Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: PapySanzo89    28/01/2013    14 recensioni
Seguito di I can't take my eyes off you (piccola OS di mezza pagina)
Sherlock aspetta in ospedale che John si faccia vedere. Non sa ancora cosa sia successo, ma dalla telefonata di John può farsene un'idea
Dal testo: John non l’ha ancora vista.
John non è ancora venuto da questa parte dell’ospedale.
John sta male.
Mary ha avuto complicanze durante il parto, ho capito solo questo quando mi ha chiamato, una ventina di minuti fa con voce piatta e atona. Non sono ancora riuscito a vederlo e non so dove sia, gli ho mandato un messaggio dicendogli che lo avrei aspettato qui, e così sto facendo.
Riporto l’attenzione sulla bambina e continuo a guardarla, non riesco a staccarle gli occhi di dosso. [...] John ha detto che ha mangiato, può essere che abbia già fame? Forse dovrebbe essere cambiata? Cosa dovrei…?
Sento qualcosa spingermi in avanti e vado a scontrarmi con delicatezza contro la bambina, la sua testolina che preme contro il mio petto, e si calma.
«Ha solo bisogno di contatto fisico Sherlock, come ogni essere umano. Quante volte te l’ho detto?»
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Genere: Fluff, Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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L’ultimo caso che mi ha affibbiato Lestrade mi ha costretto a tornare a casa solo pochi minuti per diversi giorni; alla fine perfino io ho iniziato a sentirmi stanco.
Quando consegno il pluri-omicida nelle mani dell’ispettore mi sento entusiasta, ma devo condividere con qualcuno questa esaltazione. Mi giro e mi dirigo verso casa, e addio Lestrade.
Arrivato al 221B corro su per le scale e mi presento trionfante nel soggiorno. John, disteso supino a terra con Sunshine sul petto, alza lo sguardo verso di me e mi sorride. Uno di quei suoi sorrisi belli, radiosi, che sanno di casa. Di nuovo una morsa allo stomaco che non riesco a identificare.
«Sentiamo: come hai fatto?»
Faccio una smorfia e mi tolgo il cappotto, appoggiandolo alla poltrona e mi siedo anch’io sul plaid blu disteso a terra, le gambe incrociate che sfiorano il fianco sinistro di John.
E quando inizio a fare il resoconto, facendogli notare come ci fossimo fatti sfuggire dei dettagli incredibilmente ovvi, lui non trattiene le sue esclamazioni. Mai.
Sentirlo dire fantastico, straordinario, brillante e via discorrendo mi fa rimanere sorpreso come la prima volta. Questa volta, forse, anche di più. Nei tre anni di assenza non è passato giorno senza che pensassi a questa casa, al voler ritornare, a John.
Ci metto un po’ troppo a capire di essere rimasto in silenzio, probabilmente –purtroppo- a fissarlo, e quando lo realizzo lui fa altrettanto.
Sono belli i tuoi occhi, John. L’ho sempre pensato e sempre lo penserò. E poterli guardare (di nuovo) mi fa sentire l’uomo più fortunato al mondo.
Allunga una mano e me l’appoggia sul ginocchio, accarezzandolo lievemente. E’ un contatto che mi piace.
«Vai a dormire Sherlock, sei stanco.» fa una piccola pausa e sorride «Lo siete entrambi, in effetti.» dice, carezzando con la mano libera la schiena della bambina, «E’ nervosa come non so cosa, andate a letto e riposate un po’.»
Annuisco e mi alzo, sollevandogli il leggero peso di Sunny dal petto.
«Nel frattempo io vado a fare la spesa.»
Si alza e si passa le mani sui pantaloni come a voler togliere la polvere di lì. Si avvicina e mi poggia una mano sul braccio, e per un secondo il tempo si congela. C’è qualcosa di strano, qualcosa che non mi torna. Mi guarda. Ma lo fa in un modo diverso dal solito, un modo che non capisco. Sta aspettando che io faccia qualcosa? Che cosa dovrei fare?
Ma il tempo passa in fretta, e suppongo di aver perso la mia occasione, perché mi da’ una leggera pacca sulla spalla, prende il portafoglio dal tavolo, il capotto e scende le scale.
Rimango in mezzo al soggiorno come un idiota. Mi è sfuggito qualcosa, ne sono sicuro. Ma cosa? Probabilmente sono solo troppo stanco, difatti come tocco il letto, cado in un sonno leggero.
 
Sento qualcosa tirarmi i capelli, e all’inizio non riesco a capacitarmi di cosa sia. Ci metto qualche secondo a capire di essere nel mio letto e di essermi addormentato (per quanto tempo?).
Socchiudo gli occhi (non ho voglia di aprirli del tutto) e mi ritrovo Sunny vicina al viso, che mi lascia bacini (pieni di bava, ahimé) sugli zigomi, tirandomi la frangia. 
«Sunny, che ne dici di dormire ancora un po’?» richiudo gli occhi, mi sento veramente stanco. Lei, invece, sembra essersi riposata  (anche troppo); infatti mi tira i capelli con ancora più convinzione e questa volta mi ritrovo a sentire fastidio sulla cute.
Era così che si sentiva John quando lo trascinavo a destra e sinistra per tutta la città senza dargli una pausa? Distrutto?
Le tolgo delicatamente la manina dai miei capelli e le do’ il dito indice con cui giocare. Lei se lo mette in bocca. Mi ritrovo a sorridere.
Prendo il cuscino e lo rivolto, tornando poi a sistemarmici meglio sopra; sento il sonno fare di nuovo capolino lentamente.
«Pa…»
Apro gli occhi di scatto e fisso Sunshine, d’improvviso incredibilmente sveglio.
Lei si toglie il mio dito dalla bocca di nuovo, e la sento.
«Pa… pa.»
Mi guarda, mi sorride, e allunga le manine a toccarmi gli zigomi.
«Papa.», ride.
Qualcosa mi offusca la vista, inizio a non distinguere più i contorni del suo viso e la mia mano stretta davanti a sé. Ci metto un po’ a capire di avere gli occhi lucidi e il cuore che batte decisamente troppo forte.
 
