L’ultimo
desiderio
di Breed 107
Una preghiera prima di cominciare: per favore leggete anche il Carla’s corner alla fine del
capitolo, è importante!
Prologo.
Non era mai stato in un dojo. O
meglio, non era mai stato in uno così…
Lo avrebbe definito accogliente se avesse conosciuto
quell’aggettivo, ma non lo conosceva; l’unica parola
che sapeva per descrivere la sensazione che provava era calore, un gran
tepore intorno al petto.
C’era silenzio lì, ma non quel silenzio brutto, di quello che
ti avvolge la notte quando non puoi dormire, o quel
silenzio ancora più brutto quando sei triste. No, non era
così… era un silenzio buono, gentile. Sì, gentile. Gli piaceva quella
parola: suo padre avrebbe detto che era azzeccata.
Il parquet era lucido, pur se non privo d’imperfezioni, anzi,
qui e là vi erano dei segni che sembravano cicatrici per quella vecchia
palestra, ma non vi era incuria (altra parola difficile) né abbandono. Era un
posto vissuto, quello sì: persino lui riusciva a percepirlo osservando le assi
tirate a nuovo, i pannelli con la carta leggermente ingiallita e l’altarino,
molto sobrio con quell’unico fiore. Proprio un omaggio alla frugalità
giapponese…
Si grattò una guancia, il naso ancora volto all’insù: non
conosceva il significato dei kanji impressi sopra all’altare, magari avrebbe
chiesto a suo padre di leggerglieli.
I grandi occhi vagarono per la sala, rapiti anche dalle
minuscole particelle di polvere che danzavano nella luce solare: era divertente
guardarle, provare ad afferrarle e osservare come fosse facile farle vorticare
con un semplice soffio. Fece un passo verso la parete dell’altare e battendo le
palpebre osservò una cicatrice più profonda di altre, una screpolatura
che lasciava intravedere il legno vivo sotto la superficie patinata, posta
proprio all’altezza del suo sguardo. Doveva essere recente, chissà chi era
stato a colpire la parete tanto forte da incrinarla? Aveva una strana forma a
vu, come gli uccellini disegnati da Ryoko... Degli
uccellini alquanto immobili ed improbabili, ma lui non era certo il più adatto
a criticare le doti artistiche della bambina.
Si addossò alla parete, poggiando la fronte contro il legno
tiepido accanto alla fenditura e sorrise brevemente per la piacevole sensazione
che lo pervase, poi abbassò lo sguardo sui suoi piedi; mosse l’alluce destro,
scrutando attento il movimento del calzino: non ricordava dove avesse lasciato
le pantofole, ma non era un problema. Avrebbe chiesto a suo padre di aiutarlo a
ritrovarle, prima di restituirle alla signora dal sorriso gentile.
Ecco, il sorriso della signora! Era proprio così che era quel
posto: caldo e gentile come il sorriso della signora!
Uhm, la cosa non aveva molto senso. Chiuse un attimo gli occhi,
stanco per quell’inutile arrovellarsi (altra parola complicata!) e fece aderire
la guancia rovente al legno, sentendone anche il leggero profumo di cera: era
un buon odore, gradevole e conosciuto. Dove l’aveva sentito? Forse in camera
del nonnino, prima che lui e il suo futon sparissero
per sempre.
La mamma aveva sempre un sorriso triste
quando le chiedeva del nonno per cui aveva smesso, ma a lui sembrava
proprio strano che un nonno sparisse così, all’improvviso. E
poi era sempre stato a letto, dove poteva esser andato?
Sentiva il suo cuore più forte ora che teneva l’orecchio
premuto alla parete e contò distratto alcuni battiti, fermandosi a sette…
faceva ancora un po’ di confusione a quel punto: dopo veniva l’otto o il nove?
“Ti sei perso?”
Batté le palpebre e si scostò di scatto dal momentaneo
appoggio, voltandosi verso la voce alle sue spalle.
La prima cosa che notò fu che quel bambino aveva grandi occhi
castani e che la sua voce era garbata; come lui era costretto ad indossare un
abito elegante, ma a differenza sua sembrava trovarsi a proprio agio con quegli
abiti da grande, in ogni caso molto più di quanto lo
fosse lui.
