L’ultimo desiderio
di Breed 107
Capitolo secondo.
Hotaru lanciò un’occhiata in tralice a suo
fratello “E’ proprio necessario?” gli domandò con voce annoiata.
Arashi la guardò curioso “Cosa scusa?”
Lei sospirò esasperata “Come cosa? Andare a scuola insieme!
Devono proprio saperlo tutti che sei mio fratello?”
Il ragazzo si fermò, guardandola divertito e si strinse nelle
spalle “Pensavo ti avrebbe fatto piacere non esser sola il primo giorno… E poi,
mi spiace darti questa notizia Hotaru, ma il fatto che
siamo fratello e sorella è abbastanza risaputo, visto che a Nerima tutti
conoscono i nostri genitori.”
Hotaru sbuffò, facendo dondolare la cartella con fare annoiato
“Con tutti i danni che hanno fatto da ragazzi… Quello
che mi da fastidio è che tutti non faranno altro che farmi domande su di te e
non voglio nemmeno pensare a quello che succederà con le ragazze! La mia vita
scolastica alle medie è stata completamente rovinata dalla tua popolarità!” lo accusò, il volto graziosamente imbronciato, ma lui non parve farci troppo caso.
“Tu esageri sempre e non è nemmeno vero che sono tanto
popolare, credimi, soprattutto con le ragazze” le disse con sincera modestia.
“E poi sarei io l'ingenua della famiglia? –
commentò lei sarcastica, guardandolo con la coda dell’occhio – D’accordo, per
oggi ti concedo di accompagnarmi, ma
muoviamoci, non voglio fare tardi il primo giorno di scuola” accelerò il passo,
subito seguita da Arashi.
“Io non capisco tutta questa voglia di andare al Furinkan… Lo fai solo per far arrabbiare i nostri genitori?”
“Certo che no!” rispose lei oltraggiata.
Ovvio che non fosse solo per quello! In
realtà uno dei motivi era proprio la presenza di suo fratello in quella stessa scuola.
Nonostante fino a qualche istante prima si fosse
lamentata di quella parentela apparentemente scomoda, a Hotaru non dispiaceva
frequentare la stessa scuola.
Non avevano un rapporto conflittuale come spesso capitava tra
fratelli, come se qualcuno potesse davvero desiderare litigare con Arashi, si
disse la ragazza osservando ancora il ragazzo che le camminava accanto. Certo, le punzecchiature e le prese in giro erano frequenti, ma anche se non l’avrebbe confessato ad anima viva, Hotaru stimava molto Arashi
ed era compiaciuta del fatto che lui la stimasse altrettanto, almeno tanto da
fargli evitare alcuni atteggiamenti protettivi tipici di alcuni fratelli che
avrebbe trovato irritanti.
Da bambina aveva sofferto di profonde crisi d’invidia per quel
fratello tanto perfetto e amato da tutti, capace di conquistare con un sorriso
e dotato di un carisma naturale che lei era fin troppo conscia di non
possedere; era irritante paragonarsi a quel concentrato di virtù, in apparenza
messo al mondo prima di lei affinché i suoi difetti venissero
ingigantiti. Ogni carezza di sua madre, ogni lode di suo padre per quel figlio
adorato, ogni elogio dei nonni le sembrava ingiustamente rubato a se stessa e
cocciutamente aveva sempre dato la colpa di ciò
proprio ad Arashi.
Crescendo però il rancore si era sfaldato sotto il peso
dell’affetto che, inevitabilmente, lui era stato capace di risvegliare anche in
lei. Era rimasta vittima del suo fascino persino lei!
Forse, si era detta Hotaru quando era
stata abbastanza grande da metter da parte la cieca gelosia, forse quel ragazzo
che il destino le aveva dato come fratello non era tanto male. E assurdamente lo aveva capito nel momento in cui lo aveva
visto fallire platealmente per la prima volta. In quello che lui amava di più,
addirittura.
Per quanto naturalmente dotato, per quanti
estenuanti allenamenti lui potesse sottoporsi c’era qualcosa in cui il perfetto
Arashi non era riuscito e che forse non gli sarebbe mai riuscito: superare il
padre.
