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Autore: Lady R Of Rage    25/02/2013    9 recensioni
Dawn non rispose. Si limitò a prendere un coltello di piccole dimensioni, e a passarlo impercettibilmente sul proprio dito. Un sottile taglio si era aperto in corrispondenza del dito.
-E questo cosa sarebbe?- domandò Scott. Cominciava a chiedersi se Dawn fosse del tutto sana di mente.
Ma Dawn sorrise, placida, e si passò sul dito la miscela di erbe. In pochi attimi, la ferita era scomparsa.
-Lo vedi?- domandò la ragazza a uno Scott ammutolito e senza parole.
-Non basta saper uccidere, per vincere.-

Ventiquattro ragazzi innocenti sono stati sorteggiati, come ogni anno, per combattere negli Hunger Games, il reality infernale dove per vincere bisogna uccidere.
Dovranno lottare contro i loro nemici e contro le avversità, ma soprattutto contro loro stessi.
Saranno vincitori o saranno vinti.
E uno solo sopravviverà.
[AU| Crossover Total Drama/Hunger Games | Pairing: un po' tutti]
Genere: Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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Capitolo 2

 
Distretto 1
 
Dakota era ancora più graziosa del suo solito, con quell’abito così roseo e leggero che evidenziava gradevolmente il suo corpo flessuoso e la sua carnagione abbronzata.
E i capelli, poi…
Erano stati attorcigliati in ricci complicatissimi, poi lisciati ancora, dopodiché fermati in cima alla testa con nastri e forcine… il risultato era, almeno agli occhi di Sam, un vero e proprio monumento alla bellezza.
Non che lui avesse fatto grandi sforzi per prepararsi alla mietitura. Indossava semplicemente una camicia pulita, dei pantaloni stirati di umile cotone e delle scarpe di cuoio marrone, in più poco lucidate.
Ma non se ne curava particolarmente: gli avevano detto che l’abito non fa il monaco.
Si accontentava di guardarla da lontano, in mezzo a tutti gli altri ragazzi, così grandi e letali, che facevano la fila per essere registrati.
Dopo la puntura delle dita, i tributi vennero suddivisi tra ragazzi e ragazze, e sul palco cominciarono ad affluire i primi mentori. Il distretto 1, come distretto di Favoriti, ne aveva un discreto numero.
Dopo la proiezione, uguale ogni anno, del filmato sui Giorni Bui, iniziò finalmente la mietitura vera e propria.
L’accompagnatrice capitolina si presentò sul palco, indossando un abito rosso fuoco in lucido latex. Sembrava un’aragosta bollita, nonostante la parrucca bluastra riducesse molto quella somiglianza.
-Benvenuti.- prese a dire. –Benvenuti a tutti, cari ragazzi, benvenu…-
Ma in quella un boato attraversò il palco. Una voce maschile, vivace e sbruffona, declamò:
-Shabam! Dite ciao a Lightning, il vostro mentore!-
La platea scoppiò a ridere. Un uomo sui venticinque anni, muscoloso e corpulento, si era presentato sulla cima del palco con un balzo felino, e dopo aver spinto via con malagrazia la povera donna, si era messo ad ancheggiare avanti e indietro, muovendo le braccia toniche come per sollevare pesi immaginari.
-Spero che quest’anno ci sia almeno un vincitore, tra di voi.- disse rivolto al pubblico.
-Il nostro è un distretto di vincitori. Lightning vuole che sha-vinciate!-
-Qualcosa mi dice che, invece, tu hai sha-bevuto!- gridò una voce nel pubblico.
Un’ondata di risa si propagò per la platea. Lightning assunse un’espressione indispettita, pur consapevole del fatto che, come purtroppo capitava a molti mentori, aveva effettivamente mandato giù un bicchierino o due. Aveva vinto gli Hunger Games una decina di anni prima, a quindici anni, e da allora era diventato dipendente dall’alcool e da una sostanza semisolida, un potente stupefacente, che i chimici di Capitol City chiamavano semplicemente “proteine”.
Tuttavia, come mentore del distretto 1, era in qualche modo costretto ad atteggiarsi da duro, e non raccontava mai a nessuno quegli incubi e quelle dipendenze, nemmeno a suo padre, anche lui ex vincitore.
-Ehm… bene…- l’accompagnatrice ricomparve sul palco, con la parrucca di traverso e il trucco inumidito dal sudore.
-Passiamo alle mietiture, invece. Prima le signore!-
Così dicendo, la donna allungò la mano verso una delle due bocce di vetro, e dopo un attimo di esitazione prese un biglietto.
-Cassida…-
-Fermi!-
La vocetta acuta proveniente dalla platea fece sobbalzare la capitolina, il pubblico, e persino i mentori, incluso lo sbronzo Lightning che giocherellava con un ciondolo a forma di saetta.
Incespicando nel vestito lungo, Dakota riuscì a salire fino al palco, e sistemandosi alcune ciocche che cadevano dall’acconciatura proclamò in tono teatrale:
-Sono Dakota Milton, la figlia del sindaco Milton, e mi offro volontaria.-
Sam rabbrividì. Lo aveva fatto veramente.
-Beh…- disse, dopo una breve esitazione, la capitolina. –Possiamo passare ai ragazzi, allora.-
Mentre la donna si avvicinava alla boccia dei ragazzi, Sam sentiva un profondo vuoto nello stomaco. La visione della bella e biondissima Dakota, che saliva sul palco verso forse la morte, era troppo per lui.
Quanta bellezza violata in un attimo.
Dakota regalava sorrisini e mandava baci a tutti, come se non gliene importasse nulla.
Sam, invece, tratteneva le lacrime. Almeno fino a quando non fu pronunciato il nome maschile.
-Samuel Froud.-
Era il suo nome.
Come mosso da un impulso soprannaturale, il ragazzo si avviò a passi lenti sul palcoscenico.
-Bene, ragazzi.- disse l’accompagnatrice. –Ci sono volontari?-
Sam rivolse un febbrile sguardo al pubblico, aspettandosi di vedere, come gli altri anni, almeno una mano alzata. Ma, inaspettatamente, non ce ne furono. Niente volontari.
-Ecco a voi i nostri tributi: Dakota Milton e Samuel Froud!- esclamò la capitolina.
Dakota continuava a sorridere e a mandare bacini. Sam, invece, sudava freddo. Già sapeva che non ne sarebbe uscito vivo.
Strinse la mano alla compagna, reggendosi a malapena in piedi, e si avviò assieme a lei, a l’accompagnatrice e ai mentori verso il Palazzo di Giustizia.
L’ultima cosa che vide prima che la porta si chiudesse fu Lightning, che vomitava sul palcoscenico pollo e proteine.
Sarebbe diventata così anche Dakota, se avesse vinto?
E di lui, cosa sarebbe rimasto?
 
Distretto 2
 
Solo, in mezzo a tutti quei ragazzi, Alejandro attendeva.
Mentre la Pacificatrice di turno gli pungeva il dito con quell’ago per registrarne il DNA, lui attendeva il suo momento di gloria. Il momento in cui avrebbe dimostrato a Josè che si sbagliava sul suo conto.
Avrebbe eliminato uno a uno i suoi avversari, dai più deboli ai più spietati, e avrebbe lasciato per ultima quella Heather che tanto detestava. Le avrebbe riservato la parte peggiore, il momento clou dello spettacolo che avrebbe mostrato a tutta Panem.
I tributi affluivano negli spalti come mosche attratte dal miele. Molti di essi erano potenti Favoriti.
-Sei ben allenato, vedo.- disse uno di loro a un altro, che dimostrava sì e no quattordici anni.
-Lo so.- rispose il ragazzino. –L’anno prossimo andrò volontario, e vincerò come ha fatto mamma.-
Quest’anno, invece, sarebbe stato lui, Alejandro, a offrirsi volontario. E a vincere.
Aveva già raggiunto il centro della folla quando la vide.
Heather. Nel bel mezzo della massa delle ragazze.
Indossava un semplice abito di candido cotone, e aveva i capelli legati in una piccola coda.
Alejandro non lo avrebbe mai ammesso, ma era veramente molto carina.
Non che lui non lo fosse, ovviamente. La maglia bianca e attillata mostrava i muscoli e l’abbronzatura agli sguardi adoranti delle Favorite, e i capelli lunghi erano più splendidi che mai.
I mentori cominciavano ad affluire sul palco. Tra loro c’era anche Josè.
Il giovane rivolse uno sguardo alla folla, con aria di scherno, fino a che non trovò gli occhi del fratello minore. Appena fu certo di avere la sua attenzione, compì un gesto alquanto sfacciato: portò un dito alla gola e lo fece scorrere orizzontalmente su di essa. Poi disse qualcosa muovendo le labbra.
Alejandro lesse la frase pronunciata dal fratello sulla sua bocca: “Sei morto, Al”.
Un’ammonizione, un pronostico, o semplicemente una delle solite battute pesanti?
Lui non lo sapeva, ma era più che mai determinato a dimostrare a Josè che si sbagliava sul suo conto.
L’accompagnatrice apparve sul palco, in un tintinnio di gioielli. Salutò un paio di volte il pubblico, poi, terminata la proiezione di quell’orrendo filmato, infilò la mano nella prima vasca di vetro.
-E il tributo femminile di quest’anno è…-
Fu un attimo. Heather scattò in avanti, spingendo via le altre ragazze con le mani, e corse verso il palco gridando: -Mi offro volontaria!-.
La capitolina non batté ciglio. –Va bene…- disse dopo un attimo di esitazione – Dicci il tuo nome, cara.-
-Heather.- essarispose. –Heather Wilson.-.
La ragazza sorrise al pubblico, ammiccando ad alcune coetanee che avrebbero voluto offrirsi al suo posto, poi passò alla bancata maschile. I suoi occhi scuri trovarono quelli verdi di Alejandro.
-Non hai speranze.- pronunciò a bassa voce. La frecciatina era, ovviamente, rivolta a lui.
Heather guardò Josè e i due si scambiarono uno sguardo complice.
Una vampa di furia percorse il corpo di Alejandro. Ogni secondo che passava, quella ragazza lo rendeva sempre più nervoso.
Ragione in più per offrirsi volontario: glie l’avrebbe fatta vedere, oh, se l’avrebbe fatto.
L’accompagnatrice aveva appena sfiorato con la mano il secondo biglietto, che una voce esplose dalla bancata maschile.
-Anch’io mi offro volontario!-
Josè emise un risolino compiaciuto, e squadrò dall’alto in basso il fratello che correva sul palco. Carlos, in fondo alla piazza insieme ai genitori dei tributi, chinò la testa verso il suolo ed emise un sospiro. Non aveva il coraggio di vedere un altro suo fratello che saliva su quel maledetto palcoscenico.
-Mi chiamo Alejandro Burromuerto.- disse il ragazzo conclusa la salita.
La presentatrice parve impressionata: -Il fratello di Josè Burromuerto? Abbiamo sentito molto parlare di te. Vieni pure, caro. Benissimo, tributi. Potete stringervi la mano.-
Le mani dei due ragazzi si unirono in una granitica stretta. Heather e Alejandro avevano l’una gli occhi fissi in quelli dell’altro, le labbra curvate in dei sottili sogghigni, fieri e invincibili come aquile rapaci.
-Sei muerto, Burromuerto.- disse la ragazza a bassa voce.
-Prima le signore.- rispose lui senza scomporsi.
Mentre i due tributi si dirigevano verso il Palazzo di Giustizia, Alejandro rivolse un ultimo sguardo a Josè.
Forse si sbagliava: era una lacrima, quella che vedeva sulla sua guancia?
 