Scosse il capo e un po’ in imbarazzo abbassò lo sguardo
puntandolo sul primo bottone che chiudeva l’odiosa giacca che i suoi gli
avevano messo senza nemmeno chiederglielo. Aggrottò le sopracciglia sottili e
cominciò a giocherellare proprio con quel bottone scuro “Non mi sono perso…”
disse, trovando poi il coraggio di guardare l’altro bambino.
Era più grande di lui, anzi quando lo
vide avvicinarsi, i suoi movimenti così sicuri gli rammentarono proprio quelli
di un adulto. Arrossì senza sapere nemmeno il perché e tornò a tormentare
l’incolpevole bottone: era vero che non si era perso, ma forse quel ragazzino
avrebbe pensato che se n’andava in giro a curiosare in casa altrui.
“Ti annoiavi di là?” domandò ancora l’altro e senza pensarci si
ritrovò ad annuire. Il ragazzino sorrise e con la stessa fluidità che tanto
l’aveva colpito, incrociò le mani dietro al collo: non l’aveva notato prima, ma
aveva un codino, una piccola treccia che racchiudeva i capelli scurissimi e
lucidi.
“I grandi sono davvero noiosi… Però
più tardi ci sarà la torta: sarà di sicuro buona, visto che l’ha preparata la
mia mamma.”
“Davvero?”
Il ragazzo annuì con il capo, poi alzò lo sguardo al cielo “Mio
padre dice che è l’unica cosa decente che sa
preparare. Oh, non dirlo però, la mamma lo prende sempre a martellate
quando lui dice così!”
Il piccolo annuì ancora, un po’ confuso: una mamma che prendeva
a martellate un papà? Era strano: sua madre non avrebbe mai fatto una cosa del
genere, anche quando era arrabbiata per le sparizioni del marito.
“Ti piace qui?”
“Sì, è bello. E’ tuo?” domandò,
dimenticandosi all’istante della storia delle martellate. Fu il turno dell’altro
annuire.
“Il mio papà è un maestro d’arti marziali, lavora qui dentro…
insegna anche a me” asserì prima di guardarsi intorno visibilmente soddisfatto
“E’ il mio posto preferito.”
“Perché hai il codino? Non ho mai
visto un maschio con un codino” il bambino più piccolo non poté
proprio evitarsela quella domanda; se fosse stato più grande forse avrebbe
temuto di peccare di sfacciataggine, ma a cinque anni di certe cose non si
conosce nemmeno il significato. L’altro non parve essersi offeso, si strinse nelle
spalle con tranquillità ed afferrò l’estremità della corta treccia, come a
mostrargliela meglio.
“Mio padre la portava. Quando sarò grande come
lui la toglierò, ma a mia madre piace.”
“La tua mamma è la signora con il sorriso gentile?”
“Uhm? Non lo so, forse. Anche la zia
Kasumi sorride gentilmente, ma forse lo fa perché si è sposata oggi, chissà…
Senti, ti va di giocare con me?”
>Gli occhi del bambino s’illuminarono di pura gioia e troppo
emozionato per rispondere annuì con il capo: non gli capitava spesso di giocare
con altri bambini. Alla fattoria non c’era che Ryoko e lei era una femmina,
fissata con le bambole per di più, la cosa più obbrobriosa dell’universo. Una
volta aveva provato a giocarci insieme, ma lei s’era messa subito a piangere quando, mimando un attacco da parte d’alieni super cattivi, lui aveva staccato la testa ad un orsacchiotto che aveva proclamato
essere il comandante supremo delle forze intergalattiche. Le bambine erano una
tale lagna!
Sua madre diceva che ora avrebbe avuto
molti amici, visto che finalmente il loro peregrinare era finito… Presto
avrebbe frequentato la scuola del villaggio e lì, assicurava la mamma, c’erano
un sacco di bambini impazienti di giocare con lui.
“Bene! Però dobbiamo uscire da qui, mio padre dice che questo è come un posto sacro e che non bisogna giocarci – il viso del ragazzino aveva assunto un’aria compunta che lo rese
ancora più adulto agli occhi ormai adoranti del più piccolo – anche se io penso
che lo dice perché ha paura che rompa ancora qualcosa” aggiunse con una smorfia
che strappò una risata all’altro.
“L’hai fatto tu questo uccellino
allora!” il più piccolo indicò la fenditura che gli ricordava i disegni della
sorella e l’altro annuì, l’espressione un po’ impacciata.
