I would hold you in my arms
I would take the pain away
Thank you for all you've done
Forgive all your mistakes
There's nothing I wouldn't do
To hear your voice again
Sometimes I wanna call you
But I know you won't be there
Ohh I'm sorry for blaming you
For everything I just couldn't do
And I've hurt myself by hurting you
There's nothing I wouldn't do
To have just one more chance
To look into your eyes
And see you looking back
Ti stringerei tra le mie
braccia
Farei scomparire il dolore
Ti rigrazierei per tutto ciò
che hai fatto
Perdonerei tutti i tuoi errori
Non c’è nulla che non farei
Per sentire nuovamente la tua
voce
A volte vorrei chiamarti
Ma so che non saresti lì
Mi dispiace per averti accusato
Di ogni cosa che non riuscivo a fare
E ho ferito me stessa, ferendo te
Non c’è nulla che non farei
Per avere solo un’altra
possibilità
Di guardare nei tuoi occhi
E vedere che mi guardi a tua volta
Hurt
Christina Aguilera
-Vincent?-
Shelke. Il suo tono era
decisamente preoccupato. La sua voce tremava.
Qualcosa non andava.
-Shelke, che succede?-
Non chiamava mai, al massimo si
auto-invitava in casa sua, per tenergli compagnia. Ormai era abituato a quella
ragazzina piena di contraddizioni. Le aveva confessato di essere molto timida.
Ma questo non le impediva di participare a tutte le serate karaoke di Edge.
Era un ossimoro vivente.
Esattamente come lui.
-Si tratta di Yuffie... Si
trova all’ospedale di Mideel... Al momento la stanno operando...- sussurrò la
ragazza, con voce rotta dal pianto.
-TS. Barbiturici.- aggiunse
Shytry, appropriandosi della cornetta. –Ci sono poche speranze che si salvi.-
TS. Tentato Suicidio.
La strana freddezza con cui la
donna aveva pronunciato quella sigla lo terrorizzò. Come se fosse ordinaria
amministrazione. Come se un corpo freddo e morto non fosse altro che un ammasso
di cellule senza rilevanza.
Non era più abituato al gelido
soffio che evocava la parola suicidio.
Si sedette pesantemente sul
divano. Lo stesso divano su cui aveva dormito per tanto tempo.
Non riusciva a collegare un
tentato suicidio a Yuffie. No, Yuffie era forte. E poi, perché avrebbe dovuto
suicidarsi? Nella sua ultima lettera affermava di essere felice. Che insegnare
era ciò di più bello le era capitato. Allora, perché? Gli aveva sempre detto
che era un debole, se voleva suicidarsi, che lo faceva solo per fuggire dalle
proprie responsabilità...
O, almeno, all’inizio. Durante
la loro prima lite.
Perché?
Che ne dici di venirmi a
trovare? Mi sento sola, nonostante i miei cinque gatti e Blanche...
Era sola. L’aveva lasciata da sola, durante più di un’anno. Non le aveva mai telefonato. Le aveva mandato un solo telegramma. Un solo fottuto telegramma per tutte quelle lettere che l’avevano tenuto attaccato alla vita.
-Vincent? Io e Shelke siamo a
casa sua. Raggiungici al più presto.-
-Parto adesso.-
–... Tu sai esattamente ciò che ho fatto per te. Sai che cosa provo per te. Se non sai fare due più due, ti prego, torna alle elementari!-
Sapeva cosa provava per lui. Ma
non aveva mai capito. Non aveva capito quanto le era costato andarsene. Buttava
un sogno per un altro. Ed erano i due più importanti.
Non si era accorto delle sue
lacrime. Erano lì, invisibili. Come lame d’argento sul suo cuore.
E le sue grida disperate,
afone... Perché non si era accorto di nulla? Era così cieco?
Perché vale la pena di vivere?
Perché ci sono troppe persone che
soffrirebbero a causa della tua morte, ovviamente.
Si massaggiò le tempie,
cercando di non soccombere ai ricordi. Avrebbe dovuto seguirla. Dopotutto,
l’amava. Perché non l’aveva seguita? Sarebbe stato così semplice! Era stato
così stupido...
Aveva dimenticato quello che
aveva provato nella stanza bianca. Quando aveva pensato all’eventualità di
perderla per sempre. Di arrivare troppo tardi. Quando pensava che si fosse
sacrificata per lui.
-Ancora un esame passato con il massimo dei voti!- esclamò, con un largo sorriso. Il sorriso che gli piaceva tanto.
Avrebbe voluto dirle quanto la
invidiasse. Riuscire a studiare mentre si occupava di lui doveva essere molto
difficile.
