Fumetti/Cartoni americani > A tutto reality/Total Drama
Segui la storia  |       
Autore: Lady R Of Rage    27/01/2013    11 recensioni
Dawn non rispose. Si limitò a prendere un coltello di piccole dimensioni, e a passarlo impercettibilmente sul proprio dito. Un sottile taglio si era aperto in corrispondenza del dito.
-E questo cosa sarebbe?- domandò Scott. Cominciava a chiedersi se Dawn fosse del tutto sana di mente.
Ma Dawn sorrise, placida, e si passò sul dito la miscela di erbe. In pochi attimi, la ferita era scomparsa.
-Lo vedi?- domandò la ragazza a uno Scott ammutolito e senza parole.
-Non basta saper uccidere, per vincere.-

Ventiquattro ragazzi innocenti sono stati sorteggiati, come ogni anno, per combattere negli Hunger Games, il reality infernale dove per vincere bisogna uccidere.
Dovranno lottare contro i loro nemici e contro le avversità, ma soprattutto contro loro stessi.
Saranno vincitori o saranno vinti.
E uno solo sopravviverà.
[AU| Crossover Total Drama/Hunger Games | Pairing: un po' tutti]
Genere: Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Image and video hosting by TinyPic

World Will Be Watching
 

Capitolo 1

Come ogni anno, nello stato di Panem il popolo di Capitol City si prepara ad assistere a una nuova, emozionante, intrigante edizione degli Hunger Games.
Ma, per i cittadini che abitano i dodici distretti, questa non è affatto un’occasione di gioia.
Gli Hunger Games portano dolore e morte, pianti di madri e padri, grida di fratelli, sorelle e amici.
Gli Hunger Games sono il prezzo in sangue pagato dai distretti per quello da loro stessi sparso, in un tempo ormai lontano di cui nessuno ricorda più nulla.
E più di tutto, sono la negazione della libertà. Il ricordo indelebile di una sottomissione gravosa e spesso letale.
E come ogni anno, dodici ragazzi saranno scelti a sorte, per dire addio per sempre alle loro vite.
Che vincano o meno.
 
Distretto 1
 
Dakota si rigirava tra le soffici lenzuola della casa di suo padre il sindaco.
Non riusciva a chiudere occhio, già pregustava l’occasione che le si sarebbe presentata quello stesso pomeriggio.
L’avrebbe fatto. Si sarebbe offerta volontaria. E, come una degna figlia del distretto 1, avrebbe vinto.
Alla fine si decise ad alzarsi, lasciando che l’aria pura e fresca di quel terribile mattino le accarezzasse il viso a cuore, i lunghi capelli biondo platino e la pelle liscia di una delicata sfumatura di rosa.
Sapeva di essere bella. Aveva i suoi spasimanti, uno più bello dell’altro. E sapeva anche che la bellezza è un fattore determinante degli Hunger Games.
Dakota scese al piano inferiore della loro casa, salutata da un coro di “buongiorno, signorina” delle numerose cameriere che affollavano la stanza.
-Dov’è mio padre?- domandò la ragazza a una di esse.
-Vostro padre, il sindaco Milton, è uscito molto presto. Deve sbrigare delle pratiche urgenti prima della mietitura.-.
Dakota non se ne preoccupò. Ormai era abituata all’idea di avere un padre alquanto assente. Era normale, in quanto sindaco, avere molte cose da fare.
Decise di uscire a fare un giro per le strade del distretto, o più correttamente a mostrarsi in giro ai numerosi e affascinanti Favoriti innamorati di lei.
Quando uscì, aveva indosso una maglietta rosa ciclamino, e dei pantaloni di una sfumatura più tenue. Gli abiti evidenziavano gradevolmente i suoi fianchi sottili, le sua gambe aggraziate e il seno prosperoso.
Ecco, qualcuno si avvicinava. E da lui, avrebbe ricevuto i primi complimenti della giornata.
-Ciao, Dakota.-
La ragazza si voltò. Quello che aveva davanti era uno dei suoi ammiratori, certo, ma non aveva affatto l’aria del Favorito.
Si chiamava Sam. Era grasso, imbranato e pazzamente innamorato di lei.
-C-ciao Sam.- si decise a rispondere Dakota.
-Vai da qualche parte?-
-Vado dove vai tu.- rispose Sam. E detto questo si accodò accanto a Dakota, come se credesse che lei lo considerasse almeno in parte attraente.
Dakota arrossì. Di tutti i ragazzi che c’erano, proprio quello…
Sam si fece improvvisamente scuro in volto. –Mi hanno detto che vuoi offrirti volontaria.-
-Sì.- disse Dakota. –E vincerò. Sono la migliore dell’accademia.-
In realtà, Dakota maneggiava le armi con pigrizia, si allenava con un ritmo irrisorio, e una volta aveva piantato una granaa causa di un taglio fattasi con un coltello. Ma Sam non glielo rimproverò. Chi era, del resto, l’unico Favorito ad aver quasi mutilato un istruttore con un pugnale?
-E tu? Ti offrirai volontario?- Sam fece cenno di no.
-No. È da pazzi. Si muore sicuro. Non andarci, Dakota.-
La ragazza si fece dura in volto. Fissò profondamente negli occhi Sam, con un’espressione sdegnata e nervosa.
-Oh, sì che ci andrò.- protestò, come faceva sempre quando qualcuno la contraddiceva.
-E tornerò a casa, per dimostrarti che ti sbagliavi.-
 
Distretto 2
 
Tre ragazzi camminavano per le strade lastricate di sassi del distretto 2. 
Erano fratelli, lo si capiva già da lontano. Ed erano anche tre letali Favoriti, muscolosi, seducenti e prestanti.
-Ti offrirai volontario oggi, Alejandro?- domandò il più grande dei tre. Era il più alto del gruppo, aveva i capelli cortissimi, quasi rasati, e il suo sguardo era maturo e riflessivo.
-Ma certo. - rispose un secondo ragazzo, indubbiamente il più affascinante del trio. Tutto in lui era provocante: i capelli castani, lunghi fino alle spalle, i profondi occhi verde mare, la carnagione ambracea e il costato, ricoperto di splendidi addominali.
-Mi sono allenato per mesi solo per offrirmi volontario. Se quest’anno ci sarà un vincitore, sarò io.-
A questo punto il terzo ragazzo, dai piccoli occhi neri come capocchie di spillo, prese a ridere convulsamente.
-Josè, ti prego.- disse ancora il primo dei tre. –Non cominciare. Oggi sarà un grande giorno per tuo fratello.-.
-Certo, Carlos, certo. Un grande giorno. Sempre che non muoia infilzato al bagno di sangue come un animaletto qualsiasi. -
Puntò i suoi occhi nero pece in quelli verdastri del fratello, con aria beffarda.
-Ne saresti capace, Al.-
Alejandro sussultò all’udire l’odiato soprannome. L’aveva già sentito tante, troppe volte, ma non aveva mai smesso di tormentarlo. 
-Punto primo: il mio nome è Alejandro. Punto secondo: se sei riuscito tu a vincere, penso che per me sarà facile come bere un bicchiere d’acqua.-.
Josè era un ex vincitore. Si era offerto volontario all’età di sedici anni, due anni prima, ed aveva subito conquistato molti sponsor con il suo fascino mascolino, il suo pungente senso dell’umorismo e la sua innegabile abilità nel maneggiare le armi. Nel giro di una settimana si era liberato di ogni avversario, combattendo in modo anche sleale. Era stato l’idolo di Alejandro, allora. Tuttavia, dopo la vittoria, divenne improvvisamente strano. Era sempre più acido, sarcastico, beffardo. Fu allora che cominciò a chiamare il fratello “Al” e a perseguitarlo con scherzi anche ridicoli.
Comunque, era e rimaneva un potente guerriero. E Alejandro lo voleva come proprio mentore.
-Cerca di essere paziente. - gli aveva detto un giorno Carlos. –Non deve essere stato facile per lui vincere quei maledetti giochi.-.
Carlos non si era mai offerto volontario. Aveva ormai ventidue anni, ed aveva superato da un pezzo l’età per offrirsi. Quando uno dei suoi fratelli minori gli chiedeva perché, questa era la risposta: “Preferisco non immischiarmi in roba del genere.”.
-Però… - continuò Josè – Chi mi dice che sei pronto?-
Alejandro avvampò. Glie l’avrebbe fatta vedere, a quel montato.
Prese da terra un ramoscello, e lo impugnò come uno dei coltelli da lancio.
-Sta a guardare. - disse. Detto questo, lanciò il ramo con precisione dentro al buco di un vetro di una finestra.
Carlos e Josè rimasero attoniti: un lancio di straordinaria precisione.
Improvvisamente si udì il rumore di una porta che sbatteva. Una ragazza dai capelli neri, legati dietro la testa con un corto codino, si avvicinò a passo di carica al trio. Era molto graziosa: aveva gli occhi a mandorla, la carnagione del colore del latte e i fianchi magri e sottili. Una vera favorita: Heather era la più brava ragazza dell’Accademia.
-Te lo dico per l’ultima volta, Alejandro Burromuerto.- disse la ragazza.
-Falla finita di allenarti al lancio dei coltelli contro il muro di casa mia. Altrimenti…-
-Altrimenti che cosa, chica?- domandò Alejandro con voce seducente. Cinse col braccio le spalle della ragazza, che assunse un’espressione di disgusto e si agitò.
-Altrimenti…- Heather svicolò dalla presa tentacolare di Alejandro. –Altrimenti, dato che mi offrirò volontaria, ti farò pentire semplicemente di essere nato.-
-Impetuosa la chica.- sussurrò Carlos a Josè.
Alejandro lo ignorò. – Fai male a pensarlo, Heather. Mi alleno da quando sono nato per vincere. E non sarai certo tu a fermarmi. -
Heather non si scompose. Raccolse invece da terra un secondo ramoscello, e lo lanciò con una precisione addirittura superiore a quella del ragazzo argentino verso un albero. Un uccello cadde colpito.
Carlos e Josè ammutolirono. Alejandro sgranò gli occhi, incapace anche solo di proferire parola.
-Hai visto? Non hai speranze. Ora scusa, ma devo andare a prepararmi per la mietitura. A dopo, cascamuertos!-
E detto questo, Heather si dileguò. 
-Allora, ti offri lo stesso volontario, Al?- chiese Josè.
-Sta zitto, idiota.- rispose Alejandro. I grandi occhi verdi del ragazzo erano fissi sull’ombra di Heather che si allontanava. 
“ti faccio vedere io, bruja.”.
 
