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Autore: Amy Tennant    28/01/2013    8 recensioni
John Smith e Rose Tyler sono insieme e un altro Tardis sta crescendo nel mondo parallelo, nei laboratori di Torchwood. John però sente che qualcosa sta cambiando ed è qualcosa di cui neanche il Dottore era pienamente consapevole.
Una fine può essere l'inizio di qualcosa di totalmente inaspettato.
Anche per Rose.
Genere: Avventura, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Sapeva che cosa significava la presenza di quel piccolo gruppo di imprudenti ragazzi, il più adulto dei quali non arrivava a trent’anni: organizzazione parallela. Doveva trattarsi di una sorta di gruppo antigovernativo che stava progettando un assalto al Torchwood da mesi. Chiaramente, sotto Natale; chiaramente lo stesso giorno che si era deciso ad affrontare quella paura di ritrovarsi davanti qualcosa di orrendo.
La sua solita fortuna. La fortuna di quel gruppetto di ragazzini. Forse.
Aveva compreso subito quanto loro costituissero sostanzialmente un diversivo.
Era infatti inammissibile che un’impresa del genere coinvolgesse solo cinque elementi così giovani e mal equipaggiati. Non si sarebbe neanche meravigliato più di tanto se avesse scoperto che di fatto si trattava dei peggiori a disposizione mandati in giro in una missione parallela, una sorta di specchietto per le allodole. Qualcosa infatti gli diceva che chi si prendeva la briga di entrare in quell’assurdo edificio dalla pianta nascosta, non lo faceva per il bene di chi, in quel mondo, consideravano nemico a priori.
Non senza delle ragioni, doveva ammetterlo.
Dentro il Torchwood vi era qualcos’altro, qualcosa di più interessante, utile, probabilmente distruttivo.
Non sapeva se chi si trovava lì fosse intenzionato a distruggere o portare via quella cosa e neanche di cosa si trattasse. Ma dovevano essere già alla ricerca di quel che li aveva spinti ad entrare là dentro e magari da ben prima che lui arrivasse. In tanti e in gamba, sicuramente.
Il Torchwood aveva un sistema di sorveglianza molto sofisticato. Niente di impossibile da aggirare, pensò. Ma ci sarebbe lo stesso voluto tempo.
John era sicuro costoro stessero cercando quella cosa enorme e rumorosa che si stava quasi sovrapponendo al battito del suo cuore.
Quel rumore profondissimo, un rumore molto simile a quello del suo sogno. Un rumore buio, assordante. Ma che nessuno sembrava sentire.
Neanche Lakil. E questo era molto strano.
Ma non era quello che aveva scelto di cercare lui in quel momento.
Si chiese che cosa avrebbe trovato nelle prigioni del Torchwood.
Come aveva fatto un bambino alieno, che sembrava un ragazzo di vent’anni non dotato di particolare forza fisica, a scappare da quel luogo assurdo? Se le storie sul suo popolo erano vere, poteva averlo fatto solo in un modo. Doloroso e traumatizzante.
La rigenerazione al confronto era una passeggiata.
Non avevano mentito sulla missione di salvataggio, questo lo aveva sentito chiaramente da Lakil. Ma fino ad un certo punto. Qualcosa non quadrava.
Doveva pensare tante cose contemporaneamente, il più possibile. Il dolore gli stava vicino; lo sentiva come uno spiffero gelido nell’animo. Non poteva concentrarsi, non ci riusciva.
Per questo si attardava in considerazioni sulla situazione cercando di non farla precipitare.
Notò che nonostante tutto, gli piaceva da morire.
Il disagio e tutto il resto lo avevano incuriosito e persino la sofferenza era interessante.
Era inutile forzare la sua natura, lui era fatto per l’avventura, per risolvere e creare problemi. Era fatto anche per combattere, non se lo negava, e questo anche se l’idea di usare le armi stava diventando davvero insopportabile anche per lui, nonostante l’altro Dottore lo avesse definito pericoloso.
Non sarebbe mai stato umano.
Lo era solo con Rose e per Rose. Eppure mentre lo pensava una parte di sé negò il suo pensiero.