“Sì, con un calcio. Mio nonno Genma sembrava contento
quando l’ho fatto, ha detto che somiglio molto a mio padre… Sai che è
vero? Sembra proprio un uccellino! Allora, andiamo?” indicò
l’uscita e si avviò, il suo ospite gli trotterellò dietro contento.
Forse quella festa non era poi tutto ‘sto strazio…
“Come ti chiami?” gli domandò il padrone di casa
mentre uscivano dal dojo, osservandolo da sopra la spalla.
“Ryo Hibiki e tu?”
“Arashi Saotome. Ho sette anni, quasi otto
anzi” aggiunse poi, a completare la presentazione “E tu, quanti anni
hai?”
“Così.” Ryo sventagliò una manina aperta, tutto orgoglioso:
erano un traguardo niente male tutte quelle dita
alzate! Un’intera mano per indicare la propria età, roba da grandi… o per lo
meno da più grandi rispetto a quando, facendo un po’ di fatica, era costretto a
mostrare sole quattro dita paffute.
“Hai la stessa età di mia sorella Hotaru.”
“Anche mia sorella Ryoko ha così – mostrò ancora una volta una
mano aperta – siamo nati lo stesso giorno. A lei piace
giocare con le bambole…”
Quella frase così apparentemente slegata dal discorso non stupì affatto Arashi che annuì e, con fare saggio, sospirò “Piace un po’ a tutte le bambine. Ad Hotaru
non piacciono tanto a dire il vero, ma lei non conta: non è come una vera
femmina. Cioè, è una femmina, ma le piacciono anche le
cose che piacciono ai maschi, tipo fare la lotta… E’ strana.”
A Ryo sarebbe piaciuto avere una sorella così con cui fare la
lotta o che si allenasse con lui e suo padre, ma poi pensò
che se avesse cambiato Ryoko con una femmina strana, non avrebbe più
rivisto la gemella. Era un pensiero triste, a ben vedere: lei poteva essere una
lagna con le sue bambole, le sue trecce infiocchettate
ed i suoi pianti per gli orsi decapitati, ma non era poi così brutto averla
intorno. Non lo avrebbe detto a nessuno, ma gli piaceva
quando lei gli stringeva la mano perché aveva paura o quando gli
chiedeva di catturarle delle lucertole per poi farle scappare via veloci veloci. Insomma, si sentiva un fratello maggiore in quei
momenti.
“Ti piacciono le arti marziali?” domandò di punto in bianco
Arashi, distraendolo da quei pensieri che gli avevano fatto venire uno strano
nodo alla gola.
“Sì, sono la cosa che più preferisco al mondo! Anzi,
nell'universo!”
Il bambino più grande gli sorrise: non
si era aspettato una risposta diversa. Infatti, cosa
c’era di meglio al mondo? A lui non veniva in mente nulla.
Capitolo primo.
La stoffa era leggera, più di quanto rammentasse.
Il tono di blu carico invece lo rammentava bene, come dimenticarlo del resto?
Per tre anni i suoi occhi non avevano quasi guardato altro… Non avevano
desiderato altro.
La visione che violenta risalì alla sua
memoria quasi scacciò quella che ora gli volteggiava davanti; il ricordo
prepotentemente chiedeva il suo spazio al presente, sovrapponendo
le due immagini, le due ragazze, quella di tanto tempo prima e quella di
adesso.
Quasi venti anni prima l’amore della sua
vita aveva indossato quella stessa divisa, quasi identica in ogni particolare. Corti
capelli scurissimi scossi dal vento, occhi color miele e sorriso capace di
sciogliergli l’anima, una dolce ragazzina scorbutica che usava malmenarlo per
parlargli d’amore… Ed ora un’altra dolce, dolcissima ragazzina volteggiava
felice per la camera ammirandosi con quella divisa che con tanta prepotenza lo
richiamava al suo passato.
Ranma sorrise e tentò con tutte le proprie forze di non farsi
vincere dalla nostalgia: Akane lo avrebbe preso in giro fino allo sfinimento se
solo avesse sospettato che si era commosso al ricordo di lei,
così come era nei suoi gloriosi 16 anni.