Avrebbe voluto dirle quanto
fosse fiero di lei.
E invece... Aveva perso ogni
possibilità di dirle tutto questo.
Strinse i pugni. No. Non era
morta. Non poteva morire.
–Io non sono Lucrecia! Mi hai sentito?! Non voglio che mi dimostri chissà cosa! A me vai benissimo così! Lo so benissimo che non sei solo un freddo bastardo! Mi dispiace! Mi dispiace davvero! Ero arrabbiata con me stessa! Ho fatto una cosa orribile e avevo paura di quello che avresti potuto pensare! Ti prego... Non andare via...-
Non voleva che cambiasse, ma
avrebbe voluto che, almeno, le dimostrasse un pò di... Affetto. Nemmeno amore.
Lei sapeva che non avrebbe mai sentito quella frase uscire dalle sue labbra. Si
era rassegnata.
Ma non era giusto. Non era
giusto rassegnarsi all’evidenza che la persona che amava non le avrebbe mai
detto che senza di lei si sentiva persa, che l’amava come non aveva mai amato
nessuna donna, prima di lei.
Perché non era riuscito a dirle
che l’amava? Era la verità. In tre anni, il pensiero, la frase, era là, incisa
nella mente dell’uomo, ma, ogni volta che avrebbe voluto pronunciarla, non
riusciva. Era troppo difficile.
E poi...
Non andare via... Era la preghiera che lei ripeteva più spesso.
Quanto le era costato strappare
sé stessa dal loro appartamento?
Quanto gli era costato rimanere
soltanto a guardare, ancora una volta?
Nulla. Tutto. Lei.
Lei se ne stava andando.
-Non andare via.- ripeté,
stringendo ferocemente i pugni.
Osservò la porta
dell’appartamento, indeciso sul da farsi. Perché non gli avevano detto di
andare in ospedale? Era veramente troppo tardi?
Fece un respiro profondo e
bussò.
La porta si aprì quasi
immediatamente. Arretrò, trattenendo il fiato.
-Maestra, non è Jeremiah...-
sussurrò qualcuno. Non riusciva a vedere chi fosse. A dire il vero, non
riusciva a distogliere lo sguardo dagli occhi grigi di chi gli aveva aperto la
porta.
-No, non è lui, Albert... –
pigolò Yuffie, cercando di trattenere le lacrime. –Esco un attimo. Fai
attenzione ai miei gatti.- tentò di articolare, socchiudendo la porta.
La osservò. Non credeva ai suoi
occhi. Aveva i capelli corti, come quando si erano conosciuti. E nei suoi occhi
c’era la stessa rabbia, lo stesso orgoglio. Per un attimo credette che fosse
un’allucinazione. Un crudele scherzo del suo subconscio. Ma a sedici anni
Yuffie non si sarebbe mai vestita in modo così sobrio ed elegante.
-Yuffie... Shelke... Shytry...
Avevano detto...- balbettò l’uomo.
-Che cosa ci fai qui?- sibilò
la ninja, a denti stretti.
Represse l’istinto di
abbracciarla. Sembrava arrabbiata.
Shelke e Shytry avevano
mentito. Avevano mentito affinché l’andasse a trovare. Affinché riflettesse sui
propri sentimenti.
-Sono passati due anni! Con che
diritto ti presenti qui?!- sbottò, spingendolo con tutte le proprie forze.
Lasciò che lo picchiasse. Se
l’era meritato, dopotutto. Quando la donna, in lacrime, crollò sulle ginocchia,
s’inginocchiò accanto a lei e l’abbracciò.
-Shytry e Shelke mi hanno
chiamato. Hanno detto che eri in fin di vita.-
-Con che diritto ti presenti
qui?! Dimmelo! Non puoi comparire e scomparire dalla mia vita in questo modo!
Hai pensato all’eventualità in cui mi fossi trovata qualcun altro?! Ci hai
pensato?!- urlò lei, continuando a tirargli deboli pugni sul petto.
-Ed è così?-
-No... Certo che no! Sono innamorata
di te, cretino!- esclamò, dirigendo il pugno verso la sua faccia ma fermandosi
a mezz’aria. Gli accarezzò il viso e lo baciò, quasi disperatamente.
-La maestra piange?- chiese una
vocina.
Vincent alzò la testa,
osservando un bambino di circa sei anni fissarlo con astio.
-Sei stato cattivo con la
maestra?- lo minacciò, dall’alto del suo metro e dieci.
L’ex turk si alzò ed aiutò la
donna a reggersi in piedi. Poi osservò il nano. –Sì.-
Yuffie si asciugò le lacrime e
si abbassò fino a raggiungere il livello di quello che doveva essere Jeremiah:
-Hai dimenticato di nuovo il diario, vero?- chiese, con un sorriso diverso da
quello a cui era abituato. Era radioso.