Se esisteva un paradosso esistenziale senza precedenti era la metacrisi tra un umano e un signore del Tempo. Studiava sé stesso con interessata curiosità per quello.
Sembrava quasi sul punto di assestarsi, di riprendersi un’identità separata da quel che era stato quando…
La rigenerazione nell’Undicesima vita lo aveva stravolto. Ma forse tutto ciò che stava succedendo aveva anche a che fare con le anomalie temporali di cui gli aveva parlato Donna.
Ripensò a quelle voci che aveva sentito nella testa poco prima.
Anche quella di Donna.
Parole che non gli aveva mai detto.
Aveva anche sentito la propria voce, come provenire da altrove. Un altrove lontanissimo.
Stringimi Rose perché sto per cadere…
Cosa voleva dire?
Inquietudine, eccitazione, preoccupazione. Tutto insieme. Il suo cuore ansioso correva veloce.
Terribile e bellissimo; come l’aver avuto lei dopo averla desiderata tanto. Terribile e bellissimo, come ciò che più amava.
Era la follia meravigliosa di riuscire ad essere pienamente sé stesso solo a quel modo.
 
John aveva deciso di non riparare i dispositivi di occultamento della squadra. Aveva invece modificato il proprio perché tutti restassero invisibili se restavano accanto a lui nel raggio di pochissimi metri, naturalmente aveva detto loro di non poter fare diversamente. Questo costringeva il gruppo a procedere compatto.
Tacevano preoccupati. Sentiva il loro inghiottire nervosamente una saliva diventata vischiosa. Sentiva quasi lo scricchiolare delle loro articolazioni e i muscoli tremanti.
I lamenti più profondi, dentro.
Il nervosismo già lo stava tormentando ma non sopportava la tensione silenziosa.
-          State troppo zitti e non mi piace – mormorò.
-          Ma…!
-          Ho regolato il convertitore perché emetta un rumore di fondo molto simile al silenzio e quindi potete parlare, a bassa voce però...
-          Potremmo non avere voglia di farlo – disse seccato il più robusto – tu sei un gran chiacchierone, Dottore.
-          E tu hai il passo di un elefante, te lo ripeto – rispose John seccato aggiungendo un sorrisetto soddisfatto per l’espressione che il ragazzo aveva fatto. Lakil lo guardò un po’ perplesso.
-          Sei davvero strano – disse.
-          Non sei il primo che me lo dice.
-          Posso… sapere… - John gli rivolse uno sguardo incuriosito. Lakil lo guardava ansiosamente ma sembrava non osare andare avanti.
-          Cosa vuoi chiedermi?
-          Ecco… vorrei sapere…  - esitò ma si fece coraggio - quanto sei vecchio, Dottore? – chiese con gli occhi luccicanti.
-          Ho… più di novecento anni – disse quasi distrattamente e sulle sue labbra ebbe un sorriso veloce, sentendo e vedendo i ragazzi chiaramente scossi dalla notizia.
-          Tu cosa…?
-          Fantastico…! – mormorò Lakil ammiratissimo. John inclinò lo sguardo.
-          Non so se darti ragione…
-          Te li porti bene, però! – osservò un ragazzo dietro.
-          Dovresti vedermi al mattino – rispose John ma le parole restarono sospese. Lo aveva già detto.
Quella volta.
Alla testa di un gruppo improvvisato di sopravvissuti che aveva perso quasi ad uno ad uno, cercando di salvarli. Poi aveva salvato tanti altri, praticamente tutti. Ma fra coloro che erano caduti, c’era lei.
…Astrid…
-          Tutto bene, Dottore? – chiese Lakil che doveva aver percepito il suo turbamento improvviso. Lui annuì ma non rispose. Vi fu un attimo di silenzio. Ma non poteva permetterselo.
-          A volte mi sembra di aver vissuto troppo – mormorò.
-          Dottore, prima ha detto che questo occultatore emette un rumore simile al silenzio? – gli chiese una delle ragazze.
-          Beh, sì… tecnicamente su un pianeta il silenzio non esiste. Per questo ho detto rumore.
-          Ah… suppongo che sia vero… - mormorò confusa.
John si accorse che in Lakil era aumentata l’ansia, proprio come lo era per lui.