Era abile, molto più di qualsiasi ragazzo della sua età,
forte ed agile come pochi e dotato di perseveranza
anche più di Ranma Saotome, ma nonostante questo Arashi non era ancora riuscito
a superare il maestro. Suo padre restava ancora un esempio da imitare, un
modello da raggiungere, ma ancora così fuori portata da far sospettare che
forse non l’avrebbe raggiunto mai.
Da quasi sei mesi Arashi stava cercando di impadronirsi della
portentosa tecnica che proprio suo padre aveva ideato anni prima, quella MokoTakabisha che più di un
successo gli aveva garantito, ma per quanto impegno potesse metterci, ogni tentativo era vano.
Osservando la frustrazione del fratello, Hotaru gli si era
sentita incredibilmente vicina: era stato quasi sorprendente scoprire che anche
lui aveva delle carenze. E cosa sorprendente, al contrario di lei che avrebbe reagito con rabbia, lui si era
gettato ancora con più impegno negli allenamenti, deciso a riuscire. Era
lodevole, si era detta la ragazzina, scoprendo che dopotutto non c’era nulla di
strano a voler bene a qualcuno di tanto ammirevole, anche se si aveva la
sfortuna di averlo come fratello.
“Il Furinkan è una scuola diversa dalle altre.”
Arashi annuì “Questo è poco, ma
sicuro. Una vera gabbia di matti, capeggiata dal più folle di tutti… Spero
tanto che il preside quest’anno prenda di mira qualcun altro, anche se non mi
ritengo così fortunato, quello ce l’ha con me.”
“Dovresti ignorarlo.”
“Come se questo bastasse! Lo sai che vuol dire essere sfidato
da quel pazzo solo perché sono figlio di Ranma Saotome?!
Quasi non passa giorno che non trovi un pretesto per
provare a sbattermi fuori! Me lo dici come faccio a non mettermi nei guai?”
Hotaru fece un sorrisetto chiaramente ironico e alzò gli occhi
al cielo limpido di quel mattino privo di nubi. “Parli come se non ti
divertisse essere sfidato da lui… e poi riesci sempre a vincere, no?”
Il ragazzo sbuffò e scosse il capo “In verità mi eviterei un simile divertimento con piacere. Non
porto più il codino da anni, ma continua a perseguitarmi con i suoi maledetti
rasoi.”
Hotaru si scostò una ciocca dei lunghi capelli scuri e si
strinse nelle spalle, con fare sufficiente “Deve solo provarci ad accostarsi ai
miei capelli: potrebbe essere l’ultima follia che fa.”
Arashi non commentò, ma quasi provò un po’ di simpatia per il
preside Kuno. Quasi.
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Ryo sbadigliò, strofinandosi gli occhi per cacciare via i
residui di sonno. “Uhm, che nottataccia – sbuffò e si volse verso la
sorella – tu hai dormito bene?” le domandò.
La ragazza lo guardò appena, annuì e poi tornò a fissare il
canale, apparentemente attratta dalle macchie iridescenti che il sole creava
sulla superficie.
Ryo strinse le labbra, osservandola camminare
quietamente al suo fianco; osservò il bel profilo, valutando il colorito
piuttosto pallido del viso: gli aveva mentito, naturalmente. Era chiaro che non
avesse dormito bene e non certo perché non era riuscita ad abituarsi al nuovo
letto, come invece era stato per lui. Era tempo che la ragazza non dormiva
molto… Circa tre anni.
Chissà se nella nuova casa, finalmente lontana da tanti brutti
ricordi avrebbe riacquistato la tranquillità. Ryo lo sperava. Ormai era la sua
unica speranza, la sua unica aspettativa, l'unica cosa
a cui desse ancora importanza: che sua sorella tornasse quella di un tempo.
“Hai preso l’obento(*)?” le domandò ancora e lei tornò a
guardarlo, sorridendogli e annuendo. “Spero che quello che ho preparato ti
piaccia, Ryoko. Se avessi lasciato fare a nostro padre, ora starebbe ancora
vagando per la casa in cerca del frigorifero.”
Il sorriso della ragazza si allargò, così come il cuore di suo
fratello; quello era davvero l’unico aspetto positivo
del completo disorientamento del padre, riusciva sempre a farla sorridere di
cuore.