Distretto 3
 
Con un leggero tremore nel corpo, Harold porse il braccio all’ uomo di fronte a lui, affinché quello potesse prelevarne il sangue.
Mentre l’ago penetrava in profondità nella sua pelle, Harold cercava con gli occhi Leshawna.
Finalmente la vide: indossava un abito semplice e stinto, come se non potesse permettersi altro abbigliamento. Con lei c’era una seconda ragazza, simile a lei, ma più corpulenta, che indossava abiti vistosi e gioielli dai colori sgargianti. Sembrava anch’ella una capitolina.
-Buon pomeriggio, Leshawnina.- esclamò il tributo correndole incontro.
-Ciao, Harold.- disse l’afroamericana, senza tuttavia nascondere una venatura di panico nella voce.
Harold non poté fare a meno di notarla:- Qualcosa ti turba, mia cara?-
-Ma chi è?- domandò l’altra ragazza.
-Un amico…- rispose Leshawna distrattamente. Nessuno dei tre pensò alle presentazioni: il momento era troppo intenso per preoccuparsene.
-Scusami, Harold, ma al momento non vorrei parlarne. Ci vediamo quando hanno finito, va bene?-
Harold rispose con uno stentato “va bene”, e si diresse mestamente verso il gruppo dei ragazzi.
-C’è qualcosa che non va, cuginetta?- domandò intanto l’altra ragazza a Leshawna.
-No, no, sto bene.- rispose Leshawna. –Ho solo paura di essere estratta. Speriamo che anche quest’anno tocchi a qualcun altro.-
-Già…- disse l’altra mestamente. A quanto pare, anche lei aveva un discreto numero di biglietti dalla sua.
Quando tutti presero posto, una creatura che poco aveva di umano si presentò sul palco a passi traballanti.
Un tempo doveva essere stato un uomo sulla quarantina, ma in quel momento assomigliava molto di più a un gatto denutrito. La pelle era tinta di arancione acceso, e i capelli, che pure conservavano l’originale colore nero, erano sparati in ogni direzione, con un penoso effetto di parrucchiere che avrebbe dovuto imitare, forse, la criniera di un leone.
-Ogni anno sembrano più scemi.- sussurrò Leshawna alla compagna ridacchiando.
-Questo sembra sopravvissuto a un disastro pirotecnico.- sogghignò l’altra, battendo un basso “cinque” alla cugina.
La creatura semi umana pronunciò un breve e poco interessante discorso, poi fu proiettato il solito video sulla nascita di Panem e degli Hunger Games. Quando l’essere mosse i primi passi verso la boccetta delle ragazze, il brusio che prima percorreva la folla si dissipò. Tutte le ragazze incrociarono le dita e tremarono.
“Non estrarre la mia Leshawna, ti prego” implorava Harold nella testa.
-Leshaw…- pronunciò il capitolino. Harold ebbe una fitta al cuore.
-… niqua Edwards.-
Leshawniqua. Non Leshawna, ma qualcuno che le assomigliava in modo impressionante.
Mentre tirava un sospiro di sollievo, Harold vide la ragazza sconosciuta di prima salire a passi mesti sul palcoscenico. Aveva ragione, assomigliava molto a Leshawna. Forse era una sua parente.
Capì che per Leshawna sarebbe stato molto duro. E giurò a sé stesso che le sarebbe stato vicino, come un vero cavaliere.
-No! Fermi tutti!-
Harold rabbrividì. Leshawna correva sul palco, come una Favorita che si offre volontaria.
-Nessuno manda la mia cuginetta preferita al macello. È fuori questione.- imprecò verso il capitolino.
Harold capì che non si era sbagliato: erano parenti. E aveva un brutto presentimento sulle intenzioni della ragazza amata.
-Lei lì non ci va.- continuava a sbraitare Leshawna. –Mi offro volontaria. Sta tranquilla, Leshawniqua- disse poi rivolta alla cugina. –tornerò da te.-
Due Pacificatori afferrarono Leshawniqua per le spalle e la trascinarono giù dal palco, nonostante le sue grida. Leshawna, che si cominciava a rendere conto dell’azione compiuta, aveva perso la sua baldanza e non nascondeva un pallore di paura, ma cercava di apparire fiera e coraggiosa, per non far pensare agli spettatori di avere a che fare con una ragazza debole. E Harold, in mezzo ai ragazzi, era pietrificato dall’orrore.
Che si fece, se possibile, ancora più grande, quando fu estratto il nome maschile:
-Harold McGrady.-
Il suo nome
 
Distretto 4
 
“Non tocca a te… non tocca a te… non tocca a te…”
Questo era il mantra con il quale Geoff cercava di mantenersi calmo mentre si avviava verso la piazza.
“Estrarranno qualcun altro” si disse tormentandosi i polsini della camicia. “E dopo, io e Bridgette ce ne andremo a fare una bella nuotata soli soletti in mare aperto”
E a proposito di Bridgette: eccola lì, che procedeva a passi stentati come se non ricordasse in che direzione dovesse andare.
Era carina. Molto carina. Indossava un semplice abito azzurro, e i capelli erano raccolti in una semplice coda di cavallo. Al collo portava una graziosa collana di conchiglie, che le aveva fatto lo stesso Geoff come portafortuna per la mietitura di alcuni anni prima.
Nel vederla così spaesata, il cuore di Geoff ebbe un fremito. Per un attimo dimenticò la mietitura e gli Hunger Games, e si avvicinò a lei sorridendole.
-Ehi, Bridgette.-
Lei ricambiò con un piccolo sorriso, screziato di paura.
-Non voglio andare in quell’arena.- esclamò poi. –Io non so uccidere.-
Il che, detto da una ragazza che nel distretto della pesca mangiava prevalentemente alghe e verdura, era la pura verità.
Vedendola così, Geoff le cinse le spalle col braccio, e le rivolse un dolce sguardo.
-Non aver paura, piccola. Non toccherà mai a nessuno di noi due. Vedrai che andrà tutto bene.-
-Lo spero…- mormorò Bridgette. Tuttavia sembrava ancora poco tranquilla.
-Fidati di me.- disse Geoff. Avrebbe voluto consolarla ancora, ma era arrivato il momento di allinearsi.
Quell’anno, Blaineley aveva deciso di puntare sul provocante. Indossava un abito rosso scarlatto, di una stoffa liscia e leggera, dalla prominente scollatura e dal profondo spacco che lasciava trapelare due gambe non perfettamente depilate. Le scarpe erano di un rosso altrettanto acceso, con alti e sottili tacchi, e avevano l’aria stretta e scomoda. Era truccata vistosamente, e i gioielli che indossava erano così grandi che qualcuno giurò di averla vista traballare in avanti per il peso della collana. I capelli biondo oro della donna erano intrecciati in una specie di torre in cima alla testa, da cui scappava fuori qualche ciuffo poco disciplinato.
-Buon pomeriggio a tutti, e benvenuti alla mietitura.- esclamò in un tono di voce fin troppo allegro.
-Oggi abbiamo con noi, nientemeno che la vostra cara Blaineley!-
Un silenzio imbarazzato seguì all’affermazione della capitolina. Lei, senza scomporsi, si sistemò i capelli sulla testa (era forse una parrucca?) e ordinò che fosse proiettato il filmato sui Giorni Bui.
-Che video fantastico.- esalò alla fine della proiezione. –Non trovate magnifico lo sforzo del nostro amato presidente McLean per rendere ogni anno i giochi più interessanti?-
Nuovamente silenzio. Blaineley parve sempre più indispettita.
-Incompetenti.- sbottò. –Passiamo all’estrazione, che è meglio.-
Caracollando sui tacchi, la capitolina si avvicinò alla boccia delle ragazze e tirò fuori un biglietto.
Geoff guardò Bridgette. Era pallida in viso, e giocherellava con la collana di conchiglie.
-E il tributo femminile del distretto 4 è… BridgetteFairlie.-
Nell’attimo esatto in cui fu pronunciato il suo nome, Bridgette strattonò la collana con un impeto tale da rompere il filo. Le conchiglie caddero verso il suolo, e alcune si ruppero toccando terra.
-Dove sei?- chiamava intanto Blaineley. –Non ho mica tutto il giorno.-
Come ipnotizzata, Bridgette si diresse verso il palco, scortata da quattro Pacificatori.
-Bridgette!-. Geoff corse in direzione dell’amata, chiamando a gran voce il suo nome. Aveva gli occhi sbarrati per lo shock, e i capelli spettinati.
Altri due Pacificatori lo afferrarono per le braccia, e lo trascinarono fino alla bancata maschile.
Blaineley non parve preoccuparsi ne della sua reazione, né delle lacrime che Bridgette tratteneva a fatica.
-Molto bene! E adesso…- disse avvicinandosi alla seconda boccia. –Il giovane uomo.-
Geoff si reggeva a malapena in piedi, e stava appoggiato a un palo mordendosi le labbra per non piangere.
-Geoffrey Petronijevic.-
Era lui!
Geoff salì sul palco nello stesso modo di Bridgette, come sotto ipnosi.
Blaineley ordinò loro di stringersi la mano. Geoff prese quella, tremante, che Bridgette gli porgeva, e la strinse per confortarla. Uscirono di scena mano nella mano.
Blaineley era letteralmente estasiata. –Che emozione.- cinguettò.
-Per quest’anno abbiamo finito, ma ricordatevi che per la prossima mietitura ci sono sempre io: BlaineleyStaceyAndrewsO’Hallorann!-
Stavolta il silenzio fu accompagnato da un gesto insolito. Qualcuno, dal pubblico, lanciò un pesce ormai marcio verso il palco, centrando con precisione il volto della capitolina. La donna, nell’impatto, cadde all’indietro. La chioma bionda e lucente scivolò giù da sopra la sua testa, e atterrò silenziosamente sul pavimento del palcoscenico, lasciando il posto ad alcune stentate ciocche meno lisce, di un giallo molto più spento. Era veramente una parrucca!
Il pubblicò esplose in una risata incontrollabile. Persino i Pacificatori non intervennero per scoprire l’autore di quell’azione così sfacciata, occupati com’erano a ridere a crepapelle.
Blaineley ebbe per lo meno il buonsenso di non rispondere. Si limitò a rialzarsi da terra, a sistemarsi l’abito rosso, e rimettere la parrucca al suo posto in cima alla testa.
-Questa è maleducazione.- sbottò indispettita. Dopodiché si incamminò a grandi passi verso l’uscita, maledicendo chiunque le avesse assegnato proprio il distretto dei pescatori.
 