Gli stava molto vicino. Era rassicurato anche fisicamente da lui e il loro contatto dava sollievo mentale ad entrambi, come riuscissero a dividersi l’onere di quella traccia che andavano seguendo.
Una delle ragazze guardava Lakil con indecisione e occhi troppo lucidi perché fosse solo per la tensione del momento. Era la stessa rimasta turbata dal sapere chi fosse il loro compagno.
-          Non è drammatico come sembra – le disse e lei lo guardò interrogativamente – dalle sue parti non è neanche reato… - aggiunse serio. La ragazza comprese il senso delle sue parole e arrossì evidentemente arrabbiata per l’imbarazzante ingerirsi nella cosa.
Lakil invece sembrava tranquillo e aveva addirittura accennato ad un sorriso.
-          Dottore… le hanno mai detto che è una persona troppo curiosa?
-          Ci ho costruito sopra la mia esistenza.
-          Lena, ha ragione il Dottore. Non è drammatico come sembra – disse Lakil alla ragazza e lei abbassò lo sguardo. John in mezzo emise un sospiro.
-          Digli quanti anni hai – suggerì al ragazzo. Lakil esitò un momento davanti agli occhi della compagna. Il Dottore gli fece un cenno di incoraggiamento – avanti, non avere paura…  - il ragazzo annuì.
-          Ok… Lena, io.. ho settantanove dei vostri anni… - la ragazza lo guardò di nuovo smarrita e cercò una conferma istintiva da John perché tutto le appariva senza alcun senso, persino surreale.
-          Non capisco, davvero io…
-          Lakil è un bambino per la sua gente, ma è più vecchio di te. E non è un bambino nel senso che umanamente si dà al termine – la ragazza continuava a guardare entrambi imbarazzata e smarrita – avrà molto da raccontarti e sarà per te interessante. Adesso smettila di sentirti in colpa per qualcosa che hai pensato o… fatto con lui – Lakil e la ragazza diventarono color vermiglio e contemporaneamente misero gli occhi a terra senza avere neanche il coraggio di guardarsi.
-          Che delicatezza! E poi sarei io l’elefante? – blaterò il ragazzo robusto.
-          Ah, come la fate lunga! – disse John con tono seccato - ora fatemi un po’ distrarre o finirò per innervosirmi sul serio. Qualcuno sa dirmi se anche in questo universo trasmettono sul secondo canale quella soap opera “Amate memorie”? – gli rivolsero l’ennesimo sguardo basito – perché quelle facce? Era molto divertente!  - protestò con un sorrisetto ironico.
Un sorriso che nascondeva il suo timore di essere arrivato quasi alla meta.
 
Le luci delle feste lampeggiavano sulle facciate delle case del quartiere e Catherine si sentì infinitamente più triste perché le tornò alla mente quella che si era lasciata alle spalle, piena di persone e che si preparava ad un festa. Quella casa però la rendeva triste perché lui era lì.
Uscire da quella stanza era stato insopportabile ma doveroso.
Si erano toccati fino ad una certa soglia. Varcata da lei per un istante incosciente.
Asciugò le altre lacrime dai suoi occhi facendo appello alla sua solida capacità di razionalizzare le cose. Purtroppo ancora una volta non riuscì a calmare il cuore.
Lo sentiva contrarsi malamente nel suo petto. Le sembrava che stesse diventando troppo più veloce. Non poteva continuare a correre a quel modo, non poteva resistere.
Non le importava. Se fosse morta, pensò, nessuno avrebbe pianto per lei.
… forse lui. Lui avrebbe pianto.
Lui era stato sul punto di piangere, quando erano stati vicini. E lei l’aveva sentito prima che gli occhi gli diventassero lucidi. Perché era così triste?
Lo era diventato quando l’aveva abbracciata. E accarezzata tanto dolcemente…
Cacciò via il pensiero doloroso delle sue mani rendendosi conto che per un istante aveva pensato stranamente ad un posto che non c’entrava nulla con tutto il resto.
Una strano luogo dalla luce dorata e azzurra insieme. Un guscio?
No. Qualcosa che però faceva sentire al sicuro.
Pensò che poteva addirittura sentirne il rumore di fondo. Il rumore di fondo che sembrava un soffio, un lungo sospiro su…
… un doppio battito…
Non aveva senso. Perché?
