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Autore: aniasolary    10/02/2013    13 recensioni
(Storia da revisionare)
Young Adult con elementi sovrannaturali e di Mistero.
In un pomeriggio assolato, le urla di una bambina oscurano il cielo; lei è un'arma, lei non potrà mai vivere, lei non può fare altro che nascondersi.
Anni dopo, un ragazzo trova la sua fotografia fra i documenti di suo padre. Un padre assente, troppo lontano da tutto e da tutti, così preso dai documenti fra cui c'è quella fotografia.
Sei appena venuto a conoscenza della presenza di un burrone. Vai a vederlo. Non ti aspetti che ci cadrai dentro.
Quella ragazza.
Quell'arma.
Quel ragazzo.
Il suo mondo.
Sogni spezzati.
L'amore difficile.
Vite in sospeso.
Amicizie distanti.
Vite rimaste indietro.
Vite in pericolo.
Buio.
Speranza.
Ed un uomo nell'ombra.
Genere: Mistero, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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until 6

6.

L'aspetto del fiore innocente, ma il serpente sotto di esso.

«EHI!»

Colpo alla nuca.

Mi volto e vedo Cameron: giacchetta scura, il cappello con la visiera stretto in mano e il sorriso che gli fa vedere tutti i denti che ha. 

«Ah, sei tu,» gli dico.

Cameron si sistema la giacca, i capelli scuri e quasi rasati. «Non sono io.» Si schiarisce la voce. «Sono… io.»

Mi viene fuori un mugolio, mentre ingoio un altro cucchiaino del budino alla vaniglia che oggi offre la mensa.  Si siede accanto a me.

«Che è successo, ieri?» mi chiede.

Mi irrigidisco, deglutisco, rido e non so perché. «Che doveva succedere? »

«Ah… non saprei, a parte il fatto che sei… sparito nel nulla.»

Schiocco le dita. «Mi ha risucchiato un buco nero!»

«Senti, che oggi, per la seconda volta, ti interessava la spiegazione di Chimica è stato un miracolo, è vero. Però…»

«Niente… è che…» Mi guardo intorno, ragazze e ragazzi che ridono: lei non c'è. Se Cameron sapesse... si metterebbe a ridere e basta. «Non mi sentivo bene.»

«Diarrea?»

«Allergia.»

«A cosa?»

«Ai cani.»

«Mhm.»

«E quindi anche a te, bassotto.»  Un pugno contro la spalla. Incontro l’espressione ferita di Cameron, e l’unica cosa che riesco a fare è ridergli in faccia.

«Non sono basso…»

«Seh, seh…»

«Sei tu che sei troppo alto.» Sì, ha ragione. Ma è troppo bello sfotterlo.

«Le mie misure sono perfette in ogni campo. »

«Non provocarmi, ok? Lo so che mi ami e non vedi l'ora.»

Mi passo una mano fra i capelli e finisco il budino. Cameron apre il libro di francese, cerca di fare la erre moscia per l’interrogazione, gli viene fin troppo bene. Sono verbi di cui ho un vago ricordo… ma quel corso non lo seguo più da anni. Forse potrei anche ricominciare, tanto non è male. Voglio dire, può sempre essere utile e…

«Venerdì i miei non ci sono a casa!» dice Cameron, poi chiude il libro e se lo mette in cartella, la camicia a quadri bianca e nera che gli penzola dai jeans. «Sicuro di voler venire? Sempre che l’allergia ti porti a stare sofferentemente lontano da me... anche se so che mi ami e mi staresti vicino comunque. Potremmo invitare delle tipe.»

«Ehi, smettila. Lo sai che cosa mi piace... Delle tipe?»

«Oh, non lo so, ci inventeremo qualcosa.»

Facciamo scontrare le nostre mani chiuse a pugno, come quando avevamo dieci anni e per sbaglio gli feci un occhio nero. Doreen medicò la sua ferita, fece la torta alla nutella e gliela fece portare a casa, come se fosse stata lei a fargli del male.

«Andata.»

***

«Prendi l'aspetto del fiore innocente, ma sii il serpente sotto di esso.» La professoressa Simons alza gli occhi da una copia malridotta del MacBeth di William Shakespeare, si sistema gli occhiali e si stringe il libro al petto, come se fosse qualcosa che ama davvero. Ha lo sguardo tremolante, come tutte le volte in cui ci guarda in silenzio. Sarà al massimo dieci anni più grande di me, e sprigiona amore per ogni parola che spiega. «Qualcuno vuole dirmi che cosa trasmette questa frase?» chiede.

Tutti restano in silenzio. È l’ultima ora della giornata, Paul lancia aereoplanini di carta, la metà della classe sonnecchia, l’altra metà annuisce. Sono simpatici, per le poche parole che sono riuscita a scambiare con loro in questi giorni.