Quando John torna, sono sulla porta ad aspettarlo: lui aggrotta le sopracciglia e mi guarda confuso.
«Vuoi darmi una mano con le borse?» chiede ridendo sarcastico, cercando di passare, ma glielo impedisco. Sbuffa e appoggia le borse stando attento a non rovesciare nulla.
«Allora?», incrocia le braccia e mi guarda, stavolta curioso: ha capito che voglio mostrargli qualcosa.
Prendo una mano di Sunshine e la scuoto.
«Dai Sunny.» non voglio dirle “parla” o John capirebbe subito.
John sembra spazientirsi, ma resta comunque calmo e si appoggia alla porta, aspettando che lo lasci passare.
«Sunny, fallo per papà.»
E’ un attimo, un semplice secondo, ma mi rendo conto d’improvviso che quel “papà” non è riferito a John, e qual qualcosa che di solito sento solleticare nello stomaco, questa volta morde.
Lei sembra risvegliata da quella parola e le si illuminano gli occhi.
«Papa.» ripete, guardandomi e continuando a dirlo, fissando poi anche John. E John rimane lì, con gli occhi e la bocca spalancati, passando lo sguardo da me a lei e viceversa. 
Poi si avvicina e prende Sunshine in braccio e scoppia a ridere, baciandole la guancia, facendola ridere ancora. E poi la abbraccia forte, rimanendo in silenzio per qualche secondo.
E’ una scena talmente bella che voglio mi resti impressa nella mente per il resto della mia vita, la guardo finché non mi rimane nella retina, senza battere ciglio.
E, talmente veloce da non accorgermene neppure, una mano di John mi prende per la maglietta e mi tira, facendomi praticamente cadere addosso a lui.
Mi sta abbracciando. John, mi sta abbracciando.
Una sua mano ancorata alla mia schiena, l’altra a tenere Sunny abbastanza in alto da non farle male, il viso sepolto nel mio collo.
Mi ritrovo per un momento spiazzato, non sapendo bene cosa fare, finché la mia mano non si alza da sola, e va a circondargli le spalle, stringendolo.
«Siamo una famiglia proprio strana.» dice come se fosse la cosa più naturale del mondo. Non sa, il grande regalo che mi ha appena fatto.
 
John si è talmente esaltato che tenta di insegnarle altre parole, non troppo complicate, e lei sembra molto attenta, anche se alla fine non riesce a dire ancora altro; ma lui sorride e continua a provare.
Dal canto mio, mi sento terribilmente in colpa.
“Papa”. Una semplice parola che tutti –almeno una volta nella vita- abbiamo pronunciato, una normale parola composta da due sillabe, nulla di così eccezionale infin dei conti. Eppure. Eppure non riesco a fare a meno di sorridere quando la pronuncia (soprattutto in mia direzione), non riesco a non sentire qualcosa scaldarmi il cuore, non ci riesco, e -in un certo qual modo- non è giusto. Perché non sono io il padre biologico qui, perché lei avrebbe avuto una madre e probabilmente mi avrebbe visto talmente poche volte in vita sua, da non ricordarsi nemmeno la mia faccia o il mio nome. Ma quel che è peggio, è che John non fa niente. Non si arrabbia se lo fa, non sembra dargli fastidio, non cerca di farla smettere (forse dipende anche dal fatto che è troppo piccola per capire), non fa assolutamente niente. E io non so come comportarmi. Tutta questa situazione è assurda, tutto questo comportamento è assurdo, tutto il… non fare niente, di John, è assurdo. E io so che, quando arriverà il momento e lei capirà di non dovermi più chiamare così, qualcosa mi farà male. E sarà qualcosa legato ai sentimenti: li odio. Mi hanno imprigionato in qualcosa che mi farà solo del male, assieme a John.
Mio fratello aveva ragione, di nuovo.
Mi prudono le mani, devo fare qualcosa. Un caso. Ho bisogno di un caso.
Vengo distratto da un suono familiare, ma quasi dimenticato: è il cellulare di John che ha iniziato a vibrare, e lui pare non accorgersene. Quando la suoneria si alza, capisco che lo sta semplicemente ignorando. Ancora. Perché? Chi è? Lo voglio sapere. Ho una teoria a riguardo, ma non ho abbastanza indizi per confermarla.
Mi alzo dalla poltrona e mi avvicino al tavolino, ma appena sto per toccare il telefono, John lo prende e preme il pulsante rosso per interrompere la chiamata. Lo guardo e lui fa altrettanto. Corruga le sopracciglia, mi guarda con occhi supplicanti di una tacita richiesta: non fare domande.
Va bene, John; non te le farò. Nemmeno questa volta.
In due falcate sono dalla piccola che gattona in giro per il plaid, raccogliendo e lanciando giocattoli. Appena mi avvicino alza il viso e mi guarda con la bocca aperta senza capire cosa sto facendo, poi solleva le braccia e apre e chiude le manine. Sa perfettamente quando la voglio prendere in braccio, ormai.
«John, passami il suo cappotto, fa freddo fuori.»
Gli do’ la schiena ma, anche se non lo vedo, so perfettamente che la sua espressione sarà alquanto interdetta.
Lo sento muovere qualche passo nella stanza e dirigersi all’attaccapanni.
«Dove la vuoi portare?» il tono non è preoccupato ma alquanto indagatore.
Ritorna verso di me e mi passa un piccolo cappotto rosa (Molly e la miriade di vestiti per bambina che ci ha regalato, perché è tutto rosa?!) che le metto senza fretta. Non rispondo.
«Greg non ha chiamato.» mi fa notare, e io evito di dirgli che no, Greg (sì, mi da’ seriamente fastidio che lo chiami così) non ha chiamato e che –se anche fosse- l’avrai lasciata a casa piuttosto che farla venire con me per niente.
Sbuffo e le chiudo la cerniera, tirandole fuori dalle tasche dei piccoli guanti e un berrettino.
«No, non ha chiamato. Vado semplicemente a fare una camminata. Problemi?»
Devo avergli risposto male, perché lui abbassa la testa e guarda il suo cellulare. Lo sblocca e fa scorrere il pollice sul vetro. Poi mi guarda di nuovo.
«Era…», si schiarisce la gola e aggrotta le sopracciglia. «Beh, insomma…»
Prendo Sunshine in braccio e mi fermo vicino a lui.
«Sunny, saluta il papà.»
Lei mi poggia la testa sulla spalla e allunga un braccio verso John. Lui sospira.
«Fa la brava.», le bacia la mano.
Scuoto la testa: come se ci fossero dubbi, in proposito.
Poi mi guarda. «Anche tu.»
Mi scappa da ridere ma cerco di trattenermi; John fa il finto serio, con le mani appoggiate sui fianchi e le sopracciglia corrugate.
«Sì tesoro, farò il bravo.» probabilmente è il tono più sarcastico che io abbia mai usato in vita mia, anche se mi piacerebbe dirlo sul serio.
Lo vedo alzare gli occhi al cielo e spostarsi per farmi passare. Prendo la borsa di Sunshine –con relativi ricambi e pappette- e mi avvio.
«Ciao, amore
Quel “amore” mi rimbomba nelle orecchie per tutte le scale, assieme alla risata di John che segue poco dopo.
 