“Siamo quasi arrivati… Ryoko, guardami. – la ragazza lo fissò,
attenta – Se qualcuno dovesse osare farti del male,
dirti qualche cattiveria per… per quello che sai, non devi tenertelo per te,
capito?”
Lei distolse lo sguardo, ma Ryo le
prese il mento con una mano, costringendola a guardarlo “No, dico sul serio.
Voglio che tu mi faccia sapere ogni cosa, capito?
Nessuno deve mancarti di rispetto, nessuno. Lo sai, non amo attaccar briga, ma
non permetterò a nessuno di offenderti… o altro. Siamo intesi? Non mi terrai
nulla nascosto, vero?”
La ragazza sospirò e dopo averlo guardato di nuovo negli occhi
per alcuni istanti annuì, volgendo poi lo sguardo a terra. Ryo si ritenne
soddisfatto e la lasciò andare “Bene, ora andiamo.”
Così, in silenzio, continuarono ad incamminarsi verso la loro
nuova scuola. Era uno dei primi passi della loro nuova vita… o almeno Ryoko
sperava che fosse una nuova vita.
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Ryoga batté le palpebre, esterrefatto.
Quasi senza che se ne rendesse conto, sentì gli occhi
inumidirsi e dovette faticare per non mettersi a piangere come un bambino, lì
in mezzo alla strada, lì… davanti al dojo dei Tendo.
Una marea inesorabile di ricordi lo assalì, lasciandolo quasi
senza fiato. Ricordi brutti, ma soprattutto belli, ricordi di
una gioventù che solo attraverso le sofferenze dell'età adulta poteva
finalmente considerare spensierata.
Già, in fondo quando ancora frequentava il dojo, quali erano i
suoi pensieri più grevi? Che Akane scoprisse il suo segreto, la sua
maledizione, e che s'innamorasse di Ranma… Beh, entrambe le cose erano accadute
eppure la sua vita non era affatto andata in pezzi,
anzi.
All’inizio, quando la verità su P-Chan era venuta a galla,
Akane si era infuriata con lui e per un po’ non aveva voluto vederlo, ma poi i
rapporti si erano rinsaldati… Già, si era rappacificato con lei e la loro
amicizia era risorta su basi nuove, tanto che lei e Ranma erano
poi stati i suoi testimoni di nozze, le sue nozze con Akari.
Deglutì nervoso, non doveva rimettersi a pensare a lei e a
quello che era successo; non adesso che era tornato al dojo dopo tanti anni,
ora voleva riportare a galla solo i bei ricordi e lì ne aveva
molti, tutti legati a quell’idiota di Ranma ammise con un mezzo sorriso…
Ranma, il suo unico rivale. Il suo unico vero amico.
Deglutì ancora una volta e guardò l’insegna, l’unica cosa che
sembrava essere cambiata; non c’era più scritto infatti
Dojo Tendo, ma “Dojo Tendo-Saotome”. Sorrise ancora, pensando che
un tempo quella scritta lo avrebbe fatto infuriare, mentre ora gli unici
sentimenti che provava erano gioia e la piacevole
sensazione d’essere come tornato a casa.
Facendosi coraggio Ryoga Hibiki oltrepassò il cancello del dojo, dopo più di dieci anni.
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“Ragazzi, la maggior parte di voi credo che si conosca già. Provenite tutti dalle stesse scuole ed abitate in questo quartiere, molti di voi saranno già amici.”
Hotaru lasciò vagare lo sguardo per l’aula, dovendo ammettere
che il professore aveva ragione e che conosceva tutti
gli altri, chi più, chi meno. Alcuni erano stati suoi compagni alla scuola
media, mentre altri li conosceva almeno di vista. Le
dispiaceva però che le sue migliori amiche, Hitomi e
Midori, non fossero in classe con lei.
Il professore sorrise con entusiasmo. Era molto giovane e
probabilmente quella era una delle prime classi che gli venivano
affidate. “Voglio presentarvi due studenti che invece si sono trasferiti da
pochi giorni a Nerima e che quindi non conoscono ancora nessuno. Mi raccomando,
siate gentili facendoli sentire a loro agio in questa nostra cittadina” un brusio
si levò tra i banchi mentre l’uomo si avvicinava alla
porta per poi aprirla “Prego, ragazzi, entrate.”