Lo sguardo della professoressa si posa su di me.

«Dimmi, Pierce… aspetta, non ricordo il tuo nome, solo un attimo.» Posa il libro sulla cattedra e prende il registro, fa per dire qualcosa, quando le mie labbra si muovono a formare, nell'euforia di questo momento: «Sarah».

La professoressa posa il registro. Sento un rumore di matite sbattute contro il legno dei banchi, delle sedie che stridono, qualcuno che tossisce.

«Bene, Sarah. Che cosa ne pensi di questa frase?»

So che tutti mi osservano.

Ma io devo farcela.

Io posso.

Io posso provarci.

Prendo un respiro profondo e lascio che le parole scorrano. Andrà tutto bene. «Chi ha un aspetto innocente a volte... nasconde una cattiveria velenosa come quella di un serpente. E chi vuole fare qualcosa di malvagio, per riuscire nei suoi intenti… si maschera, si mostra diverso, si mostra buono,» dico. Non è più tanto difficile parlare, anche perché mi sembra di parlare di me. Mi sono guardata allo specchio per anni con la consapevolezza di essere un mostro, di non meritare i baci e le rassicurazioni di nonna, di desiderare solo di farla finita presto anche se ne ho sempre avuto paura. Da qualche giorno mi guardo allo specchio e mi sento… innocua. Come posso fare del male con queste mani sempre sporche di inchiostro? Con quello sguardo da chi non ha mai visto niente nel mondo? Non voglio più credere al mio passato, anche se è già tutto scritto.

«E questa è una cosa negativa, secondo te?» mi chiede la professoressa. «Usare una maschera per nascondere quello che si è veramente?»

Mi mordo la guancia dall’interno. «Solo chi ha qualcosa da nascondere usa questi mezzi. Chi è buono non nasconde quello che è, quindi è qualcosa che è a che fare solo con la malvagità.»

La professoressa annuisce. «Giusta osservazione.»

E tu cosa nascondi?

Suona la campanella. Mi precipito fuori a prendere l’autobus, vado veloce, vado a sbattere contro un ragazzo e biascico un scusa. Poi rallento.

Vado piano.

Come può essere cambiato tutto in questi pochi giorni? Io sono sempre quel mostro di cui hanno parlato tutti.

Sono diversa, adesso?

Non lo so, non lo saprò mai.

«Sarah?» Mi irrigidisco, perché la voce che pronuncia il mio nome mi striscia sulla schiena come con una carezza. Mi volto e lo vedo, è sempre lui. Mi viene fuori un sospiro, non so se per il sollievo o altro perché è Martin, il ragazzo del bus, dei biscotti, dei sorrisi magici.

«Ehi. » riesco a dire.

Mi sorride, si passa una mano fra i capelli biondo scuro e si sistema lo zaino sulle spalle. Gli si forma una fossetta sulla guancia e sembra… davvero più grande della sua età.

«Prendi il bus come sempre, no? » mi chiede, e cominciamo a camminare verso l’uscita.

Annuisco. «Sì, come sempre.»

«Comunque… tu mi avresti promesso una cosa.»

Scendiamo le scale del porticato. Io mi mordo le labbra mentre cerco di pensare a che cosa intenda Martin, lo guardo.

«Cosa?»

Sbatto gli occhi, perdo il respiro, non sento più la terra sotto i piedi ma solo la sua mano sul mio braccio. Vado a sbattere contro di lui, il giubbino verde chiaro, una sfumatura più chiara dei suoi occhi. C’è profumo di alberi e inchiostro e vaniglia.

Scuto la testa, cerco di tornare in me. «Sono… scivolata.»

«Menomale che c’ero io. »

Sorrido, sei troppo vicino, sorride, perché sei così vicino? Sento il cuore graffiarmi il petto mentre batte, mentre va avanti e dietro fra le mie costole. Mi allontano e ho paura di avere le guance troppo rosse, non so nemmeno perché.

«Comunque… mi avevi detto di studiare insieme un giorno, ti ricordi?»

Nascondo il viso nella sciarpa di lana bianca. «Oh… sì, mi ricordo. » Sento un calore nuovo invadermi la pancia.

«Non che io ti stia pregando, eh.»

«No, no,» dico io. Sento la mia voce farsi più sottile. «Certo che… »

«Insomma… studiare? Io farei altro.»

Si ferma, io rallento, mi sistemo il cappello di lana. Io farei altro. Il calore che mi sta nella pancia cresce.

Si passa una mano dietro la nuca. «Sì… insomma, voglio dire… sarebbe meglio uscire, prima. Prima di studiare. Uscire. »

Saliamo sul bus, io mi siedo al solito posto e Martin prende quello accanto a me. Fa cadere lo zaino, si volta e le nostre ginocchia si sfiorano.