Quando torno al 221B, John è seduto sulla poltrona, spalle basse, due tazze di tè abbandonate sul tavolino (ospiti: non sicuramente la signora Hudson), non ci sente arrivare: è successo qualcosa.
Chiudo la porta in modo tale da farmi sentire e John si volta, sobbalzando un attimo.
«Oh.» dice semplicemente, respirando un po’ più veloce «Non vi ho sentiti.» fa un sorriso sincero.
Mi avvicino e mi siedo davanti a lui, cappotto ancora addosso, Sunshine sulle ginocchia, la testa piegata nell'incavo del gomito: si guarda attorno. 
«Ospiti?»
Lo vedo sospirare e guardare le tazze di tè.
«È venuta Harry a lamentarsi. “Sono mesi che non ti fai sentire”, ha detto, come se prima ci sentissimo ogni giorno. Voleva vedere Sunshine e salutarla, ma le ho detto che eravate usciti e non sapevo quando sareste tornati.»
Sorrido. «Un velato invito ad andarsene.»
Mi ghigna di rimando. «Mi conosci meglio di lei.»
Cala per un attimo il silenzio, valuto se chiedere o meno. John però, non accenna a continuare.
«E...?»
«E...» prende un profondo respiro, si cala di più sullo schienale come se non riuscisse a stare dritto e guarda fisso davanti a sé. «È tutto il giorno che mi chiamano gli zii di Mary.» lo sguardo vuoto, quasi assente, inizia a preoccuparmi.
«Vogliono sapere come sto, come non sto, come sta la bambina, se cresce bene, quando ho del tempo libero che magari vengono a vederla, quanto pesa, come la vesto, con chi abito, se ho cambiato casa siccome non rispondo a delle fantomatiche lettere, e se Sunny mangia, dorme, vive e...»
«Calmati.»
Probabilmente non si è nemmeno accorto di essersi accucciato improvvisamente in avanti, le mani nei capelli, il respiro irregolare, gli occhi spalancati verso il vuoto. Rimane di nuovo in silenzio.
«Stai calmo John.»
Scuote impercettibilmente la testa.
«Non riesco più a stare calmo, Sherlock.»
«Stai male.» è una constatazione piuttosto ovvia. Ma sembra che l'ovvio rassicuri molto le persone.
Lui scuote di nuovo la testa.
«Non sto male. Sto di merda.»
Sto per rispondere, quando sento bussare alla porta e la signora Hudson fare capolino nell'andito.
«Cucu! Disturbo?»
Sorrido rassicurante, John si volta dall'altra parte.
«No, signora Hudson, anzi, è arrivata proprio al momento giusto. Io e John dobbiamo parlare di un caso, riesce a tenere lei Sunny fino stasera?»
Fa qualche passo in nostra direzione e poggia un pacchetto di stoffa viola sul tavolo.
«Oh ma certo che mi occuperò di questo angioletto. Su bambina, vieni qui.» Sunny mi si aggrappa al cappotto, ma fa poca resistenza quando la padrona di casa inizia a farle il solletico.
«Vi ho portato dei biscotti.» dice indicando il sacchetto prima di avviarsi verso l'uscita.
«E non stancatevi troppo!»
La porta si chiude.
Il silenzio diventa improvvisamente pesante e John non accenna a voltarsi nella mia direzione.
«John, credo sia normale che gli unici parenti di Mary vogliano vedere la loro nipote.»
Lui annuisce, sempre dandomi la schiena.
«Allora cosa c’è di tanto strano da infastidirti in questa maniera?»
Le spalle si alzano e si abbassano: ha sospirato.
Lo vedo muovere piano le dita sul bracciolo e rimanere in silenzio; sta pensando a cosa rispondere.
«Non riesco a parlare con loro. Non… non li voglio vedere.»
Non ho idea di che rapporto avesse con gli zii di Mary, ma non l’ho mai sentito lamentarsi di nessuno. Quindi?
«Perché?»
La mia voce è calma, serena. Congiungo le mani e le porto sotto il mento: sto per iniziare un interrogatorio?
Finalmente si volta, ma forse sarebbe stato meglio non l’avesse mai fatto.
Ha gli occhi lucidi, le sopracciglia aggrottate, lo sguardo carico di risentimento, si morde le labbra.
«E’ colpa mia.»
Il mio sguardo dev’essere piuttosto confuso, perché dopo qualche secondo lui continua. Devo ammetterlo: è difficile lasciarmi senza parole, e John per una volta c’è riuscito.
«Mary. E’… per colpa mia.», si morde di nuovo il labbro inferiore e sposta lo sguardo verso terra, rimanendo in silenzio.
Rettifico: è riuscito per ben due volte in meno di mezzo minuto a lasciarmi senza parole.
«Prego?»
Rialza gli occhi su di me.
«Mi sento in colpa verso gli unici parenti di Mary. Non voglio più averci a che fare. Non voglio vedere la loro pena, non voglio vedere il loro dolore. L’ho provocato io. E non voglio affrontarlo.»
Mi ritrovo a spalancare gli occhi per qualche secondo. Credo di non aver mai sentito un discorso così privo di senso in tutta la mia vita.
Aspetto che il suo respiro torni regolare, la mente un po’ più calma.
«John, tutto quello che stai dicendo non ha nessun senso. Spero tu ne sia consapevole.»
Lui ghigna (non saprei seriamente come altro definire una simile espressione facciale).
«L’ho sposata. L’ho messa incinta. E’ morta.»
Mi guarda, come se stesse dicendo la cosa più ovvia del mondo.
«Molte persone al mondo si sposano e fanno figli, John. Non avresti mai potuto sapere cosa le sarebbe capitato. Non l’hai premeditato, non l’hai fatto con intenzione.»
Spero riesca a comprendere un ragionamento così basilare.
Adesso ha lo sguardo vuoto, si riappoggia alla poltrona e guarda davanti a sé.
«Non avrei mai dovuto sposarla.»
«Oh per l’amor di Dio John! Devo dirtelo proprio io? L’amavi!»
Il fastidio che provo nel dirlo non saprei a cosa paragonarlo, ma so che fa male.
Lui fa un sorrisetto privo di divertimento, prima di rispondere.
«Mai quanto amavo te, Sherlock.»
Silenzio.
Cosa?
La testa ruota lentamente appoggiata alla poltrona, quando mi guarda è serio, gli occhi un po’ meno lucidi di prima.
«Non dirmelo. Non te l’aspettavi questo, vero?»
Scuoto la testa, incapace di fare altro, di mettere un pensiero coerente dietro l’altro.
Lo vedo annuire, per poi continuare, i braccioli vengono artigliati.
«In un modo o nell’altro, Sherlock, sapevo che tu tenevi a me.»
Tempo verbale sbegliato: tengo a te, non tenevo.
«E tu mi hai fatto così male; così male. Sai perfettamente che avevo già intrapreso una relazione con Mary prima che tu tornassi, ma Dio solo sa che l’avrei lasciata in ogni momento per riaverti.»
Mi scoppia la testa.
«Però questo è quello che si pensa nella teoria. Poi, il tuo migliore amico ritorna in pratica e tu provi una rabbia tale da voler fargliela pagare in qualsiasi modo. E io ho scelto Mary. Una donna così cara e così dolce, da sopportare i miei incubi continui, da non lamentarsi mai di me, da spronarmi nel fare pace con chi è tornato dal regno dei morti.»
Tossisce, la voce incrinata.
«L’amavo in un certo qual modo, ma non si avvicinava neanche lontanamente a quanto ti amo, Sherlock. Neanche lontanamente.» si copre gli occhi con una mano e scuote la testa.
Quanto ti amo: presente.
Come siamo arrivati a questo punto? Quando? Perché?
«Se solo non fossi stato così… così. Non l’avrei mai dovuta mettere in mezzo. Non avrei… Dio, sono un uomo di merda.»
Mi alzo e mi avvicino, per poi abbassarmi sulle punte davanti la sua poltrona, prendendogli il polso e scuotendolo piano.
«John! John, ascoltami.»
Lui non fa cenno di volermi dare retta e continua a coprirsi con una mano, mordendosi un labbro che sta tremando.
Non fare così. Non fare così. Non. Fare. Così.
«John!», lo urlo talmente forte che probabilmente anche la signora Hudson e Sunny di sotto hanno sentito.
Toglie la mano e mi guarda, gli occhi bagnati.
Ed improvvisamente realizzo di non sapere affatto cosa dirgli. Dannazione, non sono io quello bravo con le parole, qui.
«Mary era una grande donna. E ti amava, e non credo nemmeno per un solo istante che avrebbe rinunciato a un solo attimo di quello che ha avuto nemmeno se tornasse indietro.»
Alza il viso verso la finestra e fa uno strano suono con la bocca che assomiglia molto ad un “ah” inspirato, sorridendo: non mi crede.
«Non era una donna stupida, per niente. Avrebbe capito se tu non l’avessi amata veramente.»
Silenzio.
«E poi c’è Sunny.»
Lo vedo chiudere gli occhi e sospirare.
«Non avrebbe messo al mondo un figlio sapendo che sarebbe cresciuto infelice. Credi davvero fosse una donna simile?»
Non mi risponde.
«John.»
«No.»
Annuisco.
«Al massimo quello da criticare sono io che ti ho fatto patire tutto questo.»
In queste cose, sbaglio sempre io.
Ha gli occhi socchiusi. Mi fa una leggera carezza sul viso.
«Ti amo, Sherlock. Come la risolviamo questa?»
Ho un brivido che mi percorre dalla punta dei piedi a quella dei capelli.
«Non c’è niente da risolvere, John.»
Mi osserva con attenzione: non ha capito.
«Ti amo anch’io.»
Rimane lì, fisso a guardarmi con occhi sgranati, e la mano ferma ancora vicino al mio viso: la ritrae piano.
Mi guarda, lo guardo.
Mi dispiace John; più di questo io non sono in grado di fare, più di questo io non so dire. Non so come muovermi, non è il mio campo e, sinceramente, inizio a sentirmi a disagio (un’altra prima volta nella mia vita).
Mi alzo con calma sotto i suoi occhi che non mi lasciano mezzo secondo.
Non farò un altro passo in questa direzione John, non ne sono in grado. Prenditi il tuo tempo, fai quello che credi, dimentica anche quello che ho detto se ti farà stare meglio.
Forse sarebbe meglio se me ne andassi.
Mi giro e faccio per andarmene in camera, quando la voce di John mi ferma.
«Prendi una cazzo di sedia e vieni a metterti qui vicino a me.»
Va bene.
Prendo una cazzo di sedia (finezza John: non sai proprio che cosa sia) e vado a mettermi vicino a lui.
Si è rimesso nella posizione di prima, con la mancina a coprirgli gli occhi poggiato di traverso al poggia testa.
Che cosa dovrei fare?
Vedo la mano destra di John superare il bracciolo e raggiungere a tentoni la mia spalla, per poi scendere con calma tutto il braccio fino a raggiungere la mia mano, le sue dita che s’intrecciano con le mie.
E’ un contatto tanto semplice da riuscire a mandarmi nel pallone. Rimango per un secondo fermo, finché non mi decido e la stringo leggermente anch’io. E’ calda. Calda, ruvida, un po’ più piccola della mia ma più grossa. Semplicemente la mano di John.
Devo smetterla di pensarci.
Passa talmente tanto tempo, e c’è talmente tanto silenzio, che inizio a credere che John si sia dimenticato della mia presenza, o si sia addirittura addormentato. Quando, però, il suo pollice inizia a massaggiarmi piano il dorso della mano (bellissimo), capisco che ha finito in realtà di fare un determinato pensiero.
Non si sposta di un millimetro, ma inizia a parlare.
«Da quanto tempo tu… Sì, insomma… da quando…?»
Gli stringo un po’ di più la mano per dirgli che ho capito.
Da quando.
Se ci penso, non riesco a dirlo. Si può capire da quando una persona inizia a risultarti da indifferente a piacevole? Da piacevole a provare sincero affetto? Da affetto ad amore? Io credo sia più come una specie di virus; un virus che ti entra dentro e si fa strada in te, piano, ma talmente piano, da non riuscire ad accorgertene, assieme alla quotidianità giornaliera che si mette di mezzo e non ti fa capire la differenza tra “non è male come coinquilino” al “non posso farne a meno”.
Se dovessi rispondergli adesso, sul momento, dovrei dirgli che lo amo dal primo giorno che l’ho visto.
«Cambierebbe qualcosa?» chiedo infine.
Lui sorride, anche se sembra angosciato.
«Il mio livello di stupidità.»
«Allora non vuoi sapere la risposta.»
Ride; finalmente ride, rilassa le spalle e si toglie la mano dal viso, voltandosi verso di me.
«Sono proprio stupido, allora.»
«Posso dire, senza ombra di dubbio, che siamo in due.»
Mi sorride, e sembra essere tornato tranquillo, non del tutto ma almeno in parte.
Noto a malapena il fatto che si stia avvicinando, e noto -ancora con più ritardo- di fare lo stesso.
Quando sento il suo fiato vicino, i suoi occhi scrutarmi e le sue labbra leggere sulle mie, credo semplicemente sia arrivata la fine.
All’inizio è un semplice sfiorarsi (da parte di entrambi), finché una mano di John non mi afferra delicatamente la nuca (sento le dita scivolarmi lente tra i capelli) e lo sento sporgersi dal bracciolo, sovrastandomi in tutto e per tutto (per una volta), ma d’improvviso lo sento bloccarsi, allontanarsi leggermente e respirare piano.
«Sherlock, io non so quanto tu sia pronto a fare, quindi fermami se…»
«Se inizi a parlare a vanvera come in questo momento, sì lo farò: sta zitto.»
Forse era pronto a ribattere, forse no; tornarlo a baciare deve essere stata la migliore idea della mia vita.
 