La ragazza finì l’ennesima giravolta e divertita osservò la
gonna sfiorarle le ginocchia; ecco, quello forse era l’unica concessione alla
modernità della divisa del Furinkan, quei centimetri di stoffa mancanti che a Ranma
non andavano proprio giù. Anche quello però non
l’avrebbe confidato ad Akane, di certo l’avrebbe etichettata come una moina da
padre geloso.
“Che ne pensi papà?”
“Come sospettavo,sei orribile.”
Hotaru assottigliò gli occhi scuri e lo fissò dallo specchio
“Io invece credo che mi stia bene. Ah, non vedo l’ora
che arrivi domani!”
Tutto quell’entusiasmo non riusciva proprio a capirlo. Non
gli spiaceva che nessuno dei suoi figli avesse ereditato il suo disinteresse
per la scuola, ma tanto trasporto per il Furinkan era
davvero insensato. “Non capisco che ci trovi in quella gabbia di matti… Il
Furinkan non è ‘sto granché.”
“Ma è una delle scuole più famose di
Nerima” gli fece notare la ragazza tornando a guardarsi e a stirare con le mani
delle inesistenti pieghe dalla camicia candida.
“Più che famosa io la definirei famigerata. E poi con i tuoi
voti avresti potuto frequentare una scuola più prestigiosa”
le ricordò lui di rimando, avvicinandola fino ad affiancarla. Guardando allo
specchio i loro riflessi così vicini, la commozione tornò di nuovo a
tormentargli la gola, serrandogliela quasi del tutto.
Hotaru non era molto alta, ma avendola accanto con quella
divisa addosso Ranma non poteva fingere che la sua piccola non fosse
cresciuta. Tanto accanimento a frequentare il Furinkan contro la manifesta
opposizione dei propri genitori non era forse una pretesa d’autonomia?
Indipendente Hotaru lo era sempre stata, così cocciutamente
determinata a seguire la propria strada a costo d’errori e tanto insofferente
alla disciplina da ricordargli se stesso quasi alla perfezione, ma adesso lo
era in maniera diversa: Hotaru voleva scegliere da sola perché stava crescendo
e voleva che fosse ben chiaro a tutti.
“Oh papà, non mi tirerai fuori la storia del
Saint Herbekeke, vero? E comunque è tardi per discuterne ancora, credo… Mmm – la ragazza inclinò la testa di
lato, osservando critica l’orlo della gonna – forse dovrei chiedere alla mamma
di accorciarla ancora un po’…” mormorò, per poi scoppiare a ridere di fronte
all’espressione infastidita del padre.
“A me pare già abbastanza corta! Uff, spero solo che a te non
tocchi combattere con un branco di maniaci ogni mattina…”
“Eh?”
“No, nulla. L’orlo è perfetto così com’è.”
--- --- ---
Arashi batté le palpebre un paio di volte. Era pure peggio di
quanto si fosse aspettato.
Sospirò e si volse a guardare la donna alle sue spalle,
l’espressione divertita ed esasperata al tempo stesso. “Non posso andarci così,
a meno che non voglia farmi ridere dietro da tutta la
scuola” commentò con lieve ironia.
“Forse se scuciamo gli orli…” azzardò la madre con espressione
colpevole, ma non aveva nemmeno finito di pronunciare
quelle parole che uno dei bottoni faticosamente chiusi sul petto del ragazzo
schizzò via, subito imitato da un altro che ridicolamente colpì lo specchio per
poi rotolare a terra e sparire sotto l’armadio.
Arashi si strinse nelle spalle ed il terzo bottone mandò un
sinistro gemito “Io dico che non basterà.”
Con un sopracciglio inarcato osservò i cinque centimetri buoni
di caviglia che sbucavano dai pantaloni scuri della divisa, quegli stessi pantaloni che sembravano anche ridicolamente attillati. La
giacca s’innalzava ad un palmo dalla vita e i rimanenti bottoni sul davanti
sembravano esser in procinto di schizzar via al primo respiro più profondo
proprio come gli altri due.
Akane si coprì la bocca con entrambe le mani per celare il
tremore commosso delle labbra e batté gli occhi di colpo lucidi “Sei cresciuto
ancora, Arashi...” mormorò
con voce vibrante ed emozionata.
Il ragazzo scosse il capo, un sorriso intenerito sulle labbra
“Non ci provare mamma. Nemmeno un fungo crescerebbe tanto in così poche
settimane.”