«U-Uscire?» gli chiedo.

«Sì… sai, cazzate varie, passeggiare, andare a mangiare, come l’altra volta solo… “pianificato”.»

«Quando?»

Sembra che mi succeda sempre più spesso, ultimamente. Parlare e accorgermene soltanto dopo. Sento il cuore che mi batte forte, deglutisco, mi calmo e so che sto sorridendo perché lo sta facendo anche lui.

«Quando vuoi tu,» dice.

«Sì?»

Non credo di aver mai davvero deciso per me stessa qualcosa che andasse oltre il colore di uno zaino o di una felpa. Quando? Oh, anche adesso. No, questa cosa non dovrei dirla ad alta voce, che fretta ho? Quando… quando… quando… non deve essere un fastidio per lui, quindi…

 «Sì.»

«Nel week-end?» gli chiedo.

«Cioè? »

Mi mordo l’interno della guancia. «Ve… Venerdì?»

Martin si passa una mano fra i capelli e volta la testa, la fossetta sulla guancia come segnale che sta sorridendo, il suo profilo contro il grigio del bus. Poi si gira di nuovo e mi guarda, la luce che filtra dai finestrini gli sfiora il volto, le basette bionde, le ciglia lunghe.

«Venerdì.»

 ***

Passo il pettine fra i miei capelli, fino alle punte, mentre mi guardo allo specchio del bagno, la luce accesa che sembra azzurra come le pietrelle che colpisce. Più chiara dei miei occhi. Sospiro. Mi tocco gli zigomi, qualche lentiggine come chicchi di riso sulla pelle. Ho le labbra screpolate, metto il burro cacao. Mi liscio la maglietta, rossa e nera, con lo scollo rotondo.

Vorrei essere bella. Vorrei che Martin mi guardi e pensi che sono bella. Vorrei esserlo per me e per lui e… per il semplice desiderio di esserlo. Allora oso, anche se non dovrei. Metto il lucidalabbra che ho comprato ieri, il profumo al melograno e ciliegie.

Il cellulare vibra, lo prendo e il suo nome lampeggia.

Sono giù.

Esco dal bagno, metto il giubbino e vado in cucina, la nonna si è addormentata sul divano. Comincio a scendere le scale.

Esco dal portone, lui è lì, appoggiato al muro, i capelli che gli cadono ondulati sulle orecchie, il capo abbassato sul cellulare. Cammino. Calma. Martin. È lui.

Non gli farai del male.

Alza il viso e incontro il suo sorriso. 

Parlo io. «Ciao.» Mi alzo nelle spalle.

Mi guarda, si avvicina, sul suo viso c’è l’inizio di un sorriso, le labbra incurvate all’insù, le labbra rosse e carnose. Mi sento rabbrividire.

«Ciao.» mi dice.

Si allontana, adesso, ed io sospiro, non so bene perché, e adesso Martin sorride proprio. Calma. Calma. Perché sono così nervosa? Mi passo una mano fra i capelli. Non gli farò del male.

«Allora, pronta a sopportarmi per una serata intera?» Martin cammina con le mani in tasca, i jeans chiari, un giubbino che non gli ho mai visto addosso, una catennela maschile a scintillare nell’incavo del suo collo.

Tentenno a rispondere. Dovrei dirgli grazie, anche se non mi ha “portato” ancora da nessuna parte? Avremmo anche potuto restare vicino al portone del mio palazzo, credo che… mi sarebbe andato bene lo stesso.

Martin aspetta, un’espressione di incertezza sul suo viso. Resto zitta… l’incertazza sembra trasformarsi in paura. Addirittura! No, non è per il mio silenzio, forse odia chi non gli dà subito soddisfazione. Se è così, si stancherà presto di me.

Io non credo di stancarmi, però.

«Sopravviverò.» dico infine.

E allora Martin torna a sorridere e per la prima volta sento di potercela fare. Non farò del male a nessuno.

Quello che mi trovo davanti è un enorme campo sportivo, ci sono sempre passata davanti con il sogno che dentro, in realtà, fosse un circo. Poi però, il nonno mi ha spiegato che in realtà è sempre e solo una sede di partite di Hockey. Continuo a camminare.

«Ehi, dove vai?»

Mi volto verso Martin. «Io… cammino?»  gli dico.

«Verso la direzione sbagliata.»

«Perché?»

Martin indica l’entrata del palazzetto con la mano ed io mi mordo le labbra. No, no, no, no, non può chiedermi questo. Troppe persone, troppo chiasso, troppi corpi che si scontrano, troppo vicini… E poi le bibite scivolano a terra e urlano e i miei timpani vibrano e si scuotono e sibilano…

«Ehi, tutto bene?»

Sono ancora qui.