Il corpo di John è caldo, molto più caldo di quanto mi aspettassi, ed è molto asciutto, anche se sono anni che non corre su e giù per tutta Londra a caccia di malviventi, deve essersi tenuto in forma (abitudini da soldato: non muoiono mai). La pelle ha sempre due toni di colore più scuro rispetto alla mia, e la cicatrice sulla spalla ormai inizia a non distinguersi più dal resto dell’epidermide.
Il fiato è caldo, le lenzuola sono fresche.
Una sua mano scorre lungo tutto il mio fianco, risalendolo poi con calma; sento un brivido percorrermi la schiena.
Mi sento terribilmente esposto, terribilmente attaccato sotto ogni punto di vista; terribilmente bene.
Alzo una mano e gli sfioro la tempia, passandola poi nei capelli e accarezzandogli piano la cute, ne sembra sorpreso, lo sono anch’io. Lo spingo verso di me e torno a baciargli le labbra sottili, non so se esista qualcosa di più appagante.
Lui scende poi a baciarmi la clavicola, risalendo lungo il collo, baciandomi la mascella; mi volto verso di lui e bacio tutto quello che è a portata di pochi centimetri: il naso, gli occhi, la fronte.
Sento le sue dita carezzarmi il viso, bacio ogni polpastrello, fino ad arrivare al palmo: bacio anche quello.
Lui mi guarda e sorride, ha gli occhi blu luminosi –più del solito- e mi guarda come se fossi qualcosa di strano. Più che strano, inconsueto. Di bello e inconsueto.
Mi sento accaldato.
«Farò piano.» ride sommessamente, «Anche perché nemmeno io sono chissà quale esperto, in materia.»
Sorriso e annuisco, ma più per abitudine che per aver veramente capito a cosa si riferisce.
Si abbassa a baciarmi di nuovo, e sento che mi apre delicatamente le gambe con le mani; quando sento un lieve bruciore finalmente realizzo appieno, e il cervello si spegne.[1]
 