Distretto 5
 
Davanti allo specchio, Noah si sistemava la cravatta, pensieroso.
Era passato già un anno da quando era stato estratto alla mietitura precedente. Aveva vinto, sì, ma non era più stato lo stesso. Mai avrebbe potuto dimenticare tutto quel sangue, tutta quella morte, tutte quelle urla di ragazzi e ragazze innocenti.
E quell’anno avrebbe anche dovuto fare da mentore ai tributi estratti. Ma non se la sentiva. Avrebbe delegato il compito a qualcun altro. Mai avrebbe sopportato di rivivere tutti quegli orrori da vicino.
-Ehi, Noah!- chiamò una voce gioviale dalla finestra.
Sulle labbra di Noah apparve un piccolo, impercettibile sorriso. Se eri di cattivo umore, nulla era più efficace di Owen per tirartelo un po’ su.
Il ragazzo sovrappeso si avvicinò a lui con un’espressione felice sul viso paffuto. Noah rispose al saluto con un leggero cenno della mano.
-Come va? Disturbo?- domandò Owen. –Vuoi una mano con la cravatta?-
E prima che Noah potesse fare alcunché, Owen strinse l’indumento vigorosamente intorno al collo dell’altro, che prese ad ansimare in cerca di ossigeno.
-Ti ringrazio, ma sto bene così.- imprecò Noah, liberandosi dalle braccia di Owen e allargando il nodo della cravatta in modo da permettergli di respirare normalmente. Quel ragazzo, alle volte, era così invadente…
Invadente, sì, ma molto simpatico. Ed era sempre capace di metterti di buon umore.
-Come mai sei venuto qui?- chiese Noah. –Devo andare all’appuntamento dagli altri mentori.-
-Pensavo che sarebbe stato carino andarci insieme.- rispose Owen. –Ti va?-
Noah annuì. Owen, nel frattempo, aveva intravisto alcune mele in un angolo della cucina, e se le stava allegramente sbafando.
-Smettila di saccheggiarmi la dispensa, e andiamo.-  Noah afferrò vigorosamente il braccio di Owen, e lo trascinò via dalle vettovaglie. Poi, i due amici si incamminarono verso la piazza fianco a fianco.
Era un abbinamento quasi buffo: un ragazzo dalla pelle color nocciola, basso e mingherlino, affiancato all’enorme Owen dalla pelle rosata. Ma Noah non se ne curava: stava bene, in fondo, con l’amico accanto.
Improvvisamente, qualcosa di molto rumoroso atterrò in mezzo a loro. Noah sentì due braccia afferrarlo, e nell’arco di due secondi si trovò stritolato nuovamente, nell’abbraccio tentacolare che Izzy gli stava dedicando.
-Il mio piccolo amico Noah!- strillò la ragazza. –Come sono felice di vederti!-
-Anch’io sono felice di vederti, Izzy.- fece l’altro cercando di svicolare. –E sarei molto più felice se mi lasciassi un po’ di ossigeno.-
Izzy si staccò. –Posso venire alla mietitura con voi? Così chiacchieriamo.-
-Dai, Noah, facciamola venire.- disse Owen.
-Va bene.- fu la secca risposta. E così, lo strano trio si diresse verso la piazza dove sarebbero stati estratti i nomi.
Giunti là, Noah si congedò dagli altri due per unirsi ai mentori. Owen e Izzy lo salutarono con la mano.
-Che tipo, il nostro Noah.- trillò Izzy. –Vorrei tanto averlo come mentore, se mi estraessero.-
Era calma mentre parlava. Sin troppo calma per l’occasione.
-Non vorrai davvero essere estratta?- domandò un orripilato Owen.
-Certo che no.- rispose Izzy. –Là dentro ci si muore. Volevo solo dire che, nel caso in cui toccasse a me, sarebbe carino condividere i miei ultimi momenti con uno dei miei amici più cari. Non trovi anche tu che sarebbe pazzesco, Owen?-
Owen lasciò uscire uno stentato “sì”. Mentre guardava Izzy che si univa alla bancata delle ragazze, sospirò. Non voleva perderla.
Finalmente l’accompagnatrice salì sul palco, mostrando un volto completamente coperto da tatuaggi che riproducevano fiori e foglie. Noah la guardava disgustato.
Come potevano quei capitolini essere così insensibili alla morte di tutti quei ragazzi?
A volte pensava di non essere stato così fortunato, a vincere. Se era riuscito a prevalere su Favoriti grossi anche il doppio di lui, era stato solo grazie alla sua capacità di passare inosservato, di non farsi notare. Nessuno aveva fatto caso al nanerottolo insignificante del distretto 5. Peccato che quel nanerottolo, alla fine, avesse prevalso su tutti.
“Ti prego, fa che quest’anno non sia troppo crudo” pensò tra sé e sé. “Non ce la farei proprio.”.
Nel frattempo, l’accompagnatrice si era avvicinata alla boccia delle ragazze, e ne aveva estratto una nome. Quando lo pronunciò, Noah trattenne a stento un sussulto.
-Isabella Crown.-
Izzy. Noah la cercò con gli occhi sulla strada verso il palco, ma non la vide.
-Isabella Crown.- ripeté stizzita l’accompagnatrice.
-Io non sono Isabella.- rispose una voce nella platea. –Io sono il sergente Caleido.-
Noah non poté reprimere un sorrisetto di compiacimento: quella ragazza era persino più complicata di quegli odiosi capitolini.
-E va bene…- diceva intanto l’accompagnatrice con fare stizzito. –Sergente Caleido, vieni sul palco. Sei stata estratta.-
Owen si coprì gli occhi per non vedere la sua ragazza che andava al patibolo. Izzy, nel frattempo, non pareva minimamente preoccupata, e si avvicinava al palco saltellando.
-Caleidoscopio vince su tutti!- strillò appena conclusa l’ascesa. La capitolina indietreggiò intimidita, e nel vederla così intimorita alcuni tra il pubblico esplosero in ovazioni. Detestavano quella donna così colorata.
Noah stava sulla sua sedia, in silenzio. Izzy stava andando a morire, e lui non poteva far nulla per salvarla.
Beh, qualcosa poteva fare… ma ne avrebbe mai avuto il coraggio?
Noah poté darsi una risposta solo quando la capitolina estrasse anche il nome maschile.
-Owen McKinnow.-
Owen si incamminò verso il palco, ma in modo completamente diverso da Izzy: procedeva a piccoli passi, guardando tristemente verso terra. Appena fu vicino a Izzy, la ragazza gli saltò al collo eccitata.
-Almeno saremo insieme, no?-
Owen non ebbe la forza di rispondere. Strinse più forte la mano di Izzy, e rivolse a Noah un mesto sguardo. Uno sguardo di addio.
Mentre i due neo tributi si allontanavano, e anche su Izzy cominciavano ad apparire i primi segni della paura di morire, Noah fece un giuramento silenzioso a sé stesso.
Decise che avrebbe fatto il mentore. E giurò che avrebbe lottato, con tutte le sue forze, per permettere ad almeno uno di loro di tornare a casa vivo.
 