Faccio un respiro profondo, Martin è davanti a me e le sue mani sono sulle mie spalle. Mi abituo al suo tocco, mi stringo nelle braccia, annuisco.

«Sì… solo che, cioè, la partita.»

«Partita? »

«Sì, insomma…»

«Ehi, ma tu davvero credi che ti porterei a vedere una partita la prima volta che usciamo insieme sul serio?»

Uscire insieme e uscire insieme sul serio. C’è differenza? 

Sposta le sue mani dalle mie spalle alle braccia, le stringe. «Senti, Sarah… fidati, ok?» Mi guarda, così. Con la mascella serrata e gli occhi verdi impazienti.

Distolgo lo sguardo ma lui resta sempre nella mia testa.

Fidati.

«Mi fido.»

Sorride e, inconsapevolmente, mi viene da pensare che lo fa solo per me.

 ***

«Ci sei?»

«Credo di sì.»

«Non è difficile, devi solo...»

«Faccio da sola.»

«Sicura?»

«Sicura.»

Martin si allontana, con una naturalezza che non so davvero da dove gli venga fuori. Si fa strada sulla pista veloce, attento a non andare a sbattere contro nessuno, con la schiena tesa e il profilo scolpito, i capelli biondi a sfiorargli le guance. La maglietta bianca prende tutta la luce artificiale del palazzetto. Sembra il principe di un mondo di ghiaccio.

Torna indietro, il rumore di una scia. «Sei sicura di esserci?» mi chiede.

Annuisco, appoggiata alla ringhiera con entrambe le mani. «Sìsì, certo.»

«Io non credo di esserne sicuro

Prendo un respiro profondo.

Si avvicina.

Perché sono qui? 

«Tranquilla. Non ti lascio, non sbatterai la testa contro il ghiaccio e non sarai spettacolo macrabro per tutti i presenti,» dice, a voce bassa. Mi prende la mani ed io muovo le spalle leggermente, un brivido sulla schiena, Martin che mi guarda. Che mi tocca. 

«Questo era un modo per rassicurarmi?» La mia voce tremula.

Le sue mani sono calde, leggermente più ruvide sui polpastrelli, muove il pollice su entrambi i miei palmi ed io credo di non sapere più dove mi trovo.

«Una specie. Perché?»

Deglutisco. «Perché non ha funzionato.»

Si mette a ridere, mi stringe ancora di più le mani, le sue dita fra le mie dita, io che mi aggrappo alla ringhiera fin troppo attenta a cogliere il modo in cui la sua risata si sprigiona nel chiasso e nelle risa degli altri, lui che manda indietro la testa, la bocca che si apre e si stira, la fossetta sulla guancia destra e mi tremano le gambe.

Rido anch’io.

«Oddio, oddio, attento.» Martin mi tira verso di sé ed io gli vado a sbattere contro, le mie ginocchia che vibrano sul ghiaccio, le gambe che mi sembrano sul punto di sciogliersi da un momento all’altro. Serro gli occhi.

«Ti tengo io.» Non voglio, non voglio, non voglio aprire gli occhi. 

«Mhm-Mhm.»

«Molte ragazze pagherebbero per starmi così vicino, sai? »

Apro gli occhi e li punto su di lui. In mezzo alla pista, è come se un leggero venticello gli scostasse via i capelli dal viso, quando invece siamo noi, noi siamo il vento. Mi stringo alle sue braccia, mentre lui sorride in un modo tagliente, che mi fa male e mi fa mordere la guancia dall’interno. Aspetta una risposta, lo sta facendo apposta. Come se fosse la prima volta.

Non gli farò del male.

Stringo le nocche sulla sua maglietta.

«Io non faccio parte di quelle “molte”.»

Martin mi spinge ancora verso di lui, vado a sbattere contro il suo petto e poi lo sento fermarsi, deve aver incontrato la parte opposta della ringhiera. Mi tiene ferma con uno sguardo che non ha dolcezza né tenerezza. C’è curiosità, una specie di smania, voglia insana di entrare dove non sono mai andata nemmeno io.

«Come se non lo sapessi.»

Sorrido, lo so, lo sento. Martin no, mi passa una mano intorno alle spalle, la ferma sulla schiena, poi risale e mi sfiora la nuca. Lo guardo, socchiude le labbra, avvicina il viso al mio.

Uno scossone.

Ghiaccio contro le ossa, capelli nella bocca, il respiro di Martin addosso come se fosse ancora qui.

«Ma che cazzo fai, idiota!» Sento la voce di Martin farsi più alta, mentre mi scosto i capelli dal viso e stendo la gamba. Sono caduta. «Non puoi GUARDARE dove cammini?» grida.

Martin sta parlando con un ragazzo alto quanto lui, bruno e con un sorriso storto che sembra far parte di tutto il suo aspetto. Dei ragazzi gli ridono dietro.