John è appoggiato con la testa al mio petto e mi massaggia piano il fianco, fino arrivare al ventre e torna indietro. Sono… spossato? No, è una sensazione diversa, sono tra lo spossato, il terrorizzato, e l’euforico. Forse, soprattutto, terrorizzato.
La prima cosa che avrei voluto fare sarebbe stata quella di scendere dal letto e andarmi a nascondere da qualche parte per il resto della mia vita, ma le gambe non mi avrebbero retto nemmeno per i primi tre metri, molli com’erano. John però mi ha sorriso –dopo essersi ripreso e aver riottenuto le proprie facoltà respiratorie e cognitive- e tutto è tornato alla normalità.
Quanto di normalità in questo caso si possa parlare.
E’ lui a rompere il silenzio, io non mi fido della mia voce al momento.
«Non ho voglia di alzarmi.»
D’istinto, gli passo una mano tra i capelli e li carezzo.
«Non dobbiamo farlo per forza.» mi schiarisco la voce un paio di volte durante una semplice frase. Dio, mi sento terribilmente inadeguato.
Lo sento ridere direttamente nell’incavo del mio collo e mi sento tremare la cassa toracica. E’ una sensazione meravigliosa.
«Credo che la signora Hudson avrebbe da ridire, e prima o dopo salirebbe comunque. Si è fatto tardi e Sunshine avrà sonno.»
Annuisco, ma nemmeno io ho voglia di alzarmi, neppure con tutte le giustificazioni di questo mondo.
«E se…»
John alza il viso a guardami, e mi ritrovo i suoi occhi grandi a pochi centimetri. Il cuore torna a pompare sangue più velocemente e me lo sento rimbombare nelle orecchie. Passerà –col tempo- una cosa del genere?
Mi schiarisco di nuovo la voce.
«E se semplicemente ci rivestissimo e tornassimo qui?»
Fa un cenno d’assenso con la testa.
«Mi piace come idea. Però prima opterei per una doccia.»
Rido. Non lo so il perché, ma rido.
«Okay.»
Mentre si alza le mie mani seguono il contorno delle sue spalle e delle sue braccia, finché non restano sospese nel vuoto; lascia la coperta ai piedi del letto quando si avvia al bagno. Raggiunta la porta si ferma e si volta a guardarmi, poi si guarda intorno (almeno nessuno dei due sembra imbarazzato per la nudità dell’altro).
«Beh?», allarga le braccia.
Non capisco.
Sbuffa.
«Ti muovi?»
Oh. Insieme.
Arrivo alla sponda del letto girandomi dall’altra parte e lo raggiungo in pochi passi: apre la porta facendomi passare per primo.
«Prometto che questa volta sarà solo una doccia.»
«In che senso?»
Chiude la porta senza degnarmi di una risposta, andando ad aprire l’acqua.
 