Distretto 6
 
-Avanti il prossimo.-
Brick si avvicinò tremante al Pacificatore corpulento che attendeva di fronte a lui con una siringa affilata in mano. Tese il braccio, e trattenne il respiro mentre il suo sangue veniva estratto con un risucchio dello stantuffo.
-Stai tremando tutto, ragazzo.- disse l’uomo con fare scontroso. –Paura del sangue?-
-Un pochetto… ma posso sopportarlo.- balbettò Brick in risposta.
Il giovane era pallidissimo, sudava freddo, e si mordeva l’interno del palato fin quasi a ferirsi per la tensione. Non aveva mai sopportato le mietiture.
Decise di darsi un contegno, e avanzò a passetti stentati verso la piazza.
Improvvisamente una voce strillante lo fece voltare di scatto. Un Pacificatore dall’aria infastidita stava discutendo animatamente con una seconda persona. E quella persona aveva l’aria piuttosto familiare.
Era Jo. Alla fine la ragazza non aveva più indossato un “noioso vestitino fru fru”, come aveva detto quella mattina. Si era presentata, invece, con addosso una sobria camicia e dei pantaloni marroncini. In quel momento aveva l’aria più nervosa che mai, e inveiva contro il Pacificatore di fronte a lei con il tono di voce usato dalle madri arrabbiate con le maestre dei figli.
-Lei non capisce niente!- urlò la ragazza contro l’interlocutore. -Io sono una donna.-
-Con me non attacca, ragazzino.- rispose l’uomo, sempre più infastidito. –Il trucco è vecchio. Va con gli altri maschi e non seccarmi.-
Nonostante la mietitura fosse prossima a incominciare, Brick non potè fare a meno di ridacchiare sotto i baffi. Jo era stata veramente scambiata per un ragazzo?
Effettivamente era vestita come un ragazzo, e i capelli corti, il fisico androgino e la voce profonda accentuavano molto questa somiglianza.
Jo era veramente buffa, tra l’altro, mentre si accalorava tutta nella discussione: aveva il viso rosso, e gli occhi tanto dilatati da sembrare finti.
A ogni modo, la discussione stava prendendo veramente una brutta piega: Jo era passata alle volgarità, e Brick sapeva che, se la discussione fosse andata per le lunghe, la ragazza sarebbe stata probabilmente arrestata e condotta via con l’accusa di tentare di sottrarsi alla mietitura.
In quel momento, Brick vide Jo mettere mano alla cerniera dei pantaloni.
-Guarda cosa mi tocca fare per mostrare a ‘sti qua che sono una ragazza.- protestò.
Brick sapeva che lo avrebbe fatto. Corse verso i due litiganti, e bloccò la mano di Jo che abbassava la cerniera.
-Ferma, non è necessario.- disse. –Garantisco io per lei. È veramente una femmina. Può fidarsi di me.-
Il Pacificatore parve, ovviamente, molto imbarazzato.
-Beh, se le cose stanno così… la signorina può andare. Mi scuso tantissimo per il disguido.-
-Mi sembra il minimo, razza di imbecille.- rispose Jo. –Non sai nemmeno riconoscere una donna, quando la vedi.-
-Vieni, Jo, meglio andarsene.- si intromise Brick, portando via la ragazza prima che dicesse cose di cui si sarebbe poi pentita.
Una volta lontani dal luogo della discussione, Jo si rivolse a Brick in tono più tranquillo.
-Devo ammetterlo, Sergente Piscione. Te la sei cavata piuttosto bene.- disse tutta compiaciuta, battendo una fragorosa pacca sulla spalla di Brick.
-Se non fosse stato per te, starei ancora discutendo con quell’incompetente di un Pacificatore.-
-Se posso rendermi utile… tra amici ci si aiuta sempre.- rispose placido Brick.
-Ora però meglio andare. Stanno entrando tutti.-
Jo annuì. Lasciatasi alle spalle Brick, corse nella bancata femminile e si mise in posizione tutta eccitata. Anche Brick raggiunse gli altri maschi, molto meno tranquillo della ragazza.  Ormai sudava così tanto che i piedi sembravano scivolare nelle scarpe.
Nel frattempo, i mentori cominciavano ad apparire sul palco. Ultima ad entrare fu una giovane donna corpulenta, dal viso arcigno e piuttosto sgradevole, con i capelli neri legati in una rozza coda, le sopracciglia unite tra loro in mezzo alla fronte, e il volto fisso in un cipiglio antipatico.
Era tutto fuorché bella, ma Jo rimase a guardarla tutta estasiata.
-Eva…- mormorò tra sé e sé. Il suo mito. La sua musa. La persona di cui avrebbe seguito le orme.
-Visto, pivella?- domandò alla vicina, accennando verso Eva. –Quella sì che è una vera donna.-
Poi indicò l’accompagnatrice che si era intanto presentata salutando allegramente. –Altro che quello sgorbio laggiù.-
La donna aveva i capelli tinti di rosa pastello, la pelle sbiancata chirurgicamente, con due fossette rosee sulle guance, e indossava un buffo tailleur fucsia acceso e scarpe col tacco ricoperte di specchietti argentati.
Si avvicinò alla prima boccia e prese un biglietto.
-Giù le mani! Mi offro volontaria.- tuonò una voce dal pubblico.
Brick vide Jo correre verso il palco, spingere via con malagrazia la capitolina e proclamare a gran voce nel microfono. –Sono Josephine Elliott, la vostra futura vincitrice!-
Brick rabbrividì. Non poteva credere  che avesse fatto sul serio. D’accordo, si era allenata tutto quel tempo, e non faceva altro che parlare del suo futuro di vincitrice, ma c’era sempre stata una parte di lui che sperava che, all’ultimo secondo, Jo cambiasse idea.
Uno scroscio di applausi si propagò, invece, dagli spalti femminili.
-Ehm… benissimo.- articolò intanto la capitolina, rialzandosi a fatica. –Se la… signorina… è d’accordo, allora possiamo passare ai ragazzi.-
Jo la squadrò rabbiosamente. Probabilmente anche lei l’aveva presa per un ragazzo.
L’accompagnatrice si portò al centro del palco con un biglietto in mano, e lo aprì.
“Non io… non io… non io…” pensava Brick.
-Brick McArthur.-
-Cosa?- quasi strillò Brick in risposta. Poi si accorse degli sguardi dei compagni su di lui, e sentì un brivido freddo percorrergli la colonna vertebrale.
Inutile farsi illusioni: era un tributo.
Salì con passo marziale, ma con le gambe tremanti, fino al palco. Jo lo accolse con un ghigno feroce. Difficile capire se fosse davvero così crudele, o se facesse per finta, per attirare più sponsor.
-Cos’è questa puzza?- domandò la capitolina tappandosi il naso con la mano guantata.
Brick si guardò i pantaloni. Una macchia più scura stava lentamente spandendosi lungo la stoffa.
-Ehm… chiedo scusa.- fu tutto quello che riuscì a dire. Jo tratteneva a stento le risa, e alcuni maschi tra il pubblico si erano messi a fare rumori osceni con la bocca.
-Bella prova, Capitan Piscina.- sogghignò Jo. Ma poi, in uno slancio di buon cuore, preferì prendere il tremante ragazzo per la mano e condurlo via.
-Guarda il lato positivo, Brick.- disse mentre attraversavano il portone d’uscita.
-Almeno così avrai attirato un po’ di attenzione.-
 
Distretto 7
 
Nell’orfanotrofio, tutto era pronto. Gli istitutori avevano preparato per ogni ragazzo e ragazza un abbigliamento su misura, nonostante, trattandosi di abiti smessi, alcuni erano un po’ larghi, stretti o consunti.
L’unico che non si fosse vestito di tutto punto era Scott. Indossava la stessa canottiera lercia di quella mattina, e i capelli rossicci erano spettinati, nello stesso modo con cui erano stati quella mattina nei boschi.
Scott aveva di meglio da fare che preoccuparsi dell’abbigliamento. Doveva pianificare la propria strategia di vittoria, quando si sarebbe offerto volontario.
Avrebbe dimostrato a quella ragazza, quella Dawn, che non era incapace come lei credeva. Anzi, era un più che degno vincitore.
-Scott?- chiamò in quel momento la voce di una delle istitutrici.
-Scordatelo, signorina.- rispose Scott. –Non me la metto la cravatta.-
La donna sospirò. Aveva avuto un diverbio con quel ragazzo proprio riguardo all’abbigliamento, e non se la sentiva proprio di ricominciare.
-Non è per quello.- disse con tono accondiscendente. –Hai una visita.-
Scott sobbalzò. Una visita? Non ne aveva mai ricevute prima.
E del resto come biasimarli: chi avrebbe mai adottato un sociopatico pel di carota che come passatempo lancia accette contro i topi?
-Entra, signorina.- disse l’istitutrice. Dawn varcò la porta a passi piccoli, ma sicuri, come un condottiero che ha già saggiato il territorio dove sarebbe dovuto passare.
-Guarda guarda chi c’è, Raggio di Luna!- esclamò Scott ridacchiando.
-Sei venuta a ripetermi che non devo offrirmi volontario? Tanto sai che perdi tempo.-
Dawn fece segno di no con la testa. –Non sono qui per questo.- disse in tono tranquillo.
-Volevo solo venire a farti una visita prima della mietitura. Nulla di più.-
-Immagino che avrai grandi comunicazioni che riguardano la mia aura, o qualcosa del genere.- fece Scott con aria poco interessata.
-Mi piace il colore della tua aura.- rispose Dawn. –Tra il rosso e il marrone. Molto bella da vedere.-
Scott fu costretto ad ammettere che, in parte, Dawn aveva ragione. Il marrone era il colore degli alberi, con cui si era a lungo allenato; il rosso era il colore dei suoi capelli, ma anche del sangue, della rabbia  e della vittoria. Nulla sarebbe stato più proficuo.
-Penso voglia dire che vincerò, o qualcosa del genere.- rispose il ragazzo, infilando l’uscita della stanza.
Dawn lo seguì, noncurante del fatto che il ragazzo non avesse nemmeno salutato gli altri.
-Toglimi una curiosità, Dawn.- chiese Scott, mentre assieme alla ragazza si avvicinava alla piazza.
-Se per caso estraessero te, cosa faresti?-
Dawn parve pensarci su un attimo. –Beh…- disse  infine. –Penso che cercherei innanzitutto un modo per sopravvivere senza uccidere nessun povero innocente. Poi…-
-Ma non farmi ridere!- la interruppe Scott. –Vincere senza uccidere nessuno? Non hai capito proprio niente riguardo alla vita. Non faresti molta strada in quell’arena, mia cara.-
-Sarà.- fu tutto quello che Dawn disse.
Mentre si dirigevano verso la piazza, nessuno dei due disse nulla. Poi, mentre facevano la fila per il prelievo sanguigno, Scott tirò a sé la manica di Dawn, e indicò una presenza nelle file dei mentori.
-Chi è quella specie di muro ambulante?- domandò.
Seduto su una delle sedie stava un giovane uomo dalla pelle marrone, piuttosto corpulento e dallo sguardo riflessivo. Indossava un largo cappotto, e la falda del cappello gli copriva metà del viso.
-Quello è B.- rispose Dawn. –È uno dei nostri mentori. Si dice che non abbia più detto una parola da quando ha vinto.-
Ed era vero. Mentre gli altri mentori salutavano il pubblico, o straparlavano a causa dell’alcool e degli stupefacenti, B stava semplicemente seduto al suo posto, guardandosi intorno senza dire una parola.
-Grandioso.- imprecò Scott. –Pure il mentore muto, adesso. Non importa, vincerò lo stesso. Non ho imparato a lanciare le accette senza motivo.-
E detto questo si infilò nelle file maschili fino a che Dawn non lo perse di vista.
Pochi minuti dopo, conclusosi il filmato, l’accompagnatrice si avvicinò alla boccia femminile e prese un  biglietto.
Dawn fissava sgomenta la pelle verde acido della donna, i suoi capelli giallo paglia, gli attillati indumenti in pelle, e rabbrividiva. Intorno a lei, soltanto numerose aure trasudanti terrore.
-E il tributo femminile dell’anno è… Dawn Medrek.-
-Sei tu…- sussurrò a Dawn la vicina di posto.
Dawn aveva sentito. Per un attimo gli occhi si dilatarono dallo sgomento. Tuttavia si mantenne perfettamente calma mentre saliva sul palco.
Appena fu vicina alla capitolina, Dawn percepì immediatamente che le tinture per la pelle e per capelli di cui si serviva quella donna provenivano entrambe dagli animali. Per un attimo fu tentata di rimproverarla, ma poi desistette. Se quelle donne potevano facilmente mandare a morire due ragazzi all’anno, cosa sarebbe potuto importargli di un animale?
Intanto era stato sorteggiato il tributo maschile: un dodicenne.
Dawn non potè non intristirsi per la sorte del ragazzino, ma tutto sommato era sollevata che Scott avesse desistito dal suo proposito.
Ma aveva parlato troppo presto.
-Levati di mezzo, marmocchio.- imprecò il ragazzo piombando sul palco e spingendo via il giovane tributo.
-Mi offro volontario.-
Il ragazzino corse via, in preda a lacrime di gioia.
-Mi chiamo Scott Wallis.- disse il ragazzo alla capitolina.
-Ora potete stringervi la mano.- declamò quella.
Scott si avvicinò a Dawn, e le strinse vigorosamente la mano.
-Te l’avevo detto.- sogghignò.
Dawn non batté ciglio. Non aveva paura, non ancora.
 