Distretto 3
 
A Leshawna non erano mai piaciute le mietiture.
Nonostante si nascondesse sotto una scorza da dura, Leshawna era una ragazza sensibile abbastanza da odiare letteralmente quello spettacolo inumano.
Ragazzi di tutte le età, che ogni anno venivano mandati alla morte. Il pianto degli amici, dei parenti, e di tutto il distretto tre.
A questo pensava Leshawna, mentre montava un forno a microonde per Capitol City.
Ah, già. Odiava anche Capitol City. Non poteva nemmeno immaginare che esistessero persone crudeli abbastanza da divertirsi nel vedere dei ragazzi come loro costretti a duellare a vicenda fino alla morte.
Ma più di tutti, odiava i Favoriti, quelle bestie omicide e montate che vedevano in quei giochi maledetti una fonte di prestigio.
Leshawna smise di smanettare con quel microonde, e lo lanciò lontano da sé con un calcio ben assestato. Non le era mai piaciuto montare apparati elettronici. Purtroppo, nel distretto 3 quella sembrava essere l’unica forma di sostentamento.
Lo avrebbe finito dopo, decise Leshawna. 
Così mise via (o più correttamente, scagliò via) il microonde, tirò fuori carta e penna e si mise a fare il conteggio delle tessere.
Le tessere… un sistema barbaro in cui scambiavi frammenti della tua vita con del cibo.
Leshawna aveva molte tessere. Si mise a conteggiare sul foglio la possibilità di venire estratta.
-Allora, cinque tessere a dodici anni, tre a tredici… no, erano quattro. Poi altre cinque a quattordici…-
-Salute, Leshawna.-
La ragazza si voltò. Alle sue spalle c’era una figura magra e ossuta, con addosso una sgargiante maglietta e dei pantaloni troppo larghi. Gli occhi erano dilatati oltre misura dalle lenti degli occhiali, i capelli rossi e ricci erano intrecciati con fili elettrici, e sulla bocca secca si delineava un sorriso di compiacimento.
-Ciao, Harold.- disse sbrigativamente Leshawna.
-Scusa, ma ora non ho tempo. Devo finire di contare le tessere per oggi pomeriggio.-.
Sospirò pensando alla mietitura. Temeva davvero di essere estratta.
-Solo un attimino… stavolta ho qualcosa che ti tirerà un po’ su di morale. -
Leshawna capì che non poteva assolutamente liberarsene.
-Va bene. - disse – ma sii veloce. -
Harold compì un gesto teatrale con la mano, roteò un paio di volte su sé stesso e l’istante successivo aveva in mano una scatola quadrata, impacchettata malamente.
-Che cos’è? Un altro dei tuoi regali assurdi?-
Harold annuì, con un sorriso pieno di aspettative.
Leshawna scartò rapidamente la carta che avvolgeva il pacco (carta da imballaggio, visti i tempi duri), e tirò fuori lo strano oggetto contenuto nella cassa.
Sembrava proprio un televisore a schermo piatto, ma dal lato dello schermo spuntavano fuori delle manopole che sembravano provenire da un forno, e alcuni pulsanti che ricordavano uno stereo; inoltre era montato su una larga base piatta, ricavata indubbiamente da un lettore DVD.
-Carino…- riuscì infine a dire Leshawna. –Ma che cos’è?-
-Oh, lo vedrai!- disse Harold tutto gongolante. Premette uno dei tasti, e per un attimo Leshawna credette che sarebbe esploso. Invece, preceduta da un ronzio e da un fischio acuto, un’immagine si dipanò sullo schermo. Un cuore fluorescente, nel quale spiccavano due lettere colorate: una H e una L.
-Harold!- esclamò la ragazza. –Ma è…-
Voleva dire “abominevole”, naturalmente, nonostante apprezzasse almeno in parte il pensiero. Harold, malaguratamente, la precedette.
-Ti piace, vero? Così quando la vedrai penserai a me!-
Leshawna avrebbe volentieri detto qualcosa, ma improvvisamente dalla macchina si produsse di nuovo quel fischio spaventoso. Leshawna, che aveva appreso dall’esperienza personale, preferì lasciare il marchingegno e nascondersi sotto al tavolo. Harold, invece, rimase immobile e attonito.
La macchina esplose con un botto assordante. Leshawna uscì cauta da sotto al tavolo, per trovarsi davanti un Harold dal viso annerito, i capelli scompigliati, gli occhi sgranati e una specie di residuo tecnologico in mano. La ragazza dimenticò per un istante tutto il pericolo precedente, e scoppiò a ridere senza controllo.
-Non preoccuparti, Harold. Almeno questa hai avuto il tempo di darmela. -
 