Ryo fu il primo ad entrare, lo sguardo tranquillo per nulla
intimidito, mentre a distanza di qualche passo lo seguì Ryoko, visibilmente in
difficoltà. Odiava essere al centro dell’attenzione ed
essere presentata ad un’intera classe era imbarazzante da morire.
Quando suo fratello si fermò vicino alla cattedra, lei gli si
mise accanto, alzando il capo solo per un momento prima di tornare a fissare i
propri piedi, le guance inizialmente pallide ora infuocate.
“Come vi ho detto, loro sono appena
arrivati a Nerima. Sono fratello e sorella… ma forse Ryo, è meglio che tu
faccia le presentazioni” il giovane professore si sistemò gli occhiali a
disagio, guardando appena la ragazzina: temeva di essere
indelicato e Ryo lo ringraziò con un sorriso, poi si volse verso il resto della
classe, per nulla infastidito da quegli sguardi curiosi; preferiva che
guardassero lui piuttosto che Ryoko.
“Mi chiamo Ryo Hibiki ed ho sedici anni. Io e la mia famiglia
ci siamo trasferiti a Nerima un paio di giorni fa. Lei è mia sorella gemella,
anche se non ci somigliamo granché.” In effetti non sembravano nemmeno fratelli, pensò Hotaru
guardandoli con non meno curiosità degli altri.
Lui era alto, più di un ragazzo della sua età; aveva occhi
molto belli, di un caldo castano chiaro che quasi sembravano
sfumare in un verde profondo, ombreggiati da lunga ciglia scure; i capelli
scurissimi erano un po’ lunghi sulla fronte, infatti gli finivano quasi sugli
occhi in ciocche disordinate. Sua sorella invece era minuta, decisamente
esile anche se ben proporzionata, non troppo alta ed in apparenza molto
gracile.
Aveva un viso delicato, dai lineamenti dolci e gentili, meno
spigolosi di quelli del fratello e l’ovale del volto era incorniciato da lunghi
capelli dai riflessi castani che le coprivano le spalle fino a metà della
schiena, perfettamente lisci.
A parte il colorito sulle guance, il suo incarnato appariva
niveo, mentre suo fratello aveva la pelle più ambrata,
come se fosse abituato a passare molto tempo all’aria aperta.
“Si chiama Ryoko ed è più piccola di me di tre minuti. E’ molto
timida – la guardò un istante, prima di tornare a rivolgersi alla classe – e
non parla” aggiunse con l’unica nota d’esitazione che gli sentirono
in quella breve presentazione.
Ryoko strinse impercettibilmente le mani intorno alla cartella,
non trovando il coraggio di alzare gli occhi verso gli altri, verso quell’aula
dove sembrava essere piombato il silenzio più assoluto. Ryo al contrario lasciò
vagare lo sguardo, sfidando chiunque a dire qualcosa di poco gentile o di
stupido: in fondo gli era accaduto altre volte e non se ne sarebbe stupito più
di tanto. Ma quella volta non accadde nulla, nessuno
almeno per il momento commentò la cosa e lui ne fu sollevato.
Si volse verso il professore che gli sorrise,
altrettanto sollevato “Bene, potete prendere posto, ragazzi e… cominciamo le
lezioni!”
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Arashi trattenne a stento un’imprecazione tra i denti;
quell’anno scolastico sarebbe stato lunghissimo, ora ne era
certo. Lo aveva capito appena entrato in aula quando aveva visto tra i suoi
compagni anche Kuno, che ora se ne stava comodamente
seduto su uno dei banchi, la solita smorfia arrogante sul bel viso.
‘Naturalmente si è
seduto sul mio banco.’
Arashi gli si mise di fronte e lo guardò, tentando si assumere
un’espressione il meno contrariata possibile: sembrava
che la missione nella vita di quel ragazzo fosse infastidirlo. “Scusa, Kuno,
potresti spostarti?” gli domandò con ostentata gentilezza.