Distretto 8
 
“Caro diario,
anche quest’anno dovremo andare alla mietitura, e stavolta ho veramente paura di essere estratta.
Ho dovuto prendere delle tessere, perché avevamo un po’ di guai con il bilancio mensile.
Cosa farei se mi estraessero? Non lo so, proprio non lo so. Non sono capace di uccidere sul serio.
A volte mi chiedo cosa abbiamo fatto di male noi cittadini di Panem per meritare un destino come questo. Ormai sono passati anni dalla ribellione, eppure nessuno sembra essersene dimenticato.
È tutto così complicato. Ma per lo meno, c’è Trent.
Lui è speciale. Non è come gli altri. Lui ti capisce e ti ascolta.
Se dovessi scegliere l’ultima persona da vedere prima di andare a Capitol City, sceglierei sicuramente…”

-Gwen? Sei qui?-
Con mossa fulminea Gwen ripose il proprio diario in un anfratto, e rispose concitatamente alla voce che la chiamava.
-Sì, Trent. Arrivo subito.-
Aveva promesso a Trent che sarebbero andati insieme alla mietitura. Nemmeno lei sapeva di preciso perché avesse scelto di andarci con lui. Forse era perché aveva bisogno di sicurezza, e la presenza di Trent accanto a lei gliene infondeva molta. Forse perché Trent, con quel modo di fare così pacato e rassicurante, scacciava via la paura dovuta alla possibile estrazione.
Quando uscì di casa, Gwen trovò davanti a sé un Trent sorridente.
Ma non era il classico sorriso che tranquillizza. Era addirittura un ghigno, che apriva le labbra da un’estremità all’altra come un sipario strappato.
-Cosa ti succede?- domandò Gwen, in parte preoccupata.
Si aspettava, probabilmente, di sentirsi dire che era nervoso per l’estrazione. Cose normali, insomma.
Invece si sentì dire questo: -Ho fatto il conteggio delle tessere. Con quelle di quest’anno, sono arrivato a ben nove esatte. Non è fantastico?-
Forse anche Trent si aspettava da Gwen una qualche risposta. Ottenne soltanto un silenzio imbarazzato.,
-Veramente fantastico.- riuscì infine a dire Gwen, con un tono di voce tra il preoccupato e il nervoso.
-Adesso però dimentica il numero nove, e andiamo in piazza. L’ultima cosa che voglio in questo momento è di incrociare un Pacificatore arrabbiato.-
Trent preferì non controbattere. Probabilmente era conscio della figura fatta.
Per tutto il percorso verso la piazza, Gwen si era sentita, almeno in parte, rilassata.
Fu solo quando dovette dirigersi verso la bancata femminile, separandosi da Trent, che un brivido annunciatore di morte cominciò a precorrerle la schiena.
La ragazza si voltò di scatto verso Trent, che si avvicinava al resto dei ragazzi.
-Trent!- chiamò. Subito il ragazzo si voltò.
-Cosa c’è?-
-Niente… vai pure. Ci vediamo dopo.-
Gwen rimase a guardarlo fino a che non svanì, nella massa dei giovani del distretto che attendevano impazienti di essere salvati o condannati.
Poi, la rabbia di Gwen si fece ancora più opprimente quando si presentò l’accompagnatore. Era vestito di giallo dorato, con una specie di smoking di pelle  tinta, spruzzato di glitter e lustrini. I capelli, di un biondo granino che ben poco aveva di naturale, erano talmente ricoperti di gel da sembrare quasi un unico lucido blocco.
In poche parole, l’accompagnatore brillava di luce propria. E per Gwen, che amava il buio, la presenza dell’uomo sul palco era fonte di enorme fastidio.
Il suo sorriso luminoso, con quei denti placcati di brillanti, era sicuramente la parte di lui che la ragazza aborriva maggiormente. Come si poteva avere il coraggio di indossare la luce in un giorno come quello?
Fu proiettato il video, e furono presentati i mentori, molti dei quali non si reggevano quasi in piedi per le sostanze ingerite. Quando l’accompagnatore mosse il primo passo verso la boccai delle ragazze, il chiacchiericcio in sottofondo si spense.
L’accompagnatore prese un biglietto. Gwen prese a pizzicarsi il braccio e a sudare freddo, e cercò con gli occhi Trent. Immaginò di sentire la sua mano intorno alla sua, il suo corpo accanto al suo, la sua voce così calma e pacata che la tranquillizzava, e per un breve istante si sentì anche sicura.
Poi: -GwendolynFahlenbock.- disse l’accompagnatore.
E di colpo, Gwen ritornò ad avere paura.
Mentre le ragazze intorno a lei tiravano dei sospiri di sollievo, lei rimase in silenzio, troppo sbalordita anche per commentare.
Gwen uscì dalle file femminili, sudando nell’abito troppo stretto, con i corti capelli neri incollati alla testa come un copricapo capitolino. Sapeva che sarebbe morta, e non avrebbe potuto evitarlo. Lei non era capace di uccidere, né sapeva maneggiare le armi. In un certo senso, era come se l’avessero uccisa sul momento.
L’accompagnatore, intanto, si era portato di fronte alla boccia maschile.
-E ora il giovane uomo.- disse compiaciuto, col tono di chi non si interessa di nulla.
Mentre calava la mano verso il vaso, però, una voce lo fece sobbalzare.
-Mi offro volontario. Mi chiamo Trent McCord.-
Un’altra, più brutale fitta attraversò il corpo di Gwen. Chiuse gli occhi, sperando febbrilmente che si trattasse soltanto di un brutto sogno, di risvegliarsi nella sua tiepida casa, accanto alla madre e al fratello.
Ma fu tutto inutile. Quando li riaprì, lo scenario era lo stesso: la piazza gremita di gente, l’accompagnatore luminescente al suo fianco, e Trent accanto a lui, ancora ansimante per la corsa verso il palco.
-Abbiamo un volontario, vedo.- esclamò il capitolino.
Gwen si avvicinò a Trent a larghi passi. Era livida.
-Perché l’hai fatto?- domandò, con una voce che assomigliava fin troppo a un ringhio.
-Non posso nemmeno immaginare di vederti morire. Voglio aiutarti a vincere.- rispose il ragazzo.
Se Trent si aspettasse un ringraziamento, non ci è dato saperlo. Sappiamo invece che, appena finì di parlare, Gwen alzò di scatto il braccio e vibrò un violento schiaffo sulla sua guancia.
-Tanto sono già morta.- gridò verso Trent, che si massaggiava lo zigomo arrossato.
E si allontanò senza nemmeno voltarsi.
 