Distretto 4
 
Le onde del mare producevano un suono leggero, rilassante, e il sole di quell’orribile giornata le irradiava di un bagliore cristallino.
Adagiata sulla tavola di legno, Bridgette guardava senza scopo di fronte a sé.
Era sempre preoccupata, il giorno delle mietiture. Sapeva che il distretto 4, pur non essendo un vero e proprio distretto di Favoriti, aveva avuto dalla sua un discreto numero di vincitori; tuttavia era una ragazza pacifica e amante della vita, e avrebbe dato un braccio piuttosto che ritrovarsi sperduta in quel folle bagno di sangue.
Geoff uscì dall’acqua salata spruzzando acqua dalla bocca come una fontanella. Nuotò alcune volte su e giù, con la leggiadria di un pesce, poi lasciò che la corrente lo trascinasse fino alla tavola da surf sulla quale era adagiata la sua ragazza.
-Oggi le onde sono più chiare del solito! Ottima giornata per nuotare. -
Questo era quello che a Bridgette piaceva di lui. Il suo innato ottimismo, che anche in una giornata tragica come quella era capace di trovare una ragione per sorridere.
Geoff, tuttavia, non tardò ad accorgersi dell’espressione accigliata di Bridgette.
-Cosa c’è piccola? Non ti va di nuotare?-
-Sì, mi va.- rispose timidamente Bridgette. –Mi va, solo che… ho molta paura per oggi pomeriggio.-.
Anche Geoff, ovviamente, aveva paura. Come tutti. Ma in quel momento gli interessava solamente l’allegria di Bridgette.
-Su, sta tranquilla piccola. Vedrai che andrà tutto bene. Non toccherà mai a un angioletto come te.-
Bridgette ridacchiò suo malgrado. Ecco, Geoff era riuscito a farle passare il malumore.
-E poi…- continuò Geoff. –Poi, vedere ogni anno l’abbigliamento di quella vecchia strega di Blaineley non ha prezzo.-
Bridgette stavolta non si trattenne, e rise così tanto da rischiare di cadere dalla tavola. Blaineley, l’accompagnatrice capitolina assegnata al distretto della pesca, sfoggiava ogni anno un look diverso. L’anno precedente, per esempio, indossava un lungo abito blu, una parrucca argentea e scarpe con tacchi tali da rischiare di farla cadere dal palco. L’anno prima, invece, indossava un corto abitino dorato, che mosso dal vento l’aveva costretta a tenere le falde giù con le mani per evitare figure indegne.
-Hai ragione.- disse Bridgette. –Quella donna non conosce il buon gusto.-
Proprio in quel momento, si udì un boato, e un’onda enorme si abbatté verso di loro. Bridgette salì di scatto sulla tavola, e riuscì a prenderla alla perfezione; Geoff invece fu colto di sorpresa, e rovesciato all’indietro. Prima di finire sotto il pelo dell’acqua, ebbe il tempo di vedere Bridgette librarsi sull’acqua in equilibrio sulla tavola.
“Questa è la mia ciccina…” pensò prima di essere trascinato via dai flutti.
Bridgette terminò la corsa fino alla riva, e saltò giù dalla tavola con un balzo. Era solo una semplice tavola di legno da barche, ma Bridgette non ne poteva chiedere una migliore.
Bridgette prese la tavola sotto braccio, e proprio in quel momento Geoff riapparse in superficie, perfettamente a suo agio.
-Sei stata bravissima, piccola!- esclamò il ragazzo.
-Grazie mille!- cinguettò Bridgette. Si voltò di scatto per avvicinarglisi, e la tavola compì una parabola che rischiò di colpire il naso di Geoff.
-Ehi, attenta!- fece Geoff.
-Scusami!-
-Nessun problema, Bridgette. Sono cose che capitano.-
Bridgette sorrise verso l’orizzonte. 
Geoff era sicuramente la persona con la quale avrebbe trascorso più volentieri i suoi ultimi momenti nel distretto 4.
 
Distretto 5
 
Tutto sembrava andare alla perfezione nella più grande centrale petrolchimica del distretto. Producevano benzina per le auto di Capitol City, lavorando a tempo pieno anche in quel terribile giorno.
Improvvisamente, si sentì una fragorosa esplosione che rimbombò per l’intero agglomerato della fabbrica. Poi un fumo denso e nero si propagò attraverso alcune finestre. Subito dopo, una fiumana di operai si riversò di corsa fuori dai portoni. Correvano coprendosi bocca e naso con le tute, così da non soffocare a causa delle esalazioni di fumo.
Per ultima uscì una ragazza. Aveva i capelli aranciati, ricci come cavatappi, gli occhi verdi e vivaci, nei quali brillava un’espressione birichina e curiosa, e saltellava su sé stessa come in trance, non consapevole del disastro. Sorrideva.
-Bum! Bum! Bum!- urlava di tanto in tanto. –Mi piace fare bum!-
Gli operai si riunirono davanti al cancello principale della fabbrica, per constatare i danni e contare i feriti e i dispersi. La ragazza dai capelli arancioni si presentò per ultima nel mucchio, sempre ridendo, saltellando e ripetendo a gran voce: - Bum! Bumbum! Bum!-
Uno degli operai, un uomo alto e serio, si accorse della chiassosa presenza. Sul viso arcigno apparve un cipiglio ancora maggiore.
-Operaia Isabella Crawl!- esclamò puntando il grosso dito contro la ragazza arancione.
-Ancora una volta un incidente! Come puoi non imparare mai! Ti avevo detto di non toccare nel modo più assoluto i generatori di energia.-.
Isabella, o meglio, in quel momento, Explosivo, parve non curarsi dell’uomo sbraitante.
-Beh? Che c’è di male?- domandò sempre sorridendo vivacemente.
-Questa è la mia settimana del contrario: per ogni cosa che mi dicono di fare faccio l’esatto opposto. Non è divertente?-
-No.- rispose l’uomo, evidentemente consapevole di chi avesse di fronte. –Non è divertente. È catastrofico.-
-Signore- si intromise un altro operaio. –Penso che per il bene della produzione è meglio affidare la signorina Crawl… cioè, volevo dire Explosivo, a uno dei nostri operai, così da lavorare tranquillamente.-
L’uomo parve rilassarsi. Evidentemente non vedeva l’ora di liberarsi di quella ragazza così folle (che, tra l’altro, in quel momento stava tirando sassi contro i vetri delle finestre della fabbrica, e a ogni centro prendeva a ridere rotolandosi per terra).
-Operaio McKinnow.- disse l’uomo indicando un ragazzo biondo, sovrappeso e dall’aria alquanto pacifica.
-Porta la signorina lontano il più possibile da qui. -
Il ragazzo, di nome Owen, obbedì. Prese per mano la ragazza e la condusse via, stranamente senza incontrare resistenze da parte sua.
-Insomma, Explosivo, è già la terza volta che fai esplodere un generatore. Non dovresti fare così, è… pericoloso!-
La ragazza, per tutta risposta, drizzò le orecchie come un leprotto e scrutò l’orizzonte.
-Explosivo? E chi è?- domandò. –Io sono il Sergente Caleido, sissignore. A rapporto, signore.-
Owen sospirò. Non cambiava mai…
-Sergente Caleido, signore…- disse Owen balbettando un po’.
-Mi chiedo se non le sembra più idoneo andare a casa a prepararsi per la mietitura.-
Caleidoscopio smise di scrutare l’orizzonte. La parola “mietitura” era capace di annullare ogni suo folle impulso. Del resto, quella parola poteva annichilire veramente chiunque.
-Owen!- Strillò Izzy (perché sì, ora era tornata la consueta Izzy).
-Non hai paura? Io un pochettino…-
-Anche io ho paura, Izzy.- disse il ragazzone cingendole le spalle col braccio paffuto.
-Speriamo solo che non tocchi a noi. Però, Noah ha detto che è meno difficile di quanto sembra. Basta evitare gli scontri diretti.-
Noah era il loro migliore amico. Era stato estratto l’anno precedente, il che aveva preoccupato molto sia Izzy che Owen; ma miracolosamente era riuscito a vincere. Noah aveva giurato a Owen e Izzy che, se uno di loro fosse malaguratamente estratto, lui avrebbe fatto tutto il possibile per aiutare almeno uno di loro a tornare a casa vivo.
-E se lo dice il nostro caro Gamberetto- tornò a strillare Izzy –ci sarà da fidarsi: è un così caro ragazzo…
Su, Pancy Owen, andiamo! Le mietiture ci aspettano. -
Era tornata improvvisamente folle come prima. Nemmeno le mietiture potevano abbattere il suo caratterino.
“È così pazza…” pensò Owen. “Completamente pazza.
E maledettamente carina…”.
 