Ken Kuno inarcò un sopracciglio e fingendosi stupito guardò il
banco sul quale era seduto “Oh, dici davvero Saotome?
Questo è il tuo banco? Scusami, non lo sapevo” disse
con aria innocente, non facendo però il minimo cenno di muoversi.
“Credi che io possa sedermi ora che lo sai, Kuno?”
“Hai così tanta voglia di metterti a studiare, Saotome? Il
professore non è ancora arrivato e stare in piedi per qualche minuto non ti
farà male, sei un atleta, no?”
Arashi strinse un pugno: anche alla sua pazienza c’era un
limite. Erano anni che con il suo comportamento irritante quel ragazzo cercava
in tutti i modi di stuzzicarlo, quasi sembrava una mania di famiglia
importunarlo!
“Senti un po’…”
“Ehi, Arashi! Siamo in classe insieme!” la voce squillante
dietro di sé lo interruppe e, riconoscendola, Arashi
dimenticò momentaneamente Kuno.
Si voltò verso la ragazza alle sue spalle e la guardò stupito
“Suzume…”
Suzume Nogata era la vera celebrità del Furinkan. Famosa per la
sua grande bellezza, ma soprattutto per una spiccata
abilità che le aveva guadagnato la stima, o meglio, il timore reverenziale di
tutti: Suzume sapeva sfruttare ogni occasione e ricavarne profitto.
Era abile, astuta e determinata, oltre che fredda
e calcolatrice. Ed era cugina di Arashi Saotome, il
che non faceva che aumentare la sua popolarità; Suzume infatti era la degna
figlia di Nabiki Tendo, da cui aveva ereditato non solo i bei lineamenti, ma
anche le sue particolari doti.
Lei ed Arashi non erano molto amici, lui
infatti non sopportava essere l’oggetto preferito delle contrattazioni
della cugina, ma di Suzume stimava molte cose, come il fatto che fosse
estremamente sveglia e, ciliegina della torta, che fosse nemica giurata di Ken
Kuno. Probabilmente il ragazzo odiava lei persino più di quanto odiasse lo stesso Arashi, forse perché al contrario di
quest’ultimo lei sapeva metterlo nel sacco egregiamente.
“Ciao cuginetto – lo chiamava sempre
così, vantandosi di essere più grande, se pur di soli
quattro giorni – è la prima volta che siamo nella stessa classe.”(**)
“E’ vero… E’ da un po’ che non ti si vede al dojo.”
Lei si strinse nelle spalle e gli si avvicinò scostando i
lunghi capelli dalle spalle con un gesto molto aggraziato “Sono
stata molto impegnata durante le vacanze… Oh – si era appena accorta
della presenza di Kuno, come la smorfia di disappunto se pur fulminea dimostrò
– ci sei anche tu. Che piacevole sorpresa” commentò
posando uno sguardo glaciale sull’altro ragazzo che la fissò con altrettanta
ostilità.
“Mi hai rubato le parole di bocca, Nogata.”
“Che ci fai ancora qui? Credevo che
fossi partito per l’America per andare da tua madre, o almeno così si
vociferava.”
Ken sembrò un po’ stupito “Un giorno mi spiegherai come fai a
conoscere tutti i fatti miei, Nogata… e soprattutto mi dirai perché
t’interessano tanto.”
Lei inarcò un sopracciglio “Interessarmi? Per tua norma e
regola io non m’interesso di ciò che accade nella tua eccitantissima
vita di ricco rampollo. Il fatto è che speravo di essermi liberata della tua
presenza” gli schioccò un’ultima occhiata fredda e
dopo un cenno col capo rivolto ad Arashi andò a sedersi, muovendosi con la
solita grazia.
Ken la seguì con lo sguardo, un’espressione talmente pensierosa
che osservandolo ad Arashi parve quasi persino assumere un’aria intelligente,
tanto era assorto. “Saotome – Ken tornò a fissarlo, alzandosi
dal banco – senti…”
Arashi assottigliò gli occhi, aveva la curiosa impressione che
tanto per cambiare volesse chiedergli qualcosa di
serio “Ecco…” si zittì nuovamente, per poi sospirare e volgere lo sguardo
altrove “Non importa. Siediti pure” disse infine,
allontanandosi con aria afflitta.