«Veramente qua si pattina.» risponde quello. I suoi amici ridono. Martin sembra proprio arrabbiato. E a me viene da ridere e per la prima volta, dopo tutto questo tempo, mi trovo a trattenere la risata, a non sentire nessun dolore.

«Che scassacoglioni.» Martin si passa una mano fra i capelli e si avvicina a me. Mi sto raffreddando il sedere e l’unica cosa che riesco a fare è contare i respiri, bere tutte le risate che sento, sorridere mentre Martin si china su di me.

«Scusa,» biascica.

Scuoto la testa, mentre mi aiuta a rimettermi su.

«Non ti preoccupare, sto bene.» E mi sorprendo io stessa del modo in cui lo dico.

Sembra vero.

«Pattiniamo ancora?»

Il viso di Martin, la mascella squadrata, i lineamenti duri come se sfumati, è attraversato da un broncio, come se qualcosa non gli andasse bene. «Martin…» lo richiamo.

«Odio gli idioti.»

«Tu come sei? »

Volta la testa verso di me e sembra sconvolto. Poi la sua espressione si alleggerisce e si trasforma in un sorriso che mi impiastriccia tutti i pensieri.

«Da quando hai la lingua così lunga?»

Abbasso la testa, mi sento le guance più calde, sospiro. «Da quando ti conosco.»

«Ah-ah? »

Mi mette la mano sotto il mento e mi alza il viso. Evito i suoi occhi così verdi e circondati da una linea di grigio che si disperde in ombre. Ma lui non molla, trova il modo perché io lo guardi.

Rido. «Ah-ah.»

Rido ancora quando imparo anche a fare qualche metro da sola su questa pista di ghiaccio, e mi accorgo che le ragazze ci guardano, lo guardano e non mi importa niente. Perché sono con lui e non c’è rabbia, tristezza, dolore.

Non faccio del male a nessuno.

Il mostro non esiste più.

***

«Dove hai imparato a farlo?»

Martin mi guarda di traverso, le mani in tasca al giubbotto e il viso colorato sulle guance per il sudore. «A fare cosa? »

Mi passo una mano fra i capelli e mi stringo di nuovo nelle spalle. Martin cammina, disinvolto e al mio passo, con le mani nelle tasche dei jeans, il suo respiro che si condensa nell’aria fredda e bacia le sue labbra. A fare cosa? Non voglio, non voglio, non voglio arrossire. Si alza il colletto del giubbotto per il freddo, il tessuto gli sfiora il collo, il mento. Mi guarda e vedo i suoi occhi sorridere insieme a tutto il viso.

«Ho fatto calcio, football, rugby, nuoto, basket. Li ho mollati per varie cose. E anche Hockey.» Storce le labbra e gli si stila la guancia in una smorfia divertita. Oh. «Lo so, sono notevole.»

Trattengo l’esclamazione di sorpresa che si è liberata nella mia mente. «Perché hai mollato?» gli chiedo.

«Hockey? Ho colpito un ragazzo con il dischetto in pieno viso.»

«Ah…»

«Sì, lo so… ma lui era un cazzone.»

«Gli hai chiesto scusa?»

«Gli pagato il piglietto per affanculo. Sarah, sei troppo buona tu.»

Scuoto la testa. Dolore, persone, umiliazione. Le sento così vicine a me che potrebbero essere parte dell’anatomia del mio corpo. Martin ci ride, Martin non dice mi dispiace, Martin fa andare tutto verso la direzione giusta per lui.

Distolgo i pensieri. Non ho mai conosciuto qualcuno oltre la mia famiglia, conosciuto qualcuno oltre vuoi una caramella? Sì, ma non al limone, alla fragola è meglio. Sorride, Martin. Cammina, si accorge che una ragazza lo guarda e distoglie lo sguardo, prende quello che gli va e mi fa sentire parte di questo suo mondo così strano. Non so come ho fatto a sopportare che pagasse per me quella volta al Mcdonald. Forse per il sorriso?

«Ti sei dimenticato di una cosa,» gli dico, e lui alza le mani, come in segno di resa. Il giubbotto gli si alza leggermente a far vedere la pelle lasciata scoperta dalla maglietta.

«Cosa?»

Apro la cerniera della mia borsa e prendo il portafoglio. Quando alzo il viso, lui ha di nuovo entrambe le mani nelle tasche dei jeans, gli occhi fatti a due fessure da cui passa una luce del colore verde striato dei suoi occhi. Mi sento tremare la mani, mi avvicino a lui. So che ha capito, so anche che vuole mettermi in difficoltà e non mi piace e mi rendi felice, felice, felice, non so perché. Devo farlo per forza? Sembra l’unico modo. Faccio un respiro che mi sembra far troppo rumore, avvicino la mano al suo polso e sento il peso della sua mano, ci poso dentro le banconote e alzo gli occhi. Mi guarda e mi sento io stessa tutta una fiamma, perché mi stringe la mano in quel modo in cui le dita si incastrano.