Quando la signora Hudson viene a cercarci per riportarci Sunshine ci trova in camera mia, entrambi in pigiama, io con il busto semi appoggiato alla testiera del letto e John che mi dorme sull’addome (si è addormentato poco fa), ha una mia mano tra i capelli.
Posso affermare in tutta sicurezza, di odiare quando la gente mi abbraccia e scompiglia i capelli congratulandosi per chissà cosa, come se avessi dieci anni; ma lei è la signora Hudson e per questa volta gliela faccio passare, prima che inizi a piangermi addosso.
«Lei si preoccupa sempre troppo.» bisbiglio, per non svegliare né John né Sunny.
«Intanto sono io quella che ti ha visto in quello stato per quasi un anno.»
Mi scompiglia di nuovo i capelli e appoggia Sunny al mio fianco libero, mentre io le metto il cuscino dall’altra parte cosicché non cada. A ben pensarci è vero; è stata lei ad avermi intorno per tutto l’anno in cui John non c’era. E devo ammettere che probabilmente non ero un così bel spettacolo.
«Buonanotte, signora Hudson.»
«Buonanotte, caro.»
Appena se ne va, mi guardo inconsapevolmente intorno, fissando le pareti semi vuote, fino ad arrivare al letto. Quando l’ho comprato –ormai quasi cinque anni addietro- ho pensato alla comodità che un letto a due piazze poteva portare: mi piace riuscire a stiracchiarmi la mattina occupandolo tutto, o semplicemente crollarci sopra senza rovinare dall’altra parte. Chissà perché però, non ho mai trovato che questo letto, ora totalmente occupato, sia mai stato più perfetto e comodo di così.
 
Devo ammettere che i primi giorni ci ritroviamo comunque un po’ impacciati, ma tutto trova una collocazione perfetta, e ogni risveglio risulta essere sempre migliore.
Alla fine il problema della nuova abitazione per John è –per motivi più che ovvi- assolutamente caduta nel dimenticatoio: Sunshine avrà un intero piano di distanza da me e John, come camera dovrebbe risultarle perfetta.
Andiamo a visitare assieme la tomba di Mary, e John si scusa di tutto, anche di cose di cui non si dovrebbe scusare e io con lui. Qualche giorno dopo, prende anche il coraggio a due mani e chiama gli zii di Mary, scusandosi, spiegando a grandi linee (mentendo) la mole di lavoro che gli è piombato addosso –siccome ha dovuto ricominciare prima per motivi ignoti; sinceramente penso non gli abbiano creduto- e il fatto che è incredibilmente stanco, e che si è trasferito perché da solo nel vecchio appartamento non ce la fa a rimanere: affitto troppo alto, troppi ricordi. Non sembrano entusiasti della risposta (ben che meno della mia presenza in casa, ma essendo il 221B anche casa mia, potrei pensare la stessa cosa di loro), ma fanno finta di nulla e danno a John il numero di telefono della loro casa a Plymouth dicendo che un viaggio fino a Londra era comunque lungo, quindi di rispondere e di farsi trovare. John incassa il colpo e annuisce. Passano il resto della giornata con noi.
 
«Brava Sunny, così. Dai.»
A quasi un anno, Sunshine inizia a provare a stare in piedi (ovviamente retta saldamente per le mani da me o da John), ma pare sia ancora presto, perché le gambe le tremano e non riesce a stare ferma col bacino. Sembra comunque contenta della nuova esperienza.
John resta seduto a ginocchioni per terra, mentre le tiene le mani e lei ci riprova, con scarsi successi.
Mi avvicino e mi siedo vicino a lui, poggiandomi sul suo fianco, la testa sulla sua spalla.
Lo sento ridere.
«Papà vuole attenzioni, Sunshine.»
Sposto di poco il viso e lo guardo, senza mai staccarmi completamente da lui.
«Potevi dirmelo, lo sai che te le do’ volentieri.», ghigno.
Lui alza un sopracciglio e mi fissa stupito.
«Parlavo di te, mica di me.»
Rimaniamo a fissarci per qualche secondo.
Ma cosa…?!
«Credevo fosse scontato. Alle volte credo sia più tu suo padre che io.» ride, sta semplicemente scherzando, «E trovo più che giusto che ti chiami così, no?», passa un braccio attorno a Sunny per non farla cadere e mi prende il mento con una mano, poggiando le labbra sulle mie, in un tocco delicato. Improvvisamente però, pare colto da un’illuminazione e si stacca repentino. Cerco di seguirlo, senza staccarmi, invano.
Labbra, dove state andando? Tornate qui.
«Ma se non vuoi, non ci sono problemi. Non ti voglio obbligare. Credevo semplicemente ti avrebbe fatto piacere. Cioè…»
Gli tappo la bocca con una mano, i fiumi di parole sconnesse non mi sono mai piaciuti molto.
«Certo che lo voglio, John.»
Sento le sue labbra stendersi in un sorriso sotto il mio palmo, i suoi occhi si illuminano di più.
Appoggia piano Sunshine a terra e si toglie la mia mano da davanti e le da un bacio.
«Spero che risponderai così anche alla seconda cosa che ti chiederò.»
Si è fatto improvvisamente serio. Ripasso mentalmente le ultime cose che ho fatto negli ultimi venti giorni, cercando di ricordarmi se ho fatto qualcosa di male o meno. A parte aver nascosto qualche provetta nel bagno –fatto di cui abbiamo già discusso- non mi sovviene niente.
«Sposami.»
 
