto stasera! Ricordatevelo, quando sarete a Tokyo, e allora vi pentirete di averci fatto la guerra!”.
Le sue parole avevano un fondo di verità, sicuramente impressionarono i presente più di quanto non volessero dare a vedere, ma ora era tempo di celebrare: per simboleggiare la vittoria, i nostri, dopo aver catturato il cannone giapponese nella caverna ed essersi impadroniti degli stendardi nemici, piantarono all’imboccatura  dell’antro una lunga asta, su cui sventolavano assieme l’Union Jack e la bandiera a stelle e strisce, a indicare un sodalizio inscindibile fra il vecchio impero e la nuova superpotenza.
Vedendoli Kenpachi, che aveva appena litigato con Renji poiché questi si rifiutava di riconoscergli la vittoria nella scommessa, si precipitò là ed estrasse dal suo zaino una bandiera polacca, donatagli da alcuni connazionali con cui aveva combattuto assieme a Montecassino, che conficcò a terra: era il suo modo di dire che anche la sua patria, divisa e martoriata, aveva contribuito a quella vittoria.
Il 21 giugno 1945 fu ufficialmente dichiarata la conquista completa dell’Isola di Okinawa.
 
 
 
 
 
 
  
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