«E questi?» Me lo chiede con la voce bassa. «Chi ci guarda penserebbe che mi paghi per fare certi giochetti.»

Volto la testa e spero che non noti quanto le sue idiozie possano farmi fluire il sangue al viso. «Non è vero e lo sai.»

«Che ne sai di quello che so?»

Scuoto la testa mentre lui ancora si avvicina. Mi allontano all’improvviso e mi viene fuori una risata, la mia, riesco a riconoscerla.

«È per il McDonald!» Mi stringo meglio la sciarpa al collo.

«Ah! Si dice così al giorno d’oggi?»

È di nuovo vicino, troppo. Mi permetto di dargli una gomitata e mi sorprendo nello scoprire che la sua pancia è dura e non la scalfisce niente. Sospiro. «Scemo.»

Ma sento che mi abbraccia da dietro e il suo respiro fa lo stesso rumore della pioggia che picchietta sui vetri. I vetri sono io. E lui sta respirando su di me. Piove acqua su questa terra bianca, si forma il fango, affondano le foglie e forse qualcosa nascerà. Non è falso il riso che mi strappa dalla gola, come se lui, Martin, mi infilasse una mano dentro e prendesse con le dita le note della mia voce. Come se, quando sorrido, abbia detto qualche parola magica, una filastrocca, un incantesimo, un segreto.

«Sì, lo so, lo so che sono scemo.» Sento che mi sfiora il collo con il naso, rabbrividisco. Le sue mani sulla mia vita. «Va bene uguale.»

Devo scappare. Perché il cuore mi batte troppo forte ed ho paura di morire. La paura ritorna, sempre, anche se oggi ha un vestito diverso e sembra essere dalla mia parte. Martin mi fa battere troppo il cuore, ed io non posso restare sotto le sue mani, non ancora, non per sempre. Così cerco di lasciare indietro quello che sta accadendo, la sua mano che sale e si ferma sotto il mio mento, e poi, così, all’improvviso, mi volta e mi inchioda ai suoi occhi.

«Sarah.»

Tremo.

«Cosa?» chiedo. Respiro profondamente, mi allontano un po' e lui mi lascia fare. Non può starmi troppo vicino, non può. Dio, perché lo dimentico? Potrei fargli del male. Respiro ancora.

«Hai un ragazzo, tu?»

Sembra scendere dalle nuvole, con quel suo viso che sembra scolpito nel legno chiaro e i capelli che sembrano oro alla luce dei lampioni.

«No, perché? »

«Per sapere.» Chiude la bocca, il suo fiato mi raggiunge, profumo di menta impastata. «Anche se quello che voglio fare lo faccio comunque.»

Si avvicina, ancora. Non so riconoscere se questo è un abbraccio, di quelle braccia e mani che si incastrano in posa per una foto di compleanno. Non so riconoscere che cosa sono in questo ammucchio di battiti e non so nemmenodove sono finita.

«Fare cosa?» sussurro.

Il telefono squilla e l’abbraccio si spezza. Vedo solo Martin, adesso, mentre prende il telefono e guarda il display. Ho ancora i brividi, che cosa sono? Non lo so, non lo so, non lo so. Che cosa volevi fare, Martin? Torna da me. Mi guarda e io mi vergogno di quello che penso. A cosa penso? A niente. A me. A lui. Al niente che siamo anche se mi eri così vicino, così vicino come non mi è stato nessuno in tutta la mia vita. Vicino abbastanza per tenermi

per sempre

con te.

E baciarmi.

Scuote la testa, la vena sul collo gli pulsa mentre mette di nuovo il telefono in tasca, senza rispondere.

«È un guastafeste, ecco cos’è. » biascica.

Ed io non lo so. So solo che è sera, è buio e Martin è bello. Bellissimo. Dio, lo è davvero mentre si arrabbia e lo è quando sorride e di sicuro il mio cervello non funziona.

«È-È successo qualcosa?» gli chiedo, e riprendo a camminare.

«Ho un problema.»

Mi sento sudare le mani, camminiamo un po’ distanti, adesso. Come se non fosse successo niente… perché alla fine è quello che è successo. Un problema. I problemi sono gli unici amici di Sarah. «Devi vederti con qualcun altro?»

Ok, va tutto bene, va tutto come sempre, come prima. Non ci sarà mai niente di diverso ed io tornerò a casa. Passerò il venerdì sera sotto le coperte, a guardare l’effetto della luce sui cristalli colorati che erano appesi alla mia vecchia culla. Leggerò qualche poesia di Emily Dickinson, quelle con la speranza della primavera in questo inverno freddo.