Distretto 6
 
Una figura misteriosa si aggirava circospetta tra i treni del distretto 6.
La figura correva tra le rotaie, schivava i vagoni e si infilava sotto le transenne, ben attenta a non essere vista.
Poi, ad un tratto, la figura apparve alla luce. I raggi del sole illuminarono una ragazza dai capelli corti, castano chiaro, vestita con abiti semplici e quasi mascolini. Pure il suo nome aveva qualcosa di maschile: tutti la chiamavano Jo.
Jo, dunque, arrivò a una stazione ormai abbandonata da tempo, e lì si fermò.
-Buon giorno, Jo.- si disse tra sé e sé.
Poi si avvicinò a un palo metallico appoggiato a un muro. Lo afferrò da entrambi i lati, e appese alle estremità dei copertoni di camion. Infine si sdraiò sulla schiena, strinse forte il palo metallico e cominciò a sollevarlo su e giù, respirando ritmicamente.
I copertoni, va da sé, erano molto pesanti, ma Jo sembrava riuscire a padroneggiare il duro esercizio. Sollevava quei copertoni con una perizia degna del più forte tra i Favoriti.
Erano ormai due anni che Jo si allenava di nascosto in quella stazione abbandonata. Ogni mattina e ogni sera, quando ormai tutti se ne erano andati da un pezzo, si nascondeva là e faceva esercizi di ogni genere: sollevava oggetti pesanti, correva, faceva piegamenti, flessioni, esercizi addominali, incurante del fiatone, del sudore e del batticuore.
Si allenava per inseguire il suo sogno: offrirsi volontaria agli Hunger Games.
Perché lo desiderasse tanto? Innanzitutto, per una questione di emulazione. Eva, la ragazza del suo stesso distretto che aveva vinto alcuni anni prima, era diventata per lei un vero e proprio mito vivente, e lei era decisa a seguirne le gloriose orme. In secondo luogo, per una questione di orgoglio. Il distretto 6, infatti, era tristemente noto per le scarse vittorie conseguite dai suoi tributi. Jo era dunque decisa a dimostrare che il distretto 6 non era un distretto di pappamolle. 
Ma soprattutto c’entrava l’orgoglio personale di Jo. La ragazza voleva mettere in chiaro a tutti che lei non era come le altre femmine, piagnone e vanitose. Lei era una dura, forte e capace di cavarsela al pari di un maschio. E non c’era modo migliore per mostrare dell’eroismo che offrirsi volontari in un distretto che non fosse di favoriti.
Certo, allenarsi prima degli Hunger Games era vietatissimo. Se fosse stata sorpresa, Jo sarebbe sicuramente stata uccisa da qualche Pacificatore. Ma a lei non importava. Nessuno l’avrebbe mai trovata, là.
-Josephine? Cosa ci fai qui?-
Come non detto.
Si chiamava Brick. Era uno dei ragazzi più strani che Jo avesse mai conosciuto. Si atteggiava sempre con comportamenti militareschi, come se fosse anch’egli un Pacificatore; mentre Jo sapeva per certo che Brick ne era terrorizzato. E poi, bisognava ammetterlo, era davvero buffo con quei capelli così tesi verso l’alto.
-Buongiorno, Capitan Piscialletto.- disse Jo.
-Sei venuto ad allenarti con me? Bene: ne hai bisogno.-
Il soprannome era stato inventato da Jo stessa, in occasione di una volta che Brick, l’anno prima, era rimasto chiuso dentro un treno fermo e al buio. Quando fu possibile tirarlo fuori era così sconvolto da macchiare i suoi stessi pantaloni. Brick aveva un terrore viscerale del buio, anche se ci sarebbe voluto un esercito di Pacificatori per convincerlo ad ammetterlo.
Detto questo Jo lanciò al povero Brick un bilanciere che lo investì violentemente, rischiando di farlo cadere.
-No.- rispose Brick, liberandosi a stento dal peso. –Jo, allenarsi prima degli Hunger Games è rigorosamente vietato. Il Codice del nostro distretto dice che…-
-BAH!- Jo scagliò lontano da sé un secondo bilanciere. Brick lo scansò per un pelo.
-Solo le pastefrolle come te non si allenano. I veri uomini (e le vere donne) invece sì.-
-Non sto scherzando, Jo.- disse Brick, inseguendo la ragazza che si era messa a fare salto con gli ostacoli con dei vecchi copertoni ammucchiati.
-Se qualche Pacificatore ti trovasse qui…-
-Ma fammi il piacere!- fu la risposta di Jo. 
-Quelli sono tutti scemi. Non troverebbero nemmeno un elefante.-
Brick ormai aveva il fiatone a furia di inseguire la sua interlocutrice. Si sedette su una vecchia rotaia, ansimando, mentre Jo non sembrava nemmeno sudata e proseguiva a saltare gli ostacoli. 
Brick rimase a guardarla per un po’, intimorito e in parte affascinato da quella ragazza così impetuosa e orgogliosa. Qualità che, guarda caso, lui non aveva.
Improvvisamente una campana squarciò il silenzio fino ad allora sovrano. Jo sbuffò. Mise via in fretta i suoi pesi, e si avviò verso i centri abitati con Brick alle calcagna.
-Bah!- la udì sbuffare il ragazzo.
-Se penso che per prepararmi dovrò indossare uno di quei noiosi vestitini fru fru…-
 
Distretto 7
 
Dawn era uscita molto presto, quella mattina. Come tutti gli anni il giorno della mietitura.
Voleva trascorrere quelle ore lontana da tutto e da tutti, sola con la natura.
Dawn sentiva un grande amore verso il mondo che la circondava. Sentiva di amarlo quasi più della sua stessa famiglia. Le piaceva stare da sola in mezzo agli alberi, sentirli quasi parlare.
Dawn si sedette a gambe incrociate su un ceppo d’albero. Alzò le braccia, prese un profondo respiro, chiuse gli occhi e si lasciò andare alla sinfonia della natura.
Un vento profumato e leggero le scorreva tra i capelli biondo platino e le accarezzava la pelle bianca come la luna. Non a caso, alcuni ragazzi la chiamavano “raggio di luna”.
Sentiva intorno a sé i fruscii di volpi, tassi e uccellini che si muovevano circospetti tra le fronde. Anche se non li vedeva, sapeva che c’erano. Ne sentiva le aure vicino a lei.
Ad un tratto apparve un’altra aura. Era diversa dalle altre: era scura, inquietante, intrisa di odio e astio verso il mondo. Poi il sibilo di un’ascia interruppe il paradisiaco silenzio, e Dawn sentì dentro di sé le lugubri grida dell’albero che era stato colpito.
Dawn amava la natura, e per nulla al mondo avrebbe fatto male a un altro essere vivente, che fosse pianta, umano o animale. Sembrava quasi fuori posto in un distretto dove, per vivere, bisogna tagliare alberi.
La ragazza era anche seccata per la presenza anomala nel suo angolo di paradiso. Decise di alzarsi e trovarsi un posto più tranquillo per meditare. Ma poi, vinta dalla curiosità, decise di andare a vedere di chi si trattasse, per il solo gusto di sapere chi fosse stato a usurpare la sua tranquillità idilliaca.
Eccolo: un ragazzo dai capelli rossicci, con addosso una lurida canottiera, che rideva sardonicamente di fronte alla profonda crepa lasciata nel legno dall’accetta.
Scott. Dawn provava una certa affettazione verso quel ragazzo così cinico e crudele. era terribile vederlo mentre, ridendo, lanciava accette verso gli scoiattoli, stringeva i lacci intorno ai corpi minuti delle volpi, e torturava senza pietà degli innocenti topi.
Tuttavia, Dawn non poteva non provare anche una certa pietà nei suoi confronti. Scott era orfano di madre, abbandonato dal padre all’età di cinque anni, schivo e solitario come pochi.
E per di più era anche sociopatico. Incapace nel modo più assoluto di relazionarsi col prossimo.
-Ehi, fiorellino, guarda che ti ho visto!- esclamò il ragazzo.
Dawn ne era in parte spaventata: aveva pur sempre in mano un’accetta. Poi, alla fine, si decise a uscire allo scoperto. C’era qualcosa, nella sua aura, che le faceva capire che, per il momento, non l’avrebbe uccisa.
-È molto bello vederti qui, Scott.- disse con il tono più tranquillo che riusciva a produrre.
-Cosa ci fai nei boschi a quest’ora?.
-E a te che te ne importa?- rispose quello. Afferrò nuovamente l’accetta e la scagliò contro un secondo albero. Il centro fu netto: due rami caddero verso terra.
Dawn rabbrividì, ma riuscì comunque a mantenersi calma.
-Quei poveri alberi… gli stai facendo male.- disse. Scott fece finta di non sentirla e si mise ad affilare l’arma contro una roccia.
-Leggo nella tua aura che vuoi offrirti volontario.- disse ancora Dawn. Stavolta Scott si voltò.
-Sì, vedo che sai leggere. Voglio offrirmi volontario. E allora? C’è sempre bisogno di volontari, in un distretto stantio come questo.-
-Scott, sai bene che hai poche possibilità contro i Favoriti. Lo dico per il tuo bene: non andare volontario. È rischioso.-
Dawn avrebbe voluto dire ancora qualcosa, ma il guizzo dell’accetta a pochi centimetri dal suo collo la fece ammutolire di colpo.
Era davvero bravo a tirare le accette, bisognava ammetterlo. Era riuscito a spaventarla, senza comunque ferirla o ucciderla. Ma se lo avesse voluto, avrebbe potuto farlo.
-Hai visto che lancio? Tiro accette ai topi dell’orfanotrofio praticamente da quando sono nato. E in quanto a quei noiosi Favoriti… troverò un modo. Sono anche uno stratega.
E ora scusami tanto, ma devo finire di allenarmi. Faresti meglio a sparire, se non vuoi che i Pacificatori ti trovino.-
Scott si rimise l’accetta in spalla e sparì nel folto dei rami. Pochi attimi dopo si udì il tonfo di un ramo reciso.
“Povero Scott” pensava Dawn mentre lo guardava allontanarsi. 
“Lo vedo sempre così solo… spero solo che nell’arena non faccia sciocchezze. E sopravviva.”.
 