‘Che cavolo gli prende?’ si
chiese il giovane Saotome, ma non ebbe molto tempo per pensarci perché proprio
in quel momento faceva il suo ingresso in aula un altro degli incubi del
giovane Saotome, la professoressa Hinako.
Arashi era la sua vittima preferita,
così come lo era stato suo padre anni prima. Il povero ragazzo sospirò e
si lasciò cadere sulla sua sedia: quel terzo anno sarebbe davvero stato
lunghissimo!
--- --- ---
Akane sentì bussare alla porta e stupita guardò l’orologio: chi
poteva essere così presto?
Si asciugò le mani, lasciando perdere
i piatti che stava lavando e sfilandosi il grembiule andò ad aprire. Ranma era
al dojo impegnato nei suoi soliti kata e in quei
frangenti non avrebbe sentito un colpo di cannone.
Ryoga trattenne letteralmente il respiro udendo i lievi passi
avvicinarsi; deglutì nervoso ed attese. Attese di
guardare in faccia il suo passato, quel passato che
tutto sommato era stato così piacevole.
Finalmente la porta si aprì e lui la vide; Akane…
Non era affatto cambiata o meglio, era diventata una donna, una donna matura e ancora
incredibilmente bella. I capelli scuri le scendevano dolcemente sulle spalle,
li portava più lunghi rispetto a quando era una
ragazzina vivace piena di energie, ma i suoi occhi, quegli incredibili occhi
caldi come il cioccolato, erano gli stessi.
“Ciao…” la salutò, usando quel poco fiato che riuscì a trovare.
Akane spalancò gli occhi, sorpresa. Quell’uomo
che le sorrideva timidamente e chiaramente emozionato era… “Ryoga!”
Immobilizzata dalla sorpresa, lo fissò per alcuni istanti. Era
la prima volta che lo rivedeva da… Santi numi, erano passati 10 anni! In tutti quel tempo lui aveva raramente telefonato, ma aveva
sempre scritto ed inviato cartoline, regali, almeno fino a tre anni prima, poi
non ne avevano più saputo nulla. Ed ora era lì,
davanti alla sua porta. Quell'uomo che ora stava sorridendole era il ritratto
del ragazzo che aveva visto l’ultima volta, in occasione del matrimonio di
Kasumi. Ryoga…
Nel rivedere l’uomo, Akane improvvisamente avvertì tutta in una
volta la mancanza del ragazzo che era stato, di quel
ragazzo timido, del suo amico, del suo confidente… Certo, aveva ricoperto
quella veste più sotto le spoglie del suo animaletto domestico, però… Era
Ryoga. Il gentile e dolce Ryoga…
Si morse le labbra e gli sorrise, gli
occhi luminosi di pianto a stento trattenuto, così come lucidi erano gli occhi
di lui “Sei identico ad allora!”
Lui si strinse nelle spalle “Non credo.
Tu invece sei sempre la stessa, sempre bellissima…” si
complimentò, incredibilmente con poco impaccio.
“Oh Ryoga, che gioia rivederti! Ma che
sciocca, ti sto lasciando sulla porta! Entra, ti prego, Ranma non crederà ai
suoi occhi!”
“Come sta l’idiota?”
“Meglio di te di certo, eterno disperso.”
Quella voce…
Ryoga volse lo sguardo verso le scale e Ranma era lì. L’aria beffarda di sempre, il solito sorriso strafottente e spavaldo. Ranma Saotome, l’invincibile rivale di un tempo. Era un uomo
ora, ma a Ryoga non parve cambiato e quello
gli diede una tale gioia da ridurlo davvero sull’orlo delle lacrime: perché se
Ranma era lo stesso, allora forse anche lui poteva illudersi, anche se solo per
un momento, d’essere lo stesso di un tempo. >Lo stesso ragazzo
forte e determinato di allora e non l’uomo intimamente piagato dalla sofferenza.
Ranma notò l’emozione dell’amico e gli si avvicinò “Stavolta ti
sei perso davvero per un bel po’…”
“Da come lo dici sembra che ti sia mancato, Saotome.”