«No, ma che dici… »

«Non c'è problema, posso andare a casa.»

Comincio a camminare più in là, cercando di guardare tutto tranne lui. Un bambino con un leccalecca, una ragazza con i tacchi alti, un uomo con i baffi e c’è un tabacchino.

Mi volto verso Martin e cerco un modo per dirgli che ci vedremo Lunedì a scuola. Forse non succederà, perché si è stancato di me. «Nono, aspetta. Vado un attimo al tabacchino a prendere le gomme… non scappare, ok? » E forse è meglio così. Non mi darà il tempo di rendermi conto di essermi, forse, presa una cotta per lui.

Non posso lasciare che succeda.

 

***

 

Esco dal tabacchino e mi avvicino a Sarah, i capelli castani che scendono lisci sul giubbotto bianco, una cinta più scura sotto il suo seno.

«È meglio che vada, adesso,» dice.

Come faccio a baciarti?

Ci vuole un qualcosa. Un qualcosa per allungare il tempo, qualcosa di cui parlare, qualcosa da vedere… destra, sinistra… centro. Che palle, che palle…

Guardo da un’altra parte giusto così per immaginarla, per pensare Dio, che cazzo succede. Ecco quanto sei pericolosa, mi stai facendo perdere quel cazzo di cervello piccolo che già ho. Come faccio a baciarti? Voglio farlo adesso. Voglio aprirti la cerniera del giubbino e toccarti, voglio far passare i palmi aperti sulla tua schiena, sotto la tua maglietta, voglio sentirti sulle labbra, sulla lingua, sulla pelle.

«Ti accompagno a casa.»

«No, vado da sola.»

«Sarah… è buio, è periferia, pensi che ti faccia andare a casa da sola?»

Si alza nelle spalle. «Sì?»

«No.» Mi metto a braccia conserte. «Tu vuoi che io ti accompagni.»

«Ho detto di no.»

«Sì ma no significa sì.»

«Mhm?»

«Non mi farò pregare, andiamo.»

Aggrotta le sopraciglia, si sistema la frangia castana chiara che le sfiorava gli occhi azzurri e grandi e limpidi e sorride piano. «Sei incredibile, sul serio.» Scuote la testa, come se avesse pensato a qualcosa e ora avesse cambiato pensiero.

«Ecco, l’hai ammesso.» La guardo e lei arrossisce.

Sì, la bacio sotto il portone, - adesso adesso adesso - come nei film. Sì, dai, Martin ci sei.

«Non l’ho ammesso. » dice.

«Eh lo so, dire: “Voglio assolutamente che Martin mi accompagni a casa perché è incredibile sul serio” rivelerebbe secondi fini.» Secondi fini? Mah, qual erano i primi? Non lo so ma lei ride e va bene. Va benissimo così.

«Sei un montato, sai?»

«Forse.»

«Lo sei.»

«Se lo dici tu.»

Si passa una ciocca dietro l’orecchio, la borsa le sfiora le gambe fasciate dai jeans ad ogni passo… le gambe lunghe. Chissà come se ne sta a casa. Forse dorme in mutandine. Forse…

«Martin… grazie.»

Dorme in reggiseno… «Mhm?» dico, e mi accorgo del fottuto errore che ho fatto mettendomi la gomma in bocca proprio in questo momento.

«Grazie… per la pattinata. E…»

«È una cavolata. »

«Non è una cavolata, Martin. È che…»

«Che…»

«Niente… non importa.»

«No, ora me lo dici.»

«Non voglio dirtelo.»

«No, tu desideri ardentemente dirmelo ma…»

«Sono stata bene, ok?» Mi si ferma di fronte ed io le poso le mani sulle braccia quasi per istinto, a stringerla. Sorride, sorrido.

Mi mordo la guancia. «Sono una garanzia, sempre.»

Sento un rumore. In realtà, sembra un cane che abbaia forte. Camminiamo per qualche metro e, dal cancello di questa villa di periferia, un rotwailler ci ringhia contro. Alzo gli occhi, Canile Dowson, quarantunesima strada. Metto le mani sul cancello, a sentirne il freddo e Sarah mi è accanto, ci sfioriamo. Quando tocco il cancello, il cane salta e fa tirare la catena, abbaiando ancora di più. 

«Martin…» mi chiama Sarah. Il cancello cigola.

«Non preoccuparti, è legato.» Spingo un po' il cancello e mi rendo conto che non è chiuso.

Il canile sembra deserto, non ci sono controllori, le finestre sono buie.

«Sì, lo so, ma andiamo.» La sua voce sembra allarmata, la guardo. Vorrei prenderla per mano. Sento un rumore di metallo. Vorrei portarla al garage e vederla al buio, quel buio con la luce del cellulare che fa somigliare ai fantasmi, in quei posti dove devi sussurrare tutto e ogni cosa sembra una specie di segreto.