Distretto 8
 
Gwen usciva sempre molto presto, ogni giorno, d’estate e d’inverno. Le piaceva rintanarsi tra i mucchi di stoffe del deposito, lontana da sguardi indiscreti, per disegnare in pace.
Anche quel giorno, quasi incurante della mietitura incombente, Gwen uscì di casa di nascosto, attenta a non farsi vedere. Arrivò ben presto al magazzino delle stoffe, si infilò attraverso uno spiraglio, e si sedette al solito posto.
L’angolo di paradiso di Gwen consisteva in un mucchio di drappi di seta, sui quali sedersi era come il più morbido dei cuscini. Là si sdraiò, avvolgendosi in alcuni degli scampoli per proteggersi dalle correnti d’aria.  Preso poi il blocco e una penna, cominciò a disegnare.
Gwen disegnava soprattutto vestiti. Le sue creazioni erano spesso strane, lugubri, dai colori cupi, ma pochi ne avrebbero viste di più belle.
Ecco un abito lungo, di stoffa violacea, con un lungo strascico e il corpetto senza maniche; un corto abito nero, lucido, attillato; e uno splendido vestito blu notte, le cui maniche erano tanto larghe da toccare quasi il suolo.
Gwen stava ultimando la sua più recente creazione; un altro abito blu dal profondo spacco, quando ad un tratto sentì degli strani rumori. Era entrato qualcuno.
Senza attendere un attimo Gwen si infilò sotto il mucchio di stoffe, trattenendo il respiro: se si fosse trattato di un Pacificatore, sarebbe stata sicuramente a rischio.
Invece, udì una voce affabile che chiamava: - C’è nessuno? Ho sentito un rumore.-
Gwen sospirò di sollievo. Non era un Pacificatore, no, era solo uno dei suoi compagni di distretto, un ragazzo buono e paziente di nome Trent. 
Nonostante continuasse a non gradire di essere vista, era almeno in parte contenta che non avesse intenzioni ostili.
-Ciao, Gwen.- disse il ragazzo salutando-.
Gwen sussultò. Strisciò fuori dal mucchio di drappi, stando attenta a nascondere bene il blocco, e rispose al saluto con un sorriso un po’ tirato.
-Ti sto per caso disturbando? Se vuoi vado via.- disse Trent.
-No!- Gwen lo fermò impetuosamente, fin troppo. –Puoi restare, basta che… niente. Resta pure.-
Un po’ accigliata, la ragazza si sedette su un telaio meccanico  producendo un basso sospiro. Trent se ne accorse.
Il ragazzo le pose la mano sulla spalla gentilmente. Gwen, suo malgrado, non trattenne un lieve sorriso.
-C’è qualcosa che non va?- domandò Trent.
-No… nulla.- fece sbrigativamente la ragazza, con un tono che però tradiva il contrario.
-Se c’è qualcosa che non va, puoi parlarne con me, se vuoi. Altrimenti…-
Qui Gwen non seppe cosa rispondere. Tacque, e rifletté.
“E se mi facesse bene parlare? Trent è un bravo ragazzo, e sicuramente saprebbe dire la cosa giusta. E poi oggi c’è la mietitura, quindi potrebbe essere l’ultima volta che ho occasione di parlargli.-.
Gwen prese il coraggio a due mani, e parlò.
-Sto bene, solo che… sono molto preoccupata per la mietitura di oggi pomeriggio. Ho preso alcune tessere, quindi… potrei benissimo essere estratta. Non ho voglia di andare a morire adesso. Non sono pronta per questo.-
Trent le accarezzò la spalla con gesto gentile. –Non aver paura.- le disse. –Vedrai che estrarranno qualcun altro. E se toccasse a te… allora sappi che farei tutto il possibile per aiutarti a tornare a casa.-
-No, Trent.- fece Gwen in tono secco. –Non offrirti volontario. È una vera e propria follia.-
-L’unica follia, per me, è l’idea che qualcuno possa farti del male.- rispose Trent.
Gwen non seppe cosa rispondere. Rimasero là, per un po’, senza dire nulla, nel silenzio lugubre della stanza.
Poi, improvvisamente, una sirena esplose attraverso i corridoi: iniziava una nuova giornata lavorativa.
-Adesso bisogna andare.- disse Trent. –Se ci vedono qui, ci cattureranno.-
Si alzò in piedi, e si diresse velocemente verso un’uscita. 
Gwen fece per seguirlo, ma prima, non vista, sfogliò all’indietro le pagine del suo blocco-
Là, tra i bozzetti di abiti, c’era un ritratto solitario, anch’esso fatto dalla stessa Gwen.
Era un viso di ragazzo: il ridente volto di Trent.
 