Entrò in casa confusa, tremante di freddo.
Aveva sempre avuto una notevole immaginazione, faceva parte del suo carattere, ma Catherine era sempre stata capace di conciliare il tutto con la razionalità.
Ultimamente quel fantasticare stava diventando strano. Strano perché aveva sempre a che fare con lui ma anche perché sembrava riuscire a prendere il sopravvento sulla realtà ed era preoccupante.
Tremando si chiese per quanto tempo i suoi nervi avrebbero potuto sopportare tutto senza spezzarsi come rami secchi.
Il freddo dopo il tramonto era diventato tagliente come vetro. Le mani erano screpolate e quasi sanguinavano. Probabilmente ci sarebbe stata un’altra nevicata, durante la notte.
Detestava essere sola.
La casa era buia, tristissima. Accese subito la luce e la televisione, per farsi compagnia.
In frigo aveva una bottiglia di vino bianco, aperta giorni prima. Decise che un bicchiere le avrebbe dato un po’ di conforto.
Non aveva addobbato. Non all’esterno e neanche dentro.
Non aveva molto senso, stava in casa pochissimo e per Natale aveva pensato ad una breve vacanza.
Andare lontano.
Non aveva più nessuno, nessun parente stretto. Anche lei vittima, come quasi tutti coloro che lavoravano al Torchwood, dell’invasione dei cyberuomini. Avevano dimenticato che proprio quelli non venivano da altri mondi ma erano la mostruosità prodotta da un uomo ambizioso. E ciò nonostante, la disgrazia aveva molto cambiato chi l’aveva subita. La guerra preventiva agli alieni era sembrata la mossa più logica e intelligente da fare. E poi si era innamorata. Di un alieno.
Tornando a casa tutto le era sembrato infinitamente più triste eppure averlo toccato l’aveva come accesa. E sebbene il suo stomaco fosse chiuso, tanto da non essere riuscita neanche a mangiare, si sentiva meglio e un po’ peggio insieme. Come ogni volta che lo vedeva. Era successo qualcosa, lo aveva visto e sentito.
Nei suoi occhi la distanza assoluta ed insieme la comprensione ma non l’aveva toccata con indifferenza. Aveva voluto toccarla, ne era certa.
Ed era rimasto turbato. La trasparenza di John nei suoi confronti era qualcosa di nuovo perché lei riusciva a capirlo, ad intuirlo solitamente. Stavolta invece la reazione era stata molto evidente e strana.
Catherine ripensò alle loro mani strette. Lui le aveva chiuso le dita tra le sue come dovesse portarla via, dovesse condurla da qualche parte. Non era un pensiero sensato ed era stanca. Molto stanca.
Non era un pensiero sensato ma restava lì.
Almeno il suo lavoro era servito. Sperò che stesse meglio, di non vederlo più come giorni prima; che non dovesse andare via per sempre. Il pensiero di Tashen e di coloro che aspettavano l’apertura del Tardis però le fece venire una fitta allo stomaco. Era terribile come le migliori ragioni potessero diventare causa di dannazione.
Certo non sarebbe stato risolutivo ma decise di rilassarsi con un bagno caldo, ne aveva bisogno.
…non pensare…
… corri… !
Si irrigidì e mise una mano alla testa, confusa.
Doveva essere la stanchezza perché aveva sentito qualcosa, un sussurro. Un sussurro dentro, una voce che non conosceva. Cosa voleva dire?
…corri? Perché? Per dove?
Nella sua mente una domanda sovrastava le altre…
Con chi doveva correre?
Si versò un altro dito di vino, si spogliò di ogni cosa lasciando parte dei vestiti in camera da letto, su una sedia, poi si diresse nuda in bagno. Iniziò a riempire la vasca di acqua calda, versando il sapone liquido sul fondo. Banana. Aveva sempre detestato i saponi alla frutta ma quello l’aveva attratta irresistibilmente.
Neanche le piacevano particolarmente ma le venne voglia di mangiarne una.
Si chiese se ne aveva ancora qualcuna in frigo o se invece fosse vuoto.