“Chi, tu? Scherzi?! Perché dovevi
mancarmi? Ho il frigo pieno di becon, P-chan!”
“P-chan
a chi?!” Ryoga lo
afferrò per la canotta che Ranma portava per i suoi
esercizi e finse di volerlo colpire, ma il suo pugno si fermò a metà strada.
“Non mi sei mancato nemmeno tu, idiota…” sussurrò, la voce rotta dall’emozione.
Ranma avvertì le lacrime serrargli il fiato e imprecò
mentalmente contro se stesso, dandosi della femminuccia. Però,
a chi la dava a bere? Quel testone con la spiccata propensione a perdersi anche
nel salotto di casa sua gli era mancato. E gli era mancato come rivale, ma soprattutto come amico.
Abbassò lo sguardo ed il suo sorriso divenne più dolce, carico
di nostalgia. Era certo che anche Ryoga stesse provando le stesse
sensazioni, perciò restò in silenzio, conscio che non c’era bisogno di parlarsi
per esprimerle.
Akane sorrise e si avvicinò ai due immersi in quel silenzio
emozionato e un po’ dispiaciuta di doverlo infrangere, li esortò ad entrare in casa
“Cosa penserà Ryoga di noi se lo teniamo qui
nell’ingresso? Su Ranma, accompagnalo dentro mentre preparo il tè.”
Seduto di fronte a Ranma, Ryoga guardava il grazioso giardino
dei Tendo, ripensando a quante volte era stato in
quella casa, in quella stessa stanza, poi il suo sguardo cadde sul piccolo
stagno ed un sorriso spontaneo gli alzò gli angoli della bocca. Ranma lo guardò curioso “Ecco, pensavo a quante volte ci sono caduto dentro” spiegò, scoppiando poi a ridere, subito imitato dal padrone di casa.
“A chi lo dici! Per fortuna da quando mio padre non vive più
con noi, non mi capita più.”
“Come sta il signor Genma?”
“Oh, benissimo! Il vecchio e mia madre
vivono in una nuova casa, proprio accanto a quella di Kasumi e il dottor Tofu.”
“Ed il signor Tendo?”
“Vive ancora con noi, anche se è più il tempo che passa dai miei, credo voglia rimanere vicino a mio padre, sai le loro partite a shoji. Ancora non hanno stabilito chi sia il più bravo a barare.”
Ryoga annuì comprensivo “Ricordo… Questa casa non è molto
cambiata” commentò, tornando a guardarsi intorno ed assaporando appieno la
sensazione di familiarità che quel luogo gli dava.
“Infatti, io e Akane abbiamo deciso di
mantenerla così. E poi da quando te ne sei andato non dobbiamo più riparare
mura e soffitto.”
L’ospite fece una smorfia ed incrociò le braccia al petto “Sei spiritoso come sempre, Saotome. Piuttosto, che ne è stato degli altri? Li vedi ancora?”
“Uhm, Shan-po e Mousse tornano in
Giappone almeno una volta l’anno e non sono cambiati granché, nonostante il
matrimonio e i figli: lei cerca ancora di accalappiarmi, lui di uccidermi. Ukyo
vive ancora qui, il suo ristorante è ancora uno dei più conosciuti di Nerima.”
Ryoga si morse le labbra; a Ranma era parso che quasi fosse
sussultato a sentire il nome della vecchia amica ed anche il suo sguardo si era
fatto sfuggente, carico di rimorso. Si domandò il perché, ma fu questioni di
pochi istanti, poi Ryoga tornò a sorridere con nostalgia “Ucchan… Non la vedo
da un’eternità.”
“Allora ti basta restare qui, viene a trovarci praticamente ogni giorno. Lei ed Akane sono
diventate inseparabili come sorelle.”
“Che ironia! Se
penso al passato…”
Ranma si strinse nelle spalle e poggiò il viso ad una mano “Le
cose cambiano. Guarda noi: ci detestavamo, ma siamo
diventati amici.”