Il nano annuì, arrossendo.
-Vallo a prendere, è sul
tavolo. E porta con te tuo fratello, per oggi la lezione è finita. Mi
raccomando, dai il meglio di te, alla partita!- esclamò la donna, con dolcezza,
scompigliandogli i capelli.
Per un attimo, l’ex Turk tentò
di ricordarsi la sua prima insegnante. Gli tornò in mente il suo righello da trenta
centimetri e il dolore che gli provocava riceverlo sulle dita.
-L’avrebbe voluta anche lei una
maestra come lei, vero?- sussurrò una voce femminile grave. Si voltò di scatto.
La portinaia, una donna dall’età indefinita e l’aspetto mascolino, appoggiata
ad una scopa, ammiccò. –Si vede da come si guarda insistentemente le mani... Ma
lo sa, ai nostri tempi lei ancora non era nata, la riforma della scuola era un
sogno lontano... Sa, mi sono presa dei colpi di manganello nel sessantotto, dai
Turk, quelle bestie! Ah, se ne avessi uno a portata di mano, ora!- sbraitò,
combattiva.
Vincent si allontanò
impercettibilmente da lei, inquieto e le risolse un sorriso nervoso.
-Ma se fosse stata la sua
maestra l’avrebbe guardata in quel modo? Uhm... Non credo...-
Si voltò nuovamente verso di
lei, ma era scomparsa.
-Allora, cosa vuoi?- chiese
Yuffie, fredda.
L’osservò. Aveva le mani sui
fianchi, esattamente come una maestrina arrabbiata. Trattenne l’urgenza di
ridere. Non era da lui. E poi, c’erano situazioni più urgenti da sistemare, in
quel momento.
Doveva dirle che l’amava. Aveva
fatto ottocento chilometri in elicottero, dopotutto. Qualcosa doveva pur dirle.
A parte dirle di non tentare mai un’esperienza del genere. I sedili erano dei
modelli Inquisizione Spagnola.
Scosse la testa e fece un
respiro profondo.
-Yuffie...-
-Vincent?-
Lo fissava con sguardo omicida
ed un sopracciglio alzato. Ma era tremendamente carina anche così.
-Ehrm... Volevo solo...
Chiederti... Hai dello zucchero?-
-Che cazzo dici, eh?!- sbottò
lei, tirandogli un coppino. –Vuoi forse farmi credere che hai fatto ottocento
chilometri solo per chiedermi dello zucchero, cretino che non sei altro?!-
-Non sei cambiata per niente da
quando avevi sedici anni...-
-Bè, che ti aspettavi?! Che mi
fosse magicamente spuntata una quarta e che fossi una giraffa di un metro e
settantotto?! Mi dispiace deluderti, Vincent Valentine, ma...!- iniziò lei,
acida.
-Sposami.-
Oh Shiva! Perché? Perché era
così immensamente idiota?
-Bè, questo è un buon motivo per
farsi ottocento chilometri... Ma mi sarebbe bastato anche lo zucchero...-
sussurrò con un filo di voce la ninja, avvicinandoglisi ed abbracciandolo. –Sei
una merda.- singhiozzò.
-Grazie. E’ un sì?- azzardò
l’ex Turk, ricambiando l’abbraccio.
-E’ un sì, idiota...-
L’ANGOLO DEI MALATI DI MENTE
Allora, questo è per coloro che
non amano i finali aperti... Che ve ne pare?
Volevo un finale lieto, l’ho
sempre voluto per questa fic, ma non melenso, altrimenti si sarebbe persa
l’essenza vera e propria della storia.
La canzone volevo inserirla
molto prima, ma poi me la sono completamente dimenticata... Penso che si adatti
molto alla situazione e all’atmosfera generale della trama e poi, è molto
bella. Vi consiglio di ascoltarla mentre leggete il capitolo...
Spero non vi siate spaventati
troppo all’inizio. Per mesi ho tentato di trovare un motivo per il quale
Vincent potesse andare da Yuffie. Il motivo dello zucchero mi era piaciuto
molto, ma non andava bene... ^_^ Lo scherzetto delle sorelle Rui mi è venuto in
mente solo l’altro ieri...
Non volevo inserire il PV di
Vincent, perché scrivere al maschile non mi piace molto, ma alla fine mi è
sembrata l’unica soluzione possibile.
Bene bene... Vorrei ringraziare
ancora una volta tutti coloro che hanno letto e commentato in questo anno... E’
grazie a voi che sono riuscita a finire...