Cinque anni dopo…
 
«Vado a prenderlo, faccio in un lampo!»
«Lascia stare John, vado io!»
Sorride e scuote la testa.
«E’ solo un graffio alla mano, Sherlock, non fa così male, e non m’impedirà di raggiungere il supermercato dietro l’angolo.»
Arriccio le labbra e guardo il bendaggio fatto in fretta e furia.
«Arriverei prima io di te, non ho le gambe tozze come le tue.»
Ride.
«Se riesco a starti dietro per tutta Londra, riuscirò anche a raggiungere il supermercato, se mi lasci andare. Ah, e per la cronaca, le mie gambe tozze ti piacciono.»
Non ho il tempo di replicare perché si volta ed esce dal cortile.
Già: cortile.
Sospiro e mi volto verso la scuola elementare: cinque minuti e finiranno le lezioni.
Riconosco le facce dei genitori dei compagni di classe di mia figlia, e devo ammettere che per il 90%, li odio tutti.
John mi ha praticamente lasciato nella gabbia del leone.
Incrocio le braccia e spero ardentemente che nessuno di loro mi si avvicini. Soprattutto perché ho promesso a John che…
«Oh, signor Holmes!»
Dannazione!
Una donna di circa trent’anni si avvicina, sorridendo raggiante e salutando con una mano. Castana, capelli lunghi, occhi azzurri, un trucco non troppo pesante, fa la segretaria in un noto studio di avvocati.
Cosa mi irrita maggiormente di questa donna? Che tradisca il marito con quasi tutti gli avvocati dello studio, o il fatto che sbatta le sue lunghe ciglia ogni volta che vede John?
Decisamente la seconda.
Sorrido (suppongo sia talmente forzato da vedersi a chilometri di distanza) e faccio mente locale sul cognome della donna.
«Buongiorno signora McGerald.»
«Ooh, mi chiami Laura, la prego!»
Si aspetta lo stesso trattamento? Può pure scordarselo.
Restiamo un attimo in silenzio, mentre lei si guarda intorno.
«Dov’è suo marito?»
Non sono affari suoi.
«E’ andato a comprare un succo di frutta, abbiamo avuto una giornata impegnativa, e ce ne siamo scordati.»
Lei mi guarda per un secondo senza capire, poi il sorriso le si allarga in una piega maliziosa: mi fa l’occhiolino come a intendere di aver capito.
Non ci vuole un gran cervello per capire a cos’abbia pensato. Non le posso sicuramente dire che si sbaglia, ma che –semplicemente- abbiamo dovuto inseguire un killer professionista che alla fine, messo alle strette, si è suicidato, ma non prima di essere riuscito a ferire John (non si fosse ucciso, lo avrei fatto volentieri io, con calma e metodo).
La campanella suona e la donna mi fa un cenno col capo allontanandosi verso le porte, io non mi muovo: Sunny sa perfettamente dove trovarmi.
Mi volto verso il cancello e guardo se John è di ritorno, per ora nulla.
«Papy!»
Sento la stretta leggere di Sunny attorno alle gambe, abbassando la testa, la prima cosa che noto sono i capelli lunghi, biondi e mossi, infine alza il viso e mi guarda sorridendo.
«Tesoro.»
La sollevo e lei mi allaccia le braccia al collo, dandomi un piccolo bacio sulla guancia.
«Allora, com’è andata a scuola, stavolta?»
Ormai sono dieci giorni che ha iniziato la prima classe, ma non sembra molto entusiasta; infatti, mette il broncio, aggrotta le sopracciglia e sbuffa.
«Papy, è noiosa.»
Sì, John mi odia per questo.
«Abbiamo fatto di nuovo l’alfabeto, ma io lo so già. E ci stanno imparando a…»
«Insegnando, Sunny: i maestri insegnano, gli alunni imparano.»
Mi guarda un attimo in silenzio, annuisce: ha capito, non sbaglierà più.
«Ci stanno insegnando a leggere parole stupide. Come casa, io la so già leggere la parola casa
Sbuffa di nuovo e mi abbraccia.
Forse John ha ragione, non dovevo insegnarle le cose base per farla arrivare preparata, forse ho un po’ esagerato (e va bene John, avevi ragione), però forse ho ragione anch’io, e dovevamo mandarla in una scuola privata (e come al solito,alla fine, ho ragione io).
«Almeno anche il mio compagno di banco si annoia, è molto più bravo di me, dicono sia un genio! Così ci ritroviamo a parlare tra di noi, per non annoiarci troppo, anche se le maestre ci sgridano. Comunque è simpatico!», sorride felice.
Mh?
Non ho il tempo di formulare la domanda che un bambino moro, dagli occhi azzurro chiaro, attira la nostra attenzione.
«Sunshine ci vediamo domani!»
La madre si volta a guardare chi il figlio stia salutando e ci rivolge un piccolo sorriso e un cenno del capo, il marito apre la portiera della macchina.
«Ciao Hamish! E grazie per i biscotti!» [2]
Sunny si sbraccia così tanto che ho paura mi cada.
Hamish. Un bambino. Compagno di banco di mia figlia.
Scuola privata. Subito.
«Tesoro, devi stare attenta ai bambini di nome Hamish. Hamish è il nome di chi da grande diventerà un cascamorto. Specie se ce l’ha per secondo nome e…»
Sento Sunny tendere le braccia dietro di me, e capisco chi sia arrivato.
«Papà!»
Appunto.
Sento una mano arrivarmi al fianco e stringere, forse un po’ troppo forte.
«Scusa, devo aver capito male, cos’ha il nome Hamish che non va?»
Mi volto a guardarlo, lui intanto passa il succo di frutta a nostra figlia che lo saluta con un bacio e poi torna a farsi i fatti propri.
Avanzo un passo verso l’uscita e gli scocco un leggero bacio.
«Quanto ci hai messo? Lo dicevo io che hai le gambe troppo corte.»
«Le tue gambe lunghe non avrebbero cambiato nulla, c’era una fila infinita.»
«Papy, mi metti giù? Voglio camminare!»
La faccio scendere e la mando qualche passo avanti, cosicché la possa vedere.
«Comunque non cambiare discorso, cos’ha il nome Hamish che non va?»
Sbuffo, mentre Sunshine si volta, come se si fosse appena ricordata qualcosa.
«Papà! Hamish può venire a giocare a casa nostra, un giorno?»
John aggrotta le sopracciglia.
«Chi?»
Lei sorride mentre beve il succo.
«Il mio compagno di banco!»
John mi tira un’occhiata, io inclino il capo e sorrido.
«Vedi Sunny, Hamish è il nome di chi da grande…»
 
 
 
Fin.
 