Distretto 9
 
-Fermatelo! Fermatelo!-
Duncan non perse tempo a guardare il volto dei suoi inseguitori. Dopo ormai anni che faceva quel lavoro, se lavoro poteva definirsi, aveva imparato che nella fuga ogni secondo è prezioso.
Alle sue spalle, una folla inferocita lo inseguiva urlando di rabbia. Tra questi spiccava una donna corpulenta, che gli puntava il dito contro e strillava: - Al ladro! Fermatelo.-
Il ladro era lui, Duncan. Sotto la maglia nero pece nascondeva infatti alcune pagnotte. Le aveva prese di nascosto durante il mercato. Purtroppo una di esse gli era inavvertitamente sfuggita di mano, e aveva attirato l’attenzione della commessa del banco.
Duncan era ormai stanco di essere inseguito. Il sudore gli colava a goccioloni lungo la fronte, e il cuore batteva tanto forte che ogni colpo gli sembrava la fucilata di un Pacificatore.
Una delle pagnotte scivolò lungo la sua manica, e rotolò nella polvere. Sentì il grido della donna: -Le mie pagnotte! Fermate quel ladruncolo!-.
La folla alle sue spalle si era fatta molto più numerosa. Lui non sapeva cosa volessero quegli altri inseguitori: la pagnotta non era stata rubata a loro. Era disgustato da tutta quell’ipocrisia.
Alla fine si rese conto che doveva lasciar stare il bottino che perdeva nella corsa, e mettere in salvo sé stesso, se non altro per non essere preso e fare chissà quale orribile fine. 
Scartò a destra, si tuffò sotto un recinto, e corse via tornando indietro, non visto. La folla infuriata corse in avanti, ignorandolo completamente, in un coro infernale di “fermatelo”.
Quando capì di essere in salvo, Duncan smise di correre. Si asciugò il sudore con la manica della maglia, e si incamminò verso il suo piccolo rifugio, per poter mangiare in pace il suo bottino.
Il “rifugio” di Duncan consisteva essenzialmente nello spazio al di sotto di una lamiera appoggiata a un muro cadente, con come unico arredamento un sacco di iuta, di quelli adibiti al trasporto dei cereali, che gli faceva da giaciglio e spesso anche da coperta.
Duncan si sedette sul sacco, occultò l’ingresso con una seconda lamiera, e tirò un sospiro di sollievo.
Aveva avuto fortuna quel giorno, non era stato preso. 
Ma il mese precedente, oh, due Pacificatori lo avevano sorpreso, e lo avevano frustato pubblicamente, in piazza, sotto le ovazioni generali. 
Al ricordo dell’iniquo castigo il corpo di Duncan fu scosso da un brivido. Dopo la fustigazione non poteva in alcun modo essere curato e disinfettato, non conoscendo alcun guaritore, e aveva agonizzato per un lungo e terribile mese, mangiando ciò che trovava e spesso patendo la fame e il dolore.
Duncan smise di pensare al passato. Sapeva che sarebbe finito col mettersi a piangere, e non voleva in alcun modo apparire debole, anche se in quel momento nessuno avrebbe potuto vederlo.
Prese una delle due pagnotte e aprì la bocca per mangiarla.
-Cosa stai facendo?- 
Duncan si voltò di scatto all’udire quella voce così sgradita.
Una ragazza dai capelli color miele, la pelle ambrata e grandi occhi neri lo fissava scuotendo la testa con aria di rimprovero.
-Ciao, principessa.- disse Duncan beffardamente, con la bocca piena di pane. Trovava che il soprannome “principessa” calzasse a pennello su quella ragazza, dai modi così alteri e spocchiosi. E tanto più gradito a lui lo rendeva il fatto che quella ragazza non lo sopportasse affatto.
-Il mio nome è Courtney, e tu lo sai.- sbottò la ragazza.
-Sarò anche una principessa, ma tu sei sicuro un delinquente. Ti ho visto mentre rubavi quelle pagnotte, al mercato.-
-E allora?- Duncan ingoiò l’ultimo pezzo della prima pagnotta e si pulì i denti con uno stecchino.
-Non starai davvero piantando una grana per due sciocchi pezzi di pane?-
Courtney non apparve persuasa. –Quelle persone hanno lavorato per procurarsi quel pane. Se lo sono guadagnato, a differenza di te.-
Duncan prese la seconda pagnotta. –Lo sai, principessa? Sarai anche una piantagrane, ma ti fa onore il fatto che sei riuscita a seguirmi fino al mio rifugio. Sei più intelligente di quei vecchi contadini. Ed è un vero peccato che tu sia anche così bacchettona. Saresti una ladra perfetta.-
-Cosa?- Courtney parve scandalizzata. –Io non sarò mai una ladra come te. Io sono una persona rispettabile e onesta. Io, per le cose, pago il dovuto prezzo.-
Courtney non poteva soffrire quel ragazzo così selvaggio, abbandonato a sé stesso, e spudoratamente criminale. Ogni cosa in lui pareva primitiva e rozza, a cominciare dalla cresta verde brillante, che si era fatto da solo, con dei coloranti naturali sgraffignati chissà dove. 
Odiava soprattutto il fatto che rubasse. Non avendo infatti mai patito particolarmente la fame, pensava che fossero gli individui come lui a disonorare il suo distretto.
Duncan non rispose subito. Invece si voltò di spalle e si tolse la maglietta, mostrando le cicatrici della fustigazione.
-Questo ti sembra un buon prezzo?- domandò infine.
Courtney rabbrividì. Sbarrò gli occhi, incapace di proferire parola. Le cicatrici si mostravano in tutto il loro orrore: larghe strisce rossastre e sanguinolente che si spandevano per tutta la schiena del ragazzo.
Per un attimo, solo per un attimo, ebbe la tentazione di mostrare pietà verso di lui.
Ma poi, come presa da una folgorazione, si ricordò di chi fosse veramente quel ragazzo: un delinquente fuggiasco e spudoratamente pieno di sé.
-Te le sei ampiamente meritate.- disse in tono superficiale. –Sono il giusto castigo per ladri come te. Quelli come te non meritano di esistere. Andrò ad avvisare le autorità, invierò un plotone di Pacificatori a prenderti.-
Duncan non poteva credere che esistesse qualcuno capace di tanta insensibilità. Ogni secondo che passava, quella ragazza lo rendeva sempre più nervoso.
-Spero proprio che prendano anche te. Dovresti essere arrestata per quanto sei noiosa.-
Courtney strinse forte i pugni delle mani, e trattenne a stento la stizza.
-Vado a prepararmi per la mietitura.- disse infine, come per troncare la questione.
-Immagino che boicotterai anche quella.-
-Purtroppo mi tocca.- disse Duncan. –Ma non importa. Non mi estrarranno mai. Mentre te, principessa…- disse con una punta di malizia –faresti meglio a stare attenta a te stessa. Ragazze come te non durano un giorno, nell’arena.-
Courtney non lo sentiva nemmeno più. Ormai era talmente lontana che Duncan la vedeva appena.
-Giuro che lo farò. Manderò i Pacificatori ad arrestarti.- furono le ultime parole che Duncan intese.
Quando fu sicuro che se ne fosse andata via, Duncan si rannicchiò di nuovo nel suo piccolo rifugio, e finì il suo ridotto pranzo.
“Vorrei davvero vedere cosa faresti, se ti estraessero, principessa.” pensava.
 
Distretto 10
 
Una graziosa ragazza passeggiava con aria beata per i lussureggianti campi da pascolo del distretto 10. Dietro di lei avanzava un gregge di belanti agnellini, dal vello bianco come nuvole di bel tempo.
Gli agnelli si chiamavano tutti col nome di Cody: da Cody Secondo, sulla cui testa già spuntavano dei principi di corna, fino a Cody Sedicesimo, talmente giovane da non reggersi quasi in piedi sulle gambe magre e sottili.
La pastorella si chiamava Sierra. Aveva lunghi capelli violacei, acconciati in una splendida treccia che ondeggiava lievemente nel vento primaverile, occhi vivaci e luminosi, e un incarnato che ricordava lo zucchero di canna.
Sierra lasciò che gli agnellini si sparpagliassero per il pascolo, brucando allegramente, poi si sedette sotto l’ombra frondosa di una quercia e sospirò melanconicamente.
Un solo pensiero occupava in quel momento il suo cuore. E, che ci crediate o no, non era la mietitura.
Sierra pensava infatti a un ragazzo, un mandriano, del quale era innamorata in un modo vicino all’ossessione. Rivedeva nella mente il suo viso rotondo, le sue labbra curvate in un sorriso, il suo profilo magro e dalla testa così grande, e soprattutto il suo soave nome: Cody.
Era in onore a lui, infatti, che aveva dato tali nomi al suo piccolo gregge. Ogni agnello la faceva pensare a lui, e le ricordava che, un giorno, sarebbero stati marito e moglie
Ad un tratto, Sierra vide una mucca pezzata correre senza sosta verso di lei, muggendo di spavento. Dietro al bovino apparve una figura indistinta in corsa. 
Mano a mano che si avvicinava, quella figura si fece più chiara, fino a diventare una visione paradisiaca.
Era Cody! Il ragazzo aveva il fiatone ed era alquanto sudato, il che faceva intuire che corresse già da un po’ di tempo. Ma a Sierra lo stato fisico non importava: contava solo che si trattasse di lui, del suo Cody.
La ragazza si alzò di scatto, a braccia larghe, e corse a rotta di collo verso di lui, chiamando il suo nome. 
-Cody! Cody! Cody!-
Nell’arco di un secondo e mezzo Cody si trovò investito da una massa in movimento, con un enorme matassa violastra che gli copriva naso e bocca impedendogli di respirare. Rotolarono lungo il fianco della collina, tra i belati spaventati degli agnellini di Sierra, e si fermarono alla base, sdraiati l’una sull’altro.
-Oh, Cody!- esclamò Sierra con voce soave. –Sei davvero tu? Vieni a farmi una visitina prima delle mietiture?-
Così dicendo strinse il corpo mingherlino del ragazzo in una presa tentacolare, mentre il viso di lui, in mancanza d’aria, si tingeva quasi di rosso.
-Sierra… soffoco…- riuscì infine ad articolare Cody. Svicolò in qualche modo dall’abbraccio della ragazza, e rimessosi in piedi si spolverò. A volte l’invadenza di Sierra superava davvero il limite del consentito.
-Veramente non sono venuto a cercare te.- ansimò riaggiustandosi la maglietta. –Sono qui per cercare Buttercup. Chissà dove si è cacciata adesso.-
Sierra sospirò mestamente. Dunque Cody non era venuto a cercare lei. Si trovava là soltanto per recuperare la mucca in fuga. Le riusciva assolutamente impossibile capire come mai l’interesse del ragazzo verso di lei fosse meno di zero. Dopotutto, lei lo amava così tanto…
-Oh, mio dolce Cody.- continuò Sierra in tono sempre più melodrammatico. 
-Non hai paura per oggi pomeriggio? Io sì. Se mi estraessero sarei costretta a starti lontano per chissà quanto.-
-Sì, ho un po’ di paura.- rispose Cody, scrutando in giro in cerca della mucca scomparsa. –Non mi piacerebbe proprio finire lì dentro. Hai visto quanto sono grossi i Tributi Favoriti? Ce ne sono di talmente forti da staccarti un braccio senza bisogno della spada.-
Sul viso di Cody era apparsa un’espressione di puro terrore. Del resto come biasimarlo: per gli abitanti dei distretti più poveri la sola idea di trovarsi faccia a faccia con un Favorito in assetto di guerra era sinonimo di morte imminente.
Sierra, intanto, si era accorta della paura del proprio amato. Gli strinse forte la mano per rincuorarlo e gli dedicò il più largo dei suoi sorrisi.
-Non avere paura, Codychino.- disse. –Se ti estrarranno, io mi offrirò volontaria al tuo posto, e tornerò a casa per te.-
Cody sbuffò. –Sierra, non puoi offrirti volontaria per me. Sono un ragazzo.-
-E allora- rispose Sierra senza scomporsi –Mi offrirò volontaria tra le ragazze, e ti proteggerò dai quei Favoriti brutti e cattivi.-
Cody rabbrividì. –No, Sierra. Non voglio che tu muoia per me.-
-Sta tranquillo, amore mio.- fece la ragazza. –Sopravvivrò per te.
E del resto, qualunque cosa possa aver escogitato il Presidente McLean, sono certa che sapremo superarla insieme, come due veri innamorati.-
Il ragazzo emise un sospiro di disperazione. Sierra, quando stava con lui, era tanto immatura da dimenticare persino la tragicità degli Hunger Games.
Per sua fortuna, proprio in quel momento la mucca Buttercup riapparve in lontananza, brucando placidamente l’erba selvatica.
-Ora devo andare.- disse Cody. –Ci si vede oggi pomeriggio!-
Dopo aver parlato, scappò via, inseguendo la mucca che, alla sua vista, era scappata via a zampe levate.
Sierra lo guardò allontanarsi, con aria sognante.
“Sei così carino, mio dolce Cody” pensava. “Non permetterò mai a nessuno di farti del male in quell’arena”.
 