“Già, le cose cambiano…”
La tristezza con cui pronunciò quella frase non sfuggì a Ranma
che fissò pensieroso il suo amico; c'era qualcosa in lui che non riusciva a
definire… Un alone di tristezza, anzi, c’era nei suoi occhi come un’ombra di
vera e propria disperazione che nonostante tentasse di dissimulare, gli
offuscava lo sguardo. Come quando aveva imparato quella
stupida tecnica, la Shishi Hokodan. “Pratichi ancora le arti marziali, Ryoga?”
“Certo, anche se con meno impegno di prima.
Sto tentando di insegnarle a mio figlio, ma lui non… non ci trova tanto
interesse.”
“Peccato, se ricordo bene hai avuto un
maschio ed una femmina.”
“Sì, è vero, Ryo e Ryoko. Ora hanno sedici anni.”
“Ed Akari? Come mai non è venuta con
te?”
“Ecco il tè!” Akane entrò nella sala prima che Ryoga potesse rispondere e lui gliene fu intimamente grato: aveva bisogno di un po’ di tempo per poter trovare le parole adatte a spiegare cosa
era successo. Il tempo necessario a dominare il dolore che gli si agitava dentro
ogni volta che era costretto a raccontare.
Akane sedette accanto al marito e porse ai due le loro tazze
fumanti “Ho portato anche dei biscotti, forse ne
gradite. Li ho fatti io.”
Ranma quasi scoppiò a ridere, quando notò
lo sguardo sgomento del loro ospite, anzi il vero e proprio sguardo di terrore
che aveva rivolto ai biscotti bellamente sistemati in un piatto. Sapeva
che Ryoga non avrebbe mai espresso i suoi timori sulla cucina di Akane, anzi, avrebbe mangiato ugualmente almeno uno dei
biscotti pur sapendo di rischiare la vita, ma quando lo vide prenderne uno con
mano tremante, decise di rassicurarlo “Tranquillo, Akane ha imparato a
cucinare… quasi.”
Lei lo fulminò con lo sguardo “Quasi? Come sarebbe a
dire?!”
“Beh, che hai imparato a preparare dolci fantastici, l’ammetto,
ma per il resto… voglio dire, niente arriva al gusto dei tuoi dolci
superlativi!” aggiunse Ranma, quando notò lo scintillio omicida negli occhi
della moglie e sorridendole prese un biscotto e lo mangiò avidamente.
Ryoga si rilassò un po’ e ne gustò anche lui uno, rimanendone
piacevolmente sorpreso “E’ davvero buono! Non… non che
prima non lo fossero…” aggiunse, imbarazzato per lo
sguardo contrito di Akane che però gli sorrise con calore.
“Non c’è bisogno di mentire, lo so di essere stata una cuoca
pessima, ma s’impara e grazie ad Ukyo ho imparato
moltissimo. Ecco, non tutto mi riesce bene, però i dolci sono
la mia specialità! E poi tu sei sempre stato l’unico che assaggiava tutto ciò
che cucinavo senza mai lamentarti, eri davvero gentile.”
Lui arrossì e sorseggiò il tè. A quei tempi era talmente
innamorato di Akane che se pure lei gli avesse dato
del veleno lo avrebbe accettato senza batter ciglio e qualche volta ciò che
aveva cucinato era stato davvero simile al veleno.
Ranma scosse il capo, intuendo i suoi pensieri “Prima non mi
hai risposto, Akari è a Nerima con te?”
Ryoga poggiò la tazza sul tavolo prima che i suoi amici potessero notare il lieve tremito alle mani, poi li guardò per qualche istante come per cercare le parole adatte. Ma
non c’erano parole adatte, lo sapeva bene. Quando il dottore gli aveva detto
cosa era successo si era chiaramente sforzato d’essere sensibile, ma l’effetto
era stato lo stesso che se gliel’avesse urlato in
piena faccia…
“Akari è morta.”
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Note:
(*)obento: è il cestino del
pranzo, inteso nel suo complesso, cioè contenitore e cibo. Di solito è una
piccola scatola divisa in vari reparti dove viene sistemato
il cibo e può essere preparato a casa o comprato. A volte viene anche chiamato bento, ma questa forma è
considerata maleducata soprattutto se detta da ragazze… ^_^;
(**) in Giappone si cambia
ogni anno la formazione delle classi, che non restano le stesse nel corso degli
studi.