E poi sento un dolore al polpaccio. Istintivamente lo muovo, come se avessi sentito la puntura di un ape e la volessi scacciare. Ma poi il ringhio colpisce le mie orecchie, il dolore si fa più acuto. Il cane mi strattona la gamba e cado a terra, batto la testa. Vedo sfocato, fa male. Cazzo… cazzo… merda…

Sarah urla.

Mi morde il braccio, la mano, non riesco a muovermi, non riesco a fare niente…

E poi il cane si ferma.

Mi porto una mano alla testa, non riesco ad alzarmi, fa male… no, ce la faccio, mi tengo al cancello, ok. Sarah… 

«Oddio, ma che cazzo…» Sbatto le palpebre e riconosco il grigio della città alla luce dei lampioni della periferia. E Sarah? Sarah… volto la testa, giubbotto, capelli, occhi, è lei. Adesso la vedo.

Ha gli occhi lucidi, azzurri, che tremano. La bocca semichiusa.

Un espressione di terrore le attraversa il viso.

«Sarah… ehi, sto bene…»

Riesco a vedere meglio. La gamba, il braccio fanno male… volto la testa.

Il cane.

È a terra, con la bocca aperta, trema. Il suo corpo è attraversato da spasmi. Mi viene da vomitare. 

«Sarah,» dico, e la vedo piangere. Piange come se stesse provando dolore e Sarah, che succede, dimmi che succede, e il corpo del cane è ancora attraversato da spasmi.

«Smettila, » dice, e non so a chi, non so a cosa. Piange. Lei con i capelli che si appiccicano al viso per le lacrime, lei con quelle mani piccole e bianche fra i suoi capelli, quelle stesse mani con cui modella la creta e tiene i libri stretti al petto. «No! No! No! Basta, ti prego, smettila! » muove la testa, la scuote, fa proprio “no no no” come i bambini, un capriccio, qualcosa che non può accettare. «No! Non di nuovo… » Voglio solo capire il perché di tutto questo. Voglio solo che non pianga più.

E poi il cane smette di tremare e sbatte a terra con un guaito.

Cammino, fa male. Sarah è immobile, le lacrime le bagnano ancora le guance. Fa male anche questo.

Avvicino una mano al suo braccio e lei si scosta. «Sarah… stai bene?»

«Vattene. » Parla veloce.

Mi sento la nausea. Il dolore punge. Lei mi trapassa con i suoi occhi di acqua gelida.

«Ehi…»

«Vai via… chiama un taxi, vai a casa… io...»

«Sarah…»

«VAI VIA!»

La prendo per il braccio lo stesso, il tessuto del giubbotto sotto le mie unghie. È come se soffocassi, perché lei mi guarda così e non posso andarmene, non posso lasciarla andare. Si muove, a scatti, per sfuggire alla mia presa. Ma quando poso la mano sulla sua spalla, respira solo profondamente.

Lo dice di nuovo, fra i sospiri. «Vai via. Per favore... per favore...»

Ma io la abbraccio. Lei è inerme ed esile, qui, mi bagna la maglietta per il giubbino leggermente aperto, ed io le accarezzo i capelli, la tocco in qualche spece di carezza che mi fa tremare. Profuma di fiori e giorni di solitudine.

Che cosa ti hanno fatto, Sarah?

Soggetto pericoloso.

Il pericolo non sei tu, non sei tu, non sei tu. Non ci credo.

«Ehi, » le accarezzo il viso. «Avevi ragione, dovevamo andarce… dio, che idiota…»

«È colpa mia. Martin, vattene, lasciami.»

«Eh? Ma che dici…»

«Martin…» Il suo sguardo è fermo fra le lacrime. Deglutisce. Deglutisco. «Sono stata io.»
*
*
*
*
Ciao a tutti <3 <3 <3 Finalmente sono riuscita ad aggiornare, spero il capitolo vi sia piaciuto :)) Alla fine è successa una cosa molto importante, non so se la definirei la "svolta" della storia, ma di sicuro da questo momento in poi cambieranno un po' di cose, altre verranno approfondite e con il tempo vedremo più chiarezza nella vita di Sarah :))
Spero davvero che vi sia piaciuto, se volete lasciatemi il vostro parere, mi aiuta a migliorare <3
Un grazie speciale a chi segue, ricorda e preferisce la storia *.* grazie mille!
E grazie infinite a tutte le mie amiche che mi sostengono sempre <3 Noemi, J, Eryca, Maria, ed anche Vi, che so che mi legge sempre <3 e Carmen che mi sollecita sempre nella scrittura e mi dimostra tutto il suo entusiasmo **
Grazie molte :)
Un bacione
Ania <3
   
 
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