Distretto 11
 
Anche se quello era il giorno più temuto di tutto l’anno, i contadini del distretto si erano lo stesso alzati all’alba e raccoglievano di buona lena la frutta dagli alberi nei frutteti.
Con aria critica, Tyler guardava il fusto di un gigantesco ciliegio. Aveva sotto al braccio un cesto di vimini, che avrebbe dovuto riempire di ciliegie per quel pomeriggio.
Tyler esitava a salire su di esso. Controllava nervosamente nei paraggi, come se temesse di incontrare qualcuno. Alla fine, però, vedendosi solo, si fece coraggio, si sputò sui palmi delle mani e si arrampicò fino al primo ramo.
Appena riuscì a mettersi a sedere, perse subito l’equilibrio e cadde di schiena verso terra.
Tyler era ormai abituato alle cadute. Lo chiamavano “il coppa del nonno” proprio per quello: era assolutamente negato in qualunque cosa riguardasse il movimento, l’agilità e lo sforzo fisico.
Dunque si rialzò abbastanza tranquillamente, si massaggiò la schiena dolorante e ritentò l’ascesa.
Stavolta riuscì ad arrivare fino al secondo ramo, poi sentì il cinguettio di una ghiandaia imitatrice, che lo fece voltare di scatto. Nello slancio cadde di nuovo, stavolta di stomaco, e rimase disteso a terra per alcuni secondi col fiato corto.
Ma Tyler non era tipo da arrendersi. Si rialzò ancora, e afferrò nuovamente il ramo per risalire fino in cima.
Quello sembrava essere il tentativo vincente. Pur traballando un po’, Tyler riuscì ad arrivare ad un’altezza sufficiente da permettergli di prendere delle ciliegie.
Allungò la mano, tutto compiaciuto, e afferrò il primo frutto.
-Serve una mano, Thomas?- domandò in quel momento una voce in fondo all’albero.
Tyler, colto di sorpresa, fece quasi un salto all’indietro. In un attimo sentì il suo corpo che scivolava lungo la superficie del ramo, poi vide la chioma della pianta allontanarsi sempre di più da lui.
L’ultima cosa che sentì, prima di perdere i sensi, fu un indescrivibile dolore alla testa.
Quando Tyler rinvenne, era disteso su un tappeto d’erba, supino. Una voce un po’appannata chiamava il suo nome, o per lo meno pensava di farlo.
-Tarquin? Ti senti bene?-
Tyler sbatté le palpebre. Di fronte a lui c’era un crocchio di persone, raccoglitori di frutta per lo più, e tra di loro spiccava una graziosa ragazza.
Lindsay. Alla vista della giovane la bocca di Tyler si curvò in un sorriso. Era irrimediabilmente, indescrivibilmente innamorato di lei, dei suoi splendidi occhi azzurri come il cielo sereno, dei suoi capelli, di un biondo che ricordava i limoni del loro distretto, del suo corpo grazioso e magro col quale poche altre ragazze di sua conoscenza potevano competere.
Ma in un attimo, il suo sorriso si mutò in una smorfia di vergogna. Perché in quel momento Tyler si ricordò di essere caduto giù dall’albero come un idiota proprio di fronte a lei.
Era per quello, infatti, che si guardava le spalle prima di iniziare l’arrampicata. Non voleva in alcun modo scalare quell’albero con lei accanto: sapeva che si sarebbe imbarazzato, per poi cadere rovinosamente, il che avrebbe compromesso non poco l’opinione della ragazza su di lui.
Tyler fu sollevato per le spalle da due uomini, che lo aiutarono a mettersi in piedi. Poco lontano, alcuni ragazzi della sua età ridacchiavano tra di loro.
-Che imbranato.- sussurrava uno.
-Cade sempre.- rispondeva un altro.
Tyler non fece nulla per opporsi. Si limitò a cercare di evitare lo sguardo di Lindsay, ma lei non sembrava affatto beffarda. Al contrario, pareva preoccuparsi per lui.
-Forse per oggi è… meglio per te se eviti di prendere parte al raccolto.- disse uno dei raccoglitori più anziani.
-Lindsay, portalo a casa, per favore.-
Lindsay, obbediente, prese la mano di Tyler e lo accompagnò verso il limitare del frutteto.
La ragazza non sembrava importarsi minimamente dell’incidente, anzi, guardava da un’altra parte con aria indifferente. Tyler, invece, non seppe trattenere un sospiro.
-Tutto bene, Telson?- domandò Lindsay premurosamente.
-No.- rispose Tyler. –Mi chiamo Tyler, innanzitutto. Poi, ho fatto la figura dell’imbecille cadendo da quell’albero.-
-Io non penso che tu sia un imbecille, Trevor.- disse Lindsay.
-Anche se ogni tanto cadi da un albero, non importa. Mi stai simpatico così.-
Tyler si sentì immensamente meglio dopo quell’affermazione. Questo era il bello di Lindsay: non era proprio una cima, ma quando voleva poteva trasformare una giornataccia in una buona giornata.
-Mi aiuteresti a prepararmi per la mietitura, Taylor?-
Il sorriso di Tyler si fece ancora più largo.  Sì, sembrava proprio un’ottima giornata.
Era talmente felice per l’accaduto, che non si accorse del sasso sul suo cammino. Inciampò, e prima di rendersene conto era faccia a terra.
Lindsay gli si avvicinò. –Ti sei fatto male, Theodore?-
 