Guardò nello specchio il riflesso appannato del suo viso e inclinò la testa, perplessa.
Si vedeva strana, forse per la condensa che velava i suoi lineamenti; eppure sembrava ci fosse qualcosa di diverso in lei. Bevve un altro sorso di vino e fece un lungo sospiro.
L’odore del bagnoschiuma la fece sorridere.
… sei…. Così bella…
Non lo era. Non si sentiva tale.
Anche se glielo dicevano spesso. Ma lui no.
A volte lui le aveva sorriso in silenzio.
No, non era bella. Per lui nessuna era come Rose Tyler.
Lei invece era solo una donna stanca che stava sfiorendo.
Ma tu vuoi me…?
…Vuoi me?
Quel pensiero non sembrava suo, non era suo. Quella voce però continuava a parlare nella sua testa. Sembrava un parlare sottovoce.
La cosa la preoccupava. Possibile che non aver dormito ed essere nervosa le stesse procurando disturbi della percezione? Erano i sintomi di una malattia mentale?
Catherine si morse le labbra nervosamente e poggiò il bicchiere su un tavolino poi si distese dentro la vasca sperando di trovare sollievo. L’acqua l’accolse dolcemente, come un abbraccio.
Adorava l’acqua calda. Era eccitante.
Cercò di cacciare dalla sua mente altre immagini che avrebbero potuto farla agitare piuttosto che distendere ma non vi stava riuscendo. Chiuse allora gli occhi arresa. La luce soffusa faceva sembrare tutto più tenero, anche un pensiero triste e solitario. Il pensiero di lui.
Le venne in mente una collina affacciata sul mare e un cielo che correva. Tra le mani l’erba, che sapeva di…
Catherine sorrise per l’assurda associazione con le mele.
Lui era con lei e c’era vento.
C’era vento e lui sorrideva. Incantevole. E gli sorrideva anche lei.
Amo viaggiare con te…
… anch’io…
Catherine avrebbe voluto accarezzarlo. Lui voleva che lei lo toccasse ma non la toccava per primo. Stavano innocentemente distesi, l’uno accanto a l’altro. Era bellissimo lo stesso.
Sentì una scintilla di felicità ma il cielo che stava immaginando sfumò improvvisamente in qualcosa di oscuro, un corridoio profondissimo dal quale provenivano rumori strani. Un corridoio antico. Legno, finestre dai grandi vetri. Il ringhio cupo di una bestia feroce.
Si irrigidì per la paura ma si sentì quasi sollevare e poi prendere per mano. Lo vide, lui.
Correvano. Correvano con qualcuno dietro.
Lui le diceva di non voltarsi e lei guardava solo avanti. Avanti…
Catherine accigliò la fronte.
…immaginava ora un muro bianco.
Era di un laboratorio? Era immerso in una sorta di foschia.
Si stupì di quanto potesse sentirlo freddo, liscio. Un muro quasi viscido.
Sbatté la mano contro, come fosse una porta che si poteva aprire. Sbatté la mano contro qualcosa di chiuso per sempre con furia e le fece male; ma ad un tratto sentì. Sentì quella di lui sulla sua, attraverso un mondo intero. Un mondo sigillato …
…un altro universo…
… Sto bruciando un sole solo per dirti addio…
La voce…
No, io non ti lascerò mai…!
-          Ho deciso molto tempo fa  – sussurrò Catherine con voce sospesa e un lungo tremito scosse il suo corpo. Di scatto portò una mano al bordo della vasca e lo strinse. Spalancò gli occhi con il respiro di chi viene fuori dall’acqua dopo una lunga apnea.
Aveva pronunciato delle parole.
Senza averne coscienza.
Si avvolse le braccia al corpo tremante. L’acqua già sembrava troppo fredda, di colpo. La pelle increspata dalla paura.
-          Sto impazzendo, allora… - pensò terrorizzata – sto diventando folle…
Quelle fantasie, erano strane fantasie; strane scene da inventare in quel momento.
Non sembravano tali, non erano tali.
Di cosa si trattava?
Pensò assurdamente che le sembrava davvero troppo diverso dall’immaginare.
Sembrava piuttosto che stesse ricordando qualcosa.
Che non aveva mai fatto.
Non lei.
  
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