 
 
NOTE:
[1] Ho voluto far fare a Sherlock quello che nella prima Os non ha potuto fare. *ghigna soddisfatta*
[2] Sì, è proprio l’Hamish a cui state pensando. XD Non ho voluto fare Hamish come figlio, perché per quanto mi riguarda Hamish è stato adottato, o è figlio di Sherlock e Irene *si vede arrivare addosso acqua Santa*, quindi ho preferito evitare, però mi seccava non  metterlo del tutto. Chissà, magari in quei tre anni di assenza Sherlock ha visto Irene, ha avuto una sveltina, lei è rimasta incinta, lui non lo sa e lei ha dato il figlio in adozione e adesso Sunshine starà con quello che in realtà potrebbe essere il figlio di suo padre adottivo *ed ecco che parte la sigla di Cento vetrine* Comunque sia, Hamish in questa fic è stato veramente adottato e mi sono fatta tutta una storia in mente che per motivi ovvi, non ho messo qui, comunque sia, ve lo volevo dire! E ovviamente, molto stile “Cortili del cuore” sarà legato indissolubilmente a Sunny. I filmini mentali che mi sono fatta… u__u
 
E’ STATO UN PARTO. QUADRIGEMELLARE. SENZA CESARIO. MAMMA MIA OH. E STO PURE IN ANSIA. XD
ALLORA, QUESTA STORIA E’ UN PO’ TANTO UNA VACCATA E SINCERAMENTE HO AVUTO TALMENTE TANTI DUBBI NEL PUBBLICARLA CHE MI CHIEDO ANCORA COME MAI SIA QUI. PERO’ C’è, QUINDI IN FONDO I REGRET NOTHING. XD COMUNQUE SIA, POV SHERLOCK, PRIMA PERSONA PRESENTE, MI SONO PRATICAMENTE TIRATA LA ZAPPATA SUI PIEDI DA SOLA, MI SPIACE SE I PERSONAGGI PIU’ CHE OOC VI SONO SEMBRATI INCREDIBILMENTE SNATURATI NON SIETE LE UNICHE.
SE SIETE ARRIVATI FIN QUI NON POSSO FARE ALTRO CHE CONGRATULRAMI, MA MI SPIACE, NON HO NESSUN PREMIO DA DARVI ç___ç
NON AVREI MAI PENSATO DI SCRIVERE UNA PARENTLOCK E CI SARA’ PURE STATO UN MOTIVO MA E’ TUTTA COLPA DI THE CLOSER (NO, NON IL BELLISSIMO TELEFILM MA IL –A MIO PARERE- BRUTTISSIMO FILM) SIA PER QUESTA FIC SIA PER LA OS PRECEDENTE.
DEVO ASSOLUTAMENTE RINGRAZIARE CINQUE PERSONE, PER INFINITA PAZIENZA, VOGLIA DI STARMI DIETRO, E AMORE CHE MI HANNO DATO ANCHE QUANDO RIUSCIVO A STRESSARE PER LE MINIME COSE:
Jessie Loneliness, CHE MI HA SPUTATO ADDOSSO E PICCHIATA (VIRTUALMENTE PARLANDO) E MI HA DETTO CHE E’ BELLA NON CAPISCO COME SIA FATTIBILE E QUINDI CHE MI DEVO DARE UNA MOSSA. POI I SUOI COMMENTI MI FANNO SEMPRE RIDERE DI GUSTO E COMMUOVERE INFINITAMENTE.
Fusterya, PER IL SUO INCORAGGIAMENTO, PER I SUOI “NAT, TI DICO SOLO CHE QUESTA COSA E’ SCIENTIFICAMENTE IMPOSSIBILE” CHE MI HANNO FATTA MORIRE DALLE RISATE (ANCHE SE FORSE NON DOVEVANO… MA IO NEL DUBBIO RIDO LO STESSO) E LA MORTE DI MORTE DI MARY PER CUI RIDO ANCORA TANTISSIMO XD “DOTTOR WATSON, SUA MOGLIE E’ MORTA DI MORTE” “AH OKAY” XD E PER IL TEMPO SPESO. <3
Mrs.Teller, PERCHE’ ORMAI ABBIAMO LA MENTE COLLEGATA PARE, SICCOME HA SCRITTO DI UNA SCENA DI SHERLOCK CHE FRUGA NELL’ARMADIO DI JOHN PIU’ O MENO LA STESSA SERA CHE L’HO SCRITTA IO E IO LA ADORO!! XD *la guarda comunque male perché deve postare ciò che lei SA* E PERCHE’ MI HA PASSATO QUESTO DISEGNO CHE E’ PERFETTO PER LA FINE DELL’ALTRA FIC, CHE MI HA FATTA MORIRE DALLE RISATE FANART.
ermete CHE MI HA DETTO “NAT, LE PARETI VIOLA NO EH! CHI SI FAREBBE MAI LE PARETI VIOLA? E’ INQUIETANTE” E PURE QUI HO RISO, PERCHE’ CAMERA MIA E’ EFFETTIVAMENTE VIOLA, COSI’ LE PARETI DI CAMERA DI MARY E JOHN SONO DIVENTATE ARANCIONI (ANCHE SE NON CREDO CHE A JOHN L’ARANCIONE NON PIACCIA. XD)
Yoko Hogawa
PER AVERMI DETTO UN CIMITERO DI LONDRA, O NON NE SAREI MAI USCITA. COMUNQUE E’ QUASI RIUSCITA A FARE SEPPELLIRE LA MIA MARY NELLO STESSO CIMITERO DEL SUO JOHN. MAISIA. è___é
(QUESTO E’ UN MO SCLERO PERSONALE PER DUE PERSONE CHE NON SENTO DA TEMPO, POTETE PURE NON LEGGERE!)
ELI&MARTI, LA CANZONE CHE HO USATO LA COLLEGO SEMPRE A VOI E A CIO’ CHE AVETE FATTO, E A CIO’ CHE MI SIETE RIUSCITE A REGALARE IN TRE ANNI DI CONOSCENZA. SUNSHINE E’ UN NOME CHE HO PRESO PERCHE’ MI PIACEVA, PERO’ IL SOPRANNOME “SUNNY” E’ TUTTO VOSTRO, E MI MANCATE DA MORIRE! SPERO CHE UN GIORNO –IN UN MODO O NELL’ALTRO- CI SENTIREMO ANCORA : ) SAPPIATE CHE MANCATE A TUTTE QUANTE E CHE SOPRATTUTTO, IO E LA MIA MIGLIORE AMICA, VI DOBBIAMO DAVVERO TANTO, C’è UN TATUAGGIO A DIMOSTRAZIONE DI CIO’ : ) VI BACIO.
 
BENE, BASTA CON LE NOTE CHE TRA POCO SARANNO PIU’ LUNGHE DELLA STORIA.
VI SALUTO E VI RINGRAZIO *s’inchina*
-NAT-
   
 
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