Distretto 9
 
Courtney aveva impiegato circa due ore a prepararsi. Di norma, le ragazze che vanno alla mietitura non si curano più di tanto del loro aspetto, ma non lei.
Per dirla con le sue parole, anche in un’occasione “così drammatica era necessario un minimo di eleganza”.
Duncan, invece, non si sarebbe preparato. Del resto, come avrebbe potuto, visto che possedeva solamente una maglietta e un paio di pantaloni?
In quel momento, il ragazzo si trovava nel Palazzo di Giustizia, seduto su una sedia di legno grezzo. Di fronte a lui c’era un bancone, e dietro al bancone sedeva un uomo sulla quarantina, arcigno e ostile come pochi.
Un Pacificatore dall’aria irrequieta andava avanti e indietro, per assicurarsi che il ragazzo non scappasse all’ultimo.
-Te lo chiederò per l’ultima volta, ragazzino.- disse l’uomo dietro al bancone.
-Cosa ci facevi al mercato del pane stamattina? Tutti i tuoi coetanei erano in casa a prepararsi per la mietitura.-
Duncan non rispose. Si limitò a sbuffare, guardando con aria annoiata verso una finestra secondaria.
-È uno scavezzacollo, signore. Non è la prima volta che lo prendiamo.- disse il Pacificatore.
Altro sbuffo da parte di Duncan. Quell’uomo doveva elencare proprio ogni suo piccolo difetto?
-Alcuni testimoni hanno detto che sei stato sorpreso a rubare delle pagnotte. È vero?- chiese ancora l’uomo dietro alla scrivania.
Duncan non potè trattenere un piccolo brivido. Quell’uomo assomigliava in modo impressionante a un avvoltoio.
-Le stavo solo guardando.- disse alla fine in tono superficiale. –Guardare è reato?-
-No, ragazzo. Guardare non è reato. Ma rubare lo è. Hai preso quelle pagnotte o no?-
Come noi sappiamo, Duncan aveva effettivamente preso delle pagnotte, che aveva poi mangiato nel suo rifugio dopo averne discusso con Courtney; tuttavia il ragazzo si trattenne dal rivelare quei particolari al suo esaminatore. Sapeva fin troppo bene quale fosse il castigo per i ladri.
Così si limitò a sbadigliare, passandosi una mano nella cresta.
-Posso andare adesso?- chiese.
-Abbi rispetto per chi è più grande di te.- disse il Pacificatore.
-Leva i piedi dalla scrivania, innanzitutto. E tieni bene a mente una cosa: sappiamo come trattare con i criminali come te. Sai già cosa succede a chi ruba, nel nostro distretto. E sono sicuro che non ti piacerebbe  ripetere l’esperienza.-
Duncan, obbediente, tolse i piedi dalla scrivania dell’uomo. Era molto spaventato, anche se mai l’avrebbe ammesso. Lo sguardo di quel Pacificatore non lasciava spazio ai dubbi: se fosse stato necessario, non si sarebbe fatto tanti problemi a frustarlo un’altra volta. E sarebbe ricominciato l’incubo dall’inizio: sgomento rivide sé stesso a torso nudo in mezzo alla piazza, con i polsi legati a un palo, percosso dalla frusta di un Pacificatore, mentre con la schiena attraversata da rivoli di sangue piangeva e implorava il suo carnefice.
-Per stavolta ti lasciamo andare, ragazzino.- disse l’avvoltoio.
-Ma sappi che, se ti becchiamo un’altra volta a rubare, passerai grossi guai.-
Duncan sudava freddo, ma decise che non sarebbe stato quell’uomo orrendo a farlo cedere.
-Dovrete prendermi, prima.- rispose in tono strafottente. E detto questo uscì di corsa, deciso a mettere più chilometri possibile tra lui e loro.
Ma appena fu fuori si fermò. Qualcosa, o meglio qualcuno, aveva attirato la sua attenzione.
Courtney, con un sobrio vestito di stoffa marrone, e un’espressione in viso di divertito compiacimento.
Duncan aveva passato molto del suo tempo di fronte a quella scrivania a domandarsi come mai lo avessero preso. Ora aveva una mezza idea del perché.
Si scagliò contro la ragazza, la spinse contro il muro e la abbrancò per il colletto.
-Sei stata tu a dire a quelli dov’ero, non è così?- ringhiò nella sua direzione.
La ragazza si liberò con uno strattone, e si incamminò lontano da lui rispondendo nel frattempo.
-Io te l’avevo detto che avrei mandato i Pacificatori a prenderti. E io mantengo sempre la mia parola.-
Duncan non poté non correrle dietro.
-E immagino che, se mi frusteranno un’altra volta, sarai in prima fila.-
La frecciatina era acuta, poiché metteva a nudo non solo il sadismo che avrebbe contraddistinto Courtney, ma anche la stortezza del sistema punitivo che vigeva nel distretto. Courtney, come previsto, sobbalzò, ma si ricompose subito e rispose a tono.
-Se si tratta di vedere la legge applicata, io ci sono sempre.- disse mentre si dirigeva verso la piazza con Duncan alle calcagna. –La giustizia deve trionfare.-
A questo punto, Duncan preferì non ribattere. Semplicemente, non capiva come una ragazza intelligente come Courtney (perché sì, poteva essere pedante e invadente, ma certo non era stupida) potesse considerare giustizia quella stessa pena che lo aveva condannato al mese peggiore della sua vita. Non capiva come mai il sangue che aveva versato sotto i colpi impietosi della frusta potesse essere associato con le parole “legge” e “giustizia”. E così non le rispose. Si unì alle file maschili, a viso basso per nascondere l’espressione di paura che gli torceva il viso.
L’accompagnatrice si presentò sul palco con addosso un largo abito con crinolina, nei colori del verde menta e del rosso corallo, che formavano sull’ampia gonna motivi floreali. La parrucca, calcata sulla testa in modo da donarle quei dieci centimetri in più che non guastavano mai, era ampia e vaporosa, di un bianco grigiastro, e assomigliava a una nuvola di panna montata.
Duncan preferì non guardarla. Era uno spettacolo penoso, mentre salutata sindaco e mentori con dei grandi baci sulla guancia e con delle risatine vivaci. Lui era un ladro, certo, ma non era cattivo.
“Come fai a ridere così quando due di noi stanno per morire?”.
Simili pensieri passavano anche per la testa di Courtney. Mentre la capitolina apriva il biglietto femminile dell’anno, la ragazza ansimava nervosamente, con lo sguardo al cielo, pronunciando tra sé e sé “non dire il mio nome, ti prego, non dire il mio nome.”.
-Courtney Barlow.-
Un fragoroso “cosa?!” esplose dalla gradinata delle ragazze. Courtney corse sul palco con aria più infuriata che spaventata.
-Non posso essere io! Non ho preso nemmeno una tessera! E non so combattere! Io sono una cittadina modello del distretto 9! Sorteggiate qualcun altro!-
La capitolina parve alquanto imbarazzata dalle parole della ragazza; al contrario di Duncan, che ne era quasi divertito.
-Ci… ci sono volontari?- domandò, un po’ esitante, l’accompagnatrice.
Nessuna mano si alzò, e Courtney perse il controllo. Prese a gesticolare nervosamente, in direzione del sindaco e della donna.
-Che significa? Non potete mandarmi nell’arena! Non ve lo permetto!- gridava sperando in un aiuto improvviso.
Nonostante gli dispiacesse, almeno in parte, per la sorte indegna che le era destinata, Duncan trattenne a stento delle risatine alla vista della ragazza gesticolante.
Fu meno divertito, comunque, quando venne estratto il nome maschile.
-Duncan Nelson.-
Duncan sbiancò. Gli occhi azzurri del ragazzo si dilatarono per l’inaspettata valanga di emozioni che lo avvolgeva. Come ipnotizzato salì sul palco, tra i sospiri di sollievo dei ragazzi attorno a lui.
Courtney, riconosciutolo, esplose nuovamente.
-Cosa? Io e quel criminale? Non se ne parla! Questo ragazzo ruba pagnotte! Non potete mandarmi via con un ladro come lui!- strillò, nell’indifferenza generale.
-Taci, Courtney.- disse piatto Duncan. –Non peggiorare la situazione.-.
E senza nemmeno stringerle la mano, si allontanò verso l’uscita, mentre la prima lacrima guadagnava la sua guancia.
 