Distretto 12
 
Era già mattino, e i minatori erano usciti a passo mesto per dirigersi verso le miniere di carbone. Erano un corteo di gente nerovestita e cupa, simile a uno sciame di corvi che vola su un cimitero.
Zoey li guardava avanzare dalla porta della sua casa, passandosi nervosamente una mano nei magnifici capelli vermigli. Ogni anno che passava, si avvicinava il periodo in cui lei sarebbe dovuta essere parte di quel corteo, come minatrice. La sola idea le metteva i brividi nel corpo. Tremava al solo pensiero di trascorrere il resto della propria vita dentro caverne strette, buie e maleodoranti, nelle quali c’era un alto rischio di crolli e la polvere di carbone si posava dappertutto.
Tuttavia, sapeva che c’era un modo per evitare quell’inferno: diventare guaritrice.
Quello era il suo sogno. Curare la gente, riportare sorrisi su bocche singhiozzanti, aiutare chi ne avesse bisogno era il desiderio più grande che avesse.
Aveva tutte le carte in regola: aveva superato da poco la paura del sangue, conosceva bene le erbe mediche e l’anatomia, ed era bravissima a calmare chi fosse agitato, qualità non da poco per i casi più gravi.
Sapeva che avrebbe potuto farcela. Ciononostante, non poteva non dispiacersi per tutti i poveri uomini e donne prigionieri ogni giorno in quelle terribili gallerie.
Ad un tratto, una figura indistinta apparve in fondo alla piazza. Zoey fece fatica, sulle prime, a distinguerne la fisionomia, poi tutto si fece più chiaro: erano un ragazzo e una ragazza, che trasportavano sulle spalle una terza persona, gemente.
-Zoey!- chiamò uno di loro. –Abbiamo bisogno di te!-
Zoey corse nella loro direzione. I due ragazzi adagiarono il loro compagno su una sedia, con delicatezza. La ragazza riconobbe il giovane agonizzante: si chiamava Mike, ed era stato un suo compagno di scuola tempo prima. Aveva in viso un’espressione di dolore, e la caviglia era impregnata di sangue.
-Mike è stato morso da un cane rabbioso.- esclamò concitatamente la ragazza.
-Abbiamo provato a chiamare il guaritore, ma non è in casa. Solo tu puoi aiutarlo.-
Zoey ascoltò, attonita. Sembrava tutto un orribile sogno. Le grida dei due ragazzi, il sangue, l’espressione sul viso di Mike…
Alla fine prese un po’ di coraggio e parlò.
-Portatelo dentro. Cercherò di curarlo come posso.-
I due ragazzi, obbedienti, condussero Mike dentro la casa della ragazza, e lo fecero adagiare su una sedia; poi se ne andarono correndo, molto traumatizzati per l’accaduto.
Zoey prese da uno scaffale delle erbe medicinali, le versò dentro una ciotola e cominciò a triturarle con un pestello.
-Tu sei… Zoey, vero?- domandò Mike con voce tremante.
-Ti ho già vista da qualche parte. Eri la ragazzina timida del terzo banco, vero?-
-Beh…- Zoey cercava di concentrarsi sulle erbe nel mortaio, ma un rossore improvviso le colorò le guance.
-Penso di sì… ero davvero così timida?-
-Un pochino lo eri… ahi!-
Mike emise un sottile urlo, evidentemente a causa della gamba ferita. Sul taglio si stava sviluppando il principio di un’infezione.
Appena l’urlo cessò, il viso di Mike cambiò tutto. Strinse gli occhi, incurvò la schiena e irrigidì le braccia. Strane rughe si formarono sulla sua pelle, raggrinzendola con orribili contrazioni.
Zoey alzò per un attimo gli occhi dal mortaio. Voltatasi verso il ferito, rabbrividì. Mike sembrava un altro, con quel viso così contorto e quell’espressione di puro sdegno.
-Tutto a posto, Mike?- domandò preoccupata.
-Mike? Chi è Mike?- fu la risposta.
Zoey rabbrividì nuovamente: la voce del ragazzo era cambiata tutta, si era trasformata in un gracchiare astioso che ricordava di aver visto solo in alcuni degli abitanti più anziani del distretto.
-Io mi chiamo Chester, signorina.-
Chester… la cosa era sempre più strana. Zoey decise di non pensarci: in quel momento la priorità era medicare la gamba del ragazzo.
-Ho… ho preparato un impacco di erbe.- disse la ragazza dopo un attimo di pausa.
-Dovrebbe bastare a bloccare l’infezione.-
-Sbrigati, Zoey!- gracchiò nuovamente Mike, o meglio Chester.
-Pensi che la ferita guarisca da sola?-
Zoey corse come un lampo verso di lui, e applicò febbrilmente la mistura erbacea sulla ferita. Sin dall’inizio cominciarono ad apparire i primi risultati: la ferita parve meno rossa, e i segni dell’infezione incombente si fecero meno evidenti. Anche il viso di Chester si fece più rilassato.
-Beh, era ora.- disse stizzosamente.
-Devi applicarti ancora un po’, se vuoi diventare una guaritrice.-
Senza nemmeno fermarsi a ringraziare, Chester si alzò dalla sedia, e avanzò verso la porta d’ingresso, tenendo una mano premuta contro la propria schiena, come se gli dolesse.
Zoey lo guardò avanzare, in parte rattristata dalla scortese reazione avuta. Eppure, in altri momenti Mike era un ragazzo così cordiale… Proprio non sapeva spiegarsi il perché di quegli scambi di personalità.
Decise di non pensarci, e lasciò che i suoi pensieri corressero verso la mietitura incombente.
Zoey aveva paura. L’arena era sempre un posto pieno di pericoli, e per un tributo del distretto 12, poi, le speranze di sopravvivere erano davvero poche.
Come avrebbe desiderato avere Mike accanto, durante quel momento terribile.
 
Angolo Autrice
Hello!
Questo è il mio nuovo (credo) capolavoro. Non ricordo come ho concepito questa idea, ma non importa: vado abbastanza fiera di quello che ho scritto, e mi auguro con tutto il cuore che vi sia piaciuto.
È un crossover e un AU, e sarà ambientato nello stato di Panem come una qualunque edizione degli HG. Come forse avete visto, Chris McLean interpreterà il Presidente Coriolanus Snow; ho preparato una parte adatta a tutti, e spero di aver creato dei buoni abbinamenti.
Ecco come ho associato i concorrenti ai vari distretti.
Distretto 1: oggetti di lusso. Un’ereditiera come Dakota ci stava a pennello. Magari Sam sembra un po’ fuori posto, ma non ho potuto farci nulla.
Distretto 2: opere murarie e Pacificatori. Questa era facile: dal 2 vengono sempre degli strafavoriti cattivissimi… direi che Alejandro e Heather svolgono magnificamente questo ruolo. E poi, Josè come ex vincitore mi piaceva abbastanza.
Distretto 3: tecnologia. Harold, che è un nerd, ci sta piuttosto bene, dunque anche Leshawna.
Distretto 4: pesca. Anche qui non c’era nemmeno partita: due amanti dell’acqua come Geoff e Bridgette sembravano costruiti a tavolino.
Distretto 5: energia. Izzy era perfetta, è essa stessa energia. Con lei ho messo Owen, quindi non cercate la Nizzy perché NON la troverete. Odio visceralmente quella coppia.
Distretto 6: trasporti. Jo e Brick mi sembrava ci stessero bene.
Distretto 7: legname e carta. Insomma, Dawn medita nel bosco e Scott intaglia il legno… che vuoi di più?
Distretto 8: tessuti. Gwen mi sembrava ci stesse bene, e anche Trent non si incastra maluccio.
Distretto 9: cereali. Courtney e Duncan non sembrano fatti apposta per quella parte, ma… diciamocelo, era l’unico che restava. 
Distretto 10: allevamento. L’idea del gregge di Sierra mi mandava letteralmente in solluchero. Povero Cody… da solo con quella pazza.
Distretto 11: agricoltura. Lindsay è un po’ un fiorellino. E Tyler ha a disposizione molte radici nelle quali inciampare.
Distretto 12: miniere di carbone. Quello è un po’ il distretto dei bravi ragazzi. Zoey e Mike ci stanno abbastanza bene. 
Per eventuali errori di grammatica, carenze nella forma, OOC e quant’altro, non avete che da dirmelo.
A presto e grazie mille.
MiticaBEP97
Ps: vi piacciono i Black Eyed Peas?
  
Leggi le 11 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fumetti/Cartoni americani > A tutto reality/Total Drama / Vai alla pagina dell'autore: Lady R Of Rage