Distretto 10
 
Sierra stava dormendo sul prato del pascolo, accanto alle fedeli pecorelle che brucavano placide attorno a lei.
Dopo l’incontro di quella mattina con Cody, aveva lasciato che il suo gregge pascolasse liberamente là intorno, poi si era sdraiata a prendere il sole, per cercare di dimenticare la mietitura incombente; col passare dei minuti, però, si era addormentata.
Ad un tratto, cominciò a muoversi nel sonno, e a pronunciare parole indiscernibili, tra cui era però possibile riconoscere il nome di Cody.
Poi urlò, e si destò, con gli occhi sbarrati e copiose gocce di sudore che le rigavano le guance color nocciola.
-No, Cody! No!- esclamò.
Una delle pecorelle, riconosciuto il grido della padrona, corse verso di lei e le cominciò a leccare affettuosamente il braccio.
-Oh, Cody Secondo.- mormorò Sierra all’indirizzo dell’ovino.
Prese tra le braccia il lanoso animale, e sospirò.
-Ho sognato che Cody veniva estratto alla mietitura, e moriva nell’arena. È stato orribile! Il mio caro Cody là dentro… non posso assolutamente permetterlo!-
Cody Secondo emise un sottile belato. Sierra ridacchiò, come se capisse il linguaggio dell’animale.
-Hai proprio ragione, piccolo. Con me accanto, al mio Cody non succederà assolutamente nulla.-
Poi, un altro pensiero si fece avanti nella testa della ragazza: e se anziché Cody, nell’arena ci fosse finita lei?
Come se avesse percepito i pensieri della padrona, Cody Secondo emise un altro piccolo belato.
-Come sei gentile, Cody Secondo!- esclamò Sierra, abbracciando vigorosamente l’animale.
Un altro agnello, più giovane, emise un belato infastidito verso i due.
-Sì, Cody Ottavo, amo anche te. Amo tutti voi. Non quanto il mio Codychino, però.-
Sierra si alzò. Ormai si faceva tardi, e bisognava prepararsi per la mietitura.
-Venite, Cody. Bisogna rientrare.-
A quelle parole, tutti gli agnelli smisero di brucare e si incamminarono di comune accordo dietro alla padrona. Sierra guidò il gregge dentro un ampio recinto, lo chiuse dall’esterno e disse:
-Adesso la mammina deve andare. Vi prometto… che torno, va bene?-
Gli agnello risposero belando. Sapevano a cosa andava incontro la loro padroncina, ma non poterono fare altro che salutarla con belati d’addio.
Sierra ricomparve pochi minuti dopo, con addosso un vistoso abito violaceo, e i capelli purpurei intrecciati con nastri dello stesso colore. Mentre si dirigeva verso la piazza, sentì una voce angelica che la fece voltare di scatto.
-Avanti, Buttercup, fai la brava mucca ed entra nella stalla.-
Sierra puntò gli occhi verso la fonte del grido. Estasiata, scorse un affannato Cody, vestito di tutto punto, che cercava inutilmente di sospingere una grossa mucca pezzata verso unastalla piena di bovini vari.
-Ciao, Cody. Ti serve una mano, per caso?- domandò Sierra avvicinatasi.
Alla vista della ragazza, Cody parve indeciso se darsela a gambe o meno. Ma come sempre, il buon senso ebbe la meglio.
-Ciao, Sierra. Cosa ti porta da queste parti?- rispose dunque, dando un secondo e più vigoroso spintone al deretano della mucca.
Sierra vide la scena, e capì subito quale fosse il problema che affliggeva il suo amato Cody.
-Mucca cattiva.- esclamò. –Va’ subito nella stalla, e non sognarti mai più di disobbedire a Codychino.-
La mucca, obbediente, si incamminò nel recinto assieme alle altre, e nel farlo lasciò Cody senza un appoggio.
Il ragazzo perse l’equilibrio, e franò in avanti; la ragazza lo afferrò prontamente per il braccio.
-Ti salvo io, amore.- disse.
Cody produsse un secco “grazie”, e si diresse verso la piazza.
-Stavo per andare alla mietitura, quando ho visto Buttercup che girava per le strade, allora ho perso tempo per rimandarla nella stalla.- disse a Sierra che, ovviamente, lo seguiva.
-Cosa faresti, se io non ci fossi?- fece Sierra con voce estasiata.
Per la ragazza fu quasi traumatico separarsi dal suo amato, per unirsi alla bancata femminile. Bancata che, pochi istanti dopo, emise un vigoroso urlo: l’accompagnatore era arrivato.
Aveva i capelli tinti di nero inchiostro, e la pelle resa più abbronzata attraverso un processo chirurgico. Indossava abiti che, per fortuna, rientravano nel limite del normale: una maglietta attillata e dei pantaloni piuttosto semplici. Questo non vuol dire, comunque, che si servisse meno degli altri accompagnatori della chirurgia plastica: i suoi denti erano sbiancati artificialmente, gli zigomi rifatti, e le unghie delle mani, laccate di smalto marroncino, erano trattate con una soluzione lisciante.
-Ciao, ragazzi e ragazze.- esclamò il giovane, mostrando un sorriso da fotomodello.
-Ciao, Justin!- gridarono le ragazze in risposta.
Molte di loro, dimentiche della tragedia incombente, esalavano sospiri innamorati verso l’accompagnatore, e una persino gridò: -Estrai il mio nome, Justin!-
Solo Sierra non prendeva parte alle grida di gruppo. Justin era certamente molto bello, ma non le interessava: nel suo cuore non c’era posto che per Cody.
Justin estrasse il nome femminile. Sierra emise un sospiro di sollievo quando vide che non era il suo. La ragazza sorteggiata si incamminò sul palco un po’ confusa, ma quando fu vicina a Justin non potè trattenere un lieve fremito, e un minuscolo sorriso si dipanò sulle labbra di lei.
Poi, Justin estrasse il nome del ragazzo. Il suo nome.
-Cody Anderson.-
Sierra quasi urlò. Cercò il volto di Cody tra la folla e lo vide, con gli occhi sbarrati, tremante, consapevole che non ne sarebbe uscito vivo. Mentre il giovane si incamminava sul palco, con l’aria di chi sta per crollare a terra, Sierra rivide nella mente il suo sogno.
Non riuscì più a trattenersi. Nessuno, men che meno quel Justin, avrebbe mandato a morire il suo amato Cody.
-Mi offro volontaria!- strillò correndo verso Cody. –Mi offro volontaria come tributo!-
Sierra piombò letteralmente sul palco, si gettò su Cody, e lo cinse con le braccia in una poderosa stretta.
-Te l’avevo detto, che non ti avrei abbandonato.-
-Wow…- Justin si avvicinò cauto ai due giovani, ravviandosi i capelli, mentre la ragazza sorteggiata si incamminava verso le scale del palco.
-Qual è il tuo nome, signorina?-
-Sierra Obonsawin.- rispose quella. –Futura signora Anderson.-
Un coro di “oooh” si propagò per le bancate. Sierra strinse vigorosamente la mano di Cody e uscì di scena abbracciata a lui. Justin, invece, rimase sul palco senza muovere un muscolo.
Dopo pochi secondi, però, ebbe un sobbalzo: Sierra era riapparsa sul palco, e veniva verso di lui a passo di carica.
-Il suo nome.- disse esasperatamente –è Cody Emmett Jameson Anderson, e non ti è concesso sbagliarlo.-
Così dicendo, colpì violentemente l’accompagnatore con un pugno in faccia.
-No, Justin!- gridarono le ragazze presenti. Mentre Sierra si allontanava, Justin prese a massaggiarsi nervosamente il viso, biascicando senza controllo “la mia faccia… la mia povera faccia…”
Due Pacificatrici lo condussero via, afferrandolo amorevolmente. Mentre passavano davanti ai centri abitati, videro una cosa sconcertante.
Un gregge di giovani agnelli era dentro a un ampio recinto. Gli agnelli, nessuno escluso, stavano piangendo.
 
Distretto 11
 
Tutte le ragazze del distretto erano ormai riunite in piazza. Solo Lindsay non era ancora pronta.
In quel momento, la ragazza cercava freneticamente tra i suoi cassetti. Cercava un oggetto che le sarebbe ovviamente stato utile: il vestito per la mietitura.
-Ma dove l’avrò messo? Era qui!- gridava la ragazza in preda al panico.
Mucchi e mucchi di stoffa volavano per la stanza, mentre Lindsay continuava inutilmente a cercare l’abito incriminato.
Finalmente, dopo una lunga e affannosa ricerca, la ragazza bionda emerse dal cumulo di abiti con in mano un grazioso vestito rosso chiaro.
-Eccolo, finalmente.- esclamò con aria stizzita. –Che vestito cattivo.-
In quattro e quattr’otto se lo infilò, per poi realizzare con sgomento di averlo messo a rovescia.
-Molto cattivo.- ripeté. Infilò nuovamente l’abito, stavolta nel modo corretto, poi mise ai piedi le scarpe più eleganti che avesse.
-Anche le scarpe sono cattive.- brontolò mentre le chiudeva. –Fanno male.-
-Forse è perché le hai scambiate.- disse in quel momento una voce maschile.
Lindsay si voltò preoccupatissima, aspettandosi di trovarsi di fronte un Pacificatore col fucile spianato. Invece trovò la testa di Tyler che sbucava dalla finestra, con un’espressione sorridente ma sorpresa sul viso.
La ragazza provò a scambiare le scarpe di posto, e incredibilmente il dolore cessò.
-Avevi ragione, Taylor.- trillò al colmo della felicità. –Sei un genio!-
Tyler arrossì. Anche per la mietitura, c’erano momenti di piacere.
Lindsay uscì di casa proprio in quel momento. Era bella, così bella che Tyler credette per un attimo di essere in paradiso, anziché in un inferno chiamato Panem.
Il viso di Lindsay, invece, si contrasse in un’espressione di sorpresa:
-Trevor, ma… sei caduto in una pozza?-
Tyler ripiombò di colpo sulla terra. Era vero: la sua maglietta e i suoi pantaloni erano completamente ricoperti di fanghiglia grigia. Un rossore di vergogna si dipanò sul suo viso, anch’esso infangato: la vergogna di essere, tanto per cambiare, un imbranato cronico.
-Stavo andando in piazza, ma… sono inciampato in una radice, e sono finito in una pozzanghera.- rispose mestamente il ragazzo.
-Mia madre non era affatto contenta.-
Lindsay non rise, come Tyler si sarebbe aspettato. Al contrario, lo prese per mano e la strinse gentilmente.
-Era solo un piccolo incidente.- disse in tono serafico. –Adesso l’importante è che non ci sorteggino.-
Tyler avrebbe voluto risponderle, ma la lingua si era ingarbugliata. Rimase semplicemente a guardarla, muto ed estasiato. Ad un tratto, una voce virile li apostrofò.
-Ehi, voi due! Dove credete di andare? Filate subito in piazza, c’è la mietitura.-
I due ragazzi si voltarono di scatto, per trovarsi davanti un Pacificatore corpulento che li fissava con aria feroce.
La paura mise loro le ali ai piedi. Filarono via tra gli alberi gridando stridulamente, senza nemmeno voltarsi a controllare le loro spalle, tranne ovviamente le due volte in cui Tyler inciampò in una radice e Lindsay si fermò per soccorrerlo. Quando infine arrivarono in piazza, la corsa si arrestò.
-Beh… - disse un’imbarazzatissima Lindsay dopo un attimo di pausa.
-Temo che ora bisogna salutarsi. In bocca al lupo, Telson.-
-Anche a te, Lindsay.- rispose Tyler, con aria imbambolata.
L’accompagnatrice del distretto 11 era molto meno ritoccata delle altre. Non l’avresti nemmeno detta capitolina, se non fosse stato per l’accento affettato e per l’abito verde ricoperto di lustrini. Il viso aveva l’aria piuttosto naturale, e anche bruttina. I capelli erano marroni, un colore normalissimo, legati in una semplice coda di cavallo. Si chiamava Beth.
-Benvenuti a tutti!- esclamò, mostrando di portare sui denti un apparecchio ortodontico poco capitolino.
Mentre parlava, lasciò inavvertitamente trapelare dalla bocca alcune gocce di saliva.
Decisamente, era diversa dalle altre.
Al termine del filmato, Beth prese un biglietto dalla boccia delle ragazze e lo aprì. Tutte le ragazze trattennero il respiro, compresa Lindsay. Tyler incrociò le dita, sperando che la ragazza bionda scampasse il pericolo.
-Lindsay Mills.- disse Beth.
Tyler produsse un basso “no” mentre una spiritata Lindsay saliva sul palco in silenzio.
-Io n-non voglio andarci…- sussurrò appena fu accanto a Beth. Nei suoi occhi già cominciavano a formarsi delle lacrime.
L’accompagnatrice le prese con gentilezza la mano. Alcuni dei presenti restarono sbigottiti: poche erano, infatti, le accompagnatrici che si mostravano così benevole verso i tributi estratti.
-Coraggio.- disse Beth. –Forse riuscirai a vincere.-
Lindsay tirò su col naso, e annuì. Nel frattempo, Beth aveva preso un secondo bigliettino.
-Tyler Oldring.- pronunciò.
Tyler fu scosso da un brivido. Salì sul palco quasi di corsa, come se un’improvvisa carica di energia lo avesse colto. Mentre era sui gradini, però, inciampò e cadde lungo disteso accanto a Lindsay e Beth.
L’accompagnatrice lo aiutò ad alzarsi tendendogli una mano, mentre Lindsay osservava la scena con la bocca spalancata.
-Così tu… sei veramente Tyler?- domandò con aria ebete.
-Certo che sono io. Non si vede?- rispose secco il ragazzo.
Lindsay gli si fece vicina, e lo abbracciò. –Sono contenta che verrai con me.- disse.
-Almeno non starò da sola contro quei Favoriti cattivissimi.-
Tyler non trattenne un brivido all’idea dei Favoriti. Tuttavia non disse nulla, e si abbandonò nelle braccia consolanti di Lindsay.
Nel frattempo, Beth si era avvicinata a uno dei mentori: un ragazzo alto e muscoloso, dal viso cesellato.
-Lavora bene con loro due, Brady. Hanno bisogno di un buon mentore, e di te mi fido. Almeno uno di loro deve vivere.-
-Fidati di me.- ripeté il giovane. E dopo aver parlato, schioccò sulla guancia paffuta dell’accompagnatrice un tenero bacio.
 
Distretto 12
 
Quindici minuti di ritardo.
L’accompagnatrice era in ritardo di quindici minuti.
Zoey era basita. Aveva perso tempo lungo la strada, avendo trovato un cane affamato che aveva condotto a casa sua per offrirgli delle vecchie ossa. Quando era arrivata in piazza credeva che ormai la mietitura fosse già iniziata, ma stranamente non era così.
Il sindaco e il mentore si erano già presentati, ma l’accompagnatrice ancora non c’era.
Zoey sbuffò, e si passò una mano nei capelli nervosamente. Nel distretto 12, “tributo” era un degno sinonimo di “cadavere”. E per lei, poi, che non avrebbe fatto del male nemmeno a una farfalla…
Anche Mike, nella bancata maschile, era terrorizzato. Tremava tutto, e il suo corpo magrissimo era squassato da brividi impressionanti.
Questo riportò nella mente di Zoey un particolare: quella mattina, quando era passata di fronte alla casa del ragazzo vestita di tutto punto, aveva sentito degli strani rumori. Era andata a controllare, e attraverso la finestra aveva intravisto una scena sorprendente.
Mike era in piedi accanto al letto, a torso nudo, con indosso i pantaloni eleganti della Mietitura.
Saltellava di fronte a uno specchio, muovendosi avanti e indietro come per mostrare al mondo intero quanto fosse affascinante. E ripeteva a sé stesso queste strane parole.
-Avanti, ragazzi, un po’ d’impegno. Vito il Favorito vi farà rimpiangere di essere nati.-
Quella visione aveva sorpreso non poco la dolce Zoey. L’idea che un  tributo del suo distretto (e il mansueto Mike, per di più) si immedesimasse in un Favorito in assetto di battaglia le sembrava, in poche parole, contro natura.
E chi era quel Vito di cui parlava? Zoey non avrebbe mai creduto che lo stesso Mike che aveva conosciuto nella scuola potesse essere così gradasso e violento.
Decise di non pensarci. La priorità, almeno in quel momento, era un’altra.
Nel frattempo, sullo sfondo della scena, il sindaco discuteva animatamente con qualcuno.
-Siamo già in ritardo. Venga fuori e facciamola finita.- stava dicendo il sindaco agitatissimo.
-Non se ne parla. Non sono pronta. Guarda i miei capelli in che stato sono!- rispose una vocetta acuta e capricciosa.
Zoey capì che si trattava, molto probabilmente, dell’accompagnatrice, Anne Maria, una strana ragazza con un’ossessione quasi viscerale per i propri capelli. Dunque era quello il motivo del ritardo? Il suo look?
-Venga sul palco ed estragga un nome. Siamo in ritardo.- continuava ad implorare il sindaco.
Il pubblico udì Anne Maria sbuffare:-Uff, va bene.- disse la ragazza stizzita. –Ma non lamentatevi se poi mi si rovina l’acconciatura.-
Finalmente Anne Maria apparve sul palco, permettendo così a Zoey, Mike e tutti gli altri di capire il perché della lunga attesa. La ragazza aveva montato i lunghi capelli neri in una specie di muro solido dietro la testa, con chissà quale fissativo capitolino; dall’acconciatura pendevano fermagli, mollette e lustrini di ogni genere. Qualcuno giurò di averci visto degli adesivi.
Il trucco di Anne Maria, poi, doveva essere stato un vero calvario per lo stilista che l’aveva preparata. Quantità incommensurabili di ombretto e mascara le coprivano le palpebre, chili di fard erano stati spalmati sulle guance, e il rossetto color ciclamino era talmente abbondante da essere esondato persino sui denti.
Per lo meno, l’abbigliamento della capitolina rientrava nei limiti del consentito, nonostante la gonna di cuoio bluastro fosse talmente corta e rigida da infastidirne la camminata, e il top rosa shocking fosse così corto da lasciar trapelare le spalle toniche, i fianchi ampi e l’ombelico.
-Benvenuti a tutti.- quasi urlò, caracollando sui sandali rosa con la zeppa.
-Prima di cominciare, una domanda: non credete che io sia un vero schianto?-
Il pubblico dei futuri tributi, come previsto, tacque. Molti dei Pacificatori, invece, esplosero in sonore ovazioni.
Quando la ragazza si avvicinò alla boccia femminile, invece, il silenzio era tale che si sarebbe sentito cadere uno spillo.
-E il tributo femminile di quest’anno è… Zoey Mamabolo.-
Zoey impallidì, troppo sorpresa anche solo per piangere. Quindi si avviò sul palco, a passi strascicati e pesantissimi, fino a raggiungere Anne Maria.
-Un po’ squallidina, oggi.- commentò la capitolina squadrando la figura magra di Zoey. -Però devo ammetterlo: quel fiore nei capelli fa la sua figura.-
-Ehm… sì.- con aria spaesata Zoey si accarezzò i capelli, sfiorando il fiore rosato che vi aveva messo come ornamento. Nel distretto 12 pochi potevano permettersi un nastro per capelli o un fermaglio, per cui la maggior parte si arrangiava come poteva. I fiori, per esempio, erano una decorazione gratuita, colorata e e semplice. Adatta a Zoey.
-E adesso il giovane uomo.- disse Anne Maria afferrato un biglietto. Lo aprì frettolosamente e lesse.
-Michael Doran.-
Tra i sospiri di sollievo degli altri ragazzi, si vide una figura magrissima e alta procedere a passi meccanici verso il palco. Quando Zoey distinse il viso di Mike, un brivido la scosse.
E non era un brivido di dolore. Dopotutto, la presenza del ragazzo la faceva sentire meno sola.
Anche Anne Maria fissava Mike stralunata. Pochi attimi dopo, inspiegabilmente, si avvinghiò al suo braccio come una piovra.
-Che bel tributo che abbiamo, quest’anno.- cinguettò.
-Saresti un vincitore perfetto.-
Come Anne Maria pronunciò quelle parole, Zoey sentì un secondo brivido, più freddo e inquietante del primo. Nella mente le apparve di nuovo l’immagine di “Vito il Favorito” e delle sue assurde evoluzioni.
In quel momento, però, Mike sembrava essere quello di sempre: buono, innocuo e anche un po’ spaventato per la piega presa dagli eventi.
I due tributi si strinsero la mano, in silenzio. Poi abbandonarono la scena a testa bassa, seguiti da Anne Maria che ancheggiava e mandava baci alle telecamere.
-Secondo te possiamo farcela?- domandò Zoey al ragazzo.
Lui era molto pallido, ma trovò la forza di risponderle.
-Forse. Insieme, chissà…-
 
Angolo Autrice
Ciao, miei fan.
Ecco ordunque le mietiture. I tributi sono stati estratti, e gli HG stanno per cominciare.
Brr, che tensione!
Per quanto riguarda i cognomi dei ragazzi, ecco il criterio che ho seguito.
Per molti di loro ho usato, come è tipico degli autori di storie su TD, i cognomi dei doppiatori originali (es. Drew Nelson per Duncan, Megan Fahlenbock per Gwen, e così via).
Ci sono però delle eccezioni.
1: Cinque dei tributi (Dakota Milton, Alejandro Burromuerto, Harold McGrady, Brick McArthur e Cody Anderson) hanno reso noto il loro cognome durante lo svolgimento di ATR. Io ho usato quei cognomi.
2: Il doppiatore di Owen (Scott McCord) è lo stesso di Trent. Per non dare ai due tributi lo stesso cognome ho dovuto inserirne uno fittizio. In un’altra FF ho visto che Owen si chiamava McKinnow, e credendolo il suo cognome ufficiale ho usato quello. D’ora in poi, Owen si chiamerà sempre McKinnow.
3: La doppiatrice di Izzy si chiama Katie Crown, e nel capitolo è infatti chiamata Isabella Crown. Come forse avrete notato, nel capitolo precedente il suo cognome è Crawl. Questo perché credevo (sempre a causa di una FF che avevo visto di qualcun altro) che il cognome ufficiale di Izzy fosse Crawl e non Crown. Io sono troppo pigra per correggere, dunque sappiatelo: Izzy di cognome fa Crown, e non Crawl. Nei prossimi capitoli si chiamerà Crown.
Abbandonata la filosofia, vi saluto.
Per i fan di “Show is on”, mi spiace tanto ma starò per un po’ senza PC, e non potrò scrivere granché. Tra una settimana circa riprenderò a scrivere regolarmente.
A presto e ciao a tutti.
MiticaBEP97
  
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