La commozione sparì e una smorfia sostituì il labbro tremulo
con incredibile velocità. Imbronciata, la donna incrociò le braccia sul
generoso seno e si strinse nelle spalle “E va bene, forse
avrò sbagliato il programma della lavatrice. E comunque
parlando di funghi, guarda che ne esistono di ben strani, credimi!”
“Sì, ti credo, ma a scuola così non
posso andarci comunque.”
Akane sospirò e tornò a guardarlo, stavolta la tenerezza era
sincera nei suoi occhi, quando incontrarono quelli così simili del figlio. “Però sei davvero cresciuto…” mormorò quasi con rammarico.
Le emozioni che provava a cospetto del
suo primogenito erano contrastanti. E fortissime, così
forti da lasciarla quasi sbigottita. Ricordava di aver amato solo Ranma con
tale e tanto trasporto, con quella violenza che ora anche lei ammetteva esser
parte di lei…
Orgoglio e paura combattevano in lei, lasciandola spiazzata;
orgoglio per lo splendido ragazzo che le stava dinanzi con sguardo limpido,
così sincero e aperto da farla sentire quasi inadeguata, quasi eccessiva nelle
sue passioni. Paura che un giorno quello stesso splendido ragazzo
non sarebbe più esistito.
Con sgomento aveva già visto sparire il bimbo vivace e sveglio, il piccolo Arashi che sorridente si allenava con lei nel dojo o che guardava i film del terrore al suo fianco, stringendole le
mani per la paura e un domani avrebbe visto affacciarsi un uomo da quello
sguardo. Un uomo intelligente e gentile, così come lo era adesso e come lo era
sempre stato, ma pur sempre un uomo che non avrebbe avuto bisogno di lei. Non come quando da bambino chiamava spaventato il suo nome per paura dei mostri nascosti sotto il letto.
La vita era davvero triste nella sua spietata inevitabilità.
Cercando di scacciare la mestizia che l’aveva inopportunamente
avvinta, Akane si domandò se anche Hotaru avrebbe un
domani suscitato in lei tali sentimenti. Al momento, la piccola di casa
Saotome era così impegnata a diventare grande da avere per assurdo ancora
bisogno di lei e Ranma. Contro chi misurarsi
altrimenti nella sua strenua e testarda lotta per lasciarsi alle spalle
l’infanzia? In questo soprattutto suo padre stava
dimostrandosi uno straordinario avversario, pensò con tenerezza la
donna, poggiando una mano sulla spalla di suo figlio.
Il giorno in cui Ranma Saotome si sarebbe reso davvero conto
che la sua Hotaru era una donna, sarebbe stato ben triste per lui… e anche per
lei, ovviamente. Ma Hotaru aveva ancora 16 anni, forse
era presto per preoccuparsi per certe cose.
Arashi osservò il bel volto assorto della madre e capì che
stavolta l’emozione che le colmava gli occhi non era frutto di una finzione. In
quei giorni gli capitava spesso di vederle quell’espressione malinconica e
assorta; l’intuito gli diceva che l’approssimarsi dei
suoi 18 anni e la fine della scuola avevano molto a che fare con quello sguardo
commosso.
“Mamma… - la richiamò con dolcezza e le sorrise quando lei alzò
lo sguardo ancora velato verso di lui – forse è il
caso che porti l’altra divisa in tintoria, che ne pensi?”
“Mmm, sì, direi di sì. Spero solo che quella
di tua sorella sia a posto: non oso immaginare cosa farebbe tuo padre se la
gonna dovesse sembrargli troppo corta!”
Risero entrambi a quelle parole e finalmente Arashi poté
togliersi quell’affare ridicolo.
Il primogenito dei Saotome non condivideva l’entusiasmo di sua
sorella minore riguardo alla scuola. Il giorno dopo avrebbe iniziato il suo
terzo ed ultimo anno all’istituto superiore del quartiere, terzo anno che si
prevedeva essere molto più tranquillo che per i suoi compagni, per lui infatti non si profilavano i massacranti esami per
l’ammissione all’università. Nonostante fosse un ottimo
studente, aveva deciso da tempo di non
continuare gli studi, ma di intraprendere fin dal diploma l’unica attività che
lo avrebbe reso felice, vale a dire proseguire l’eredità dei suoi genitori. Già
da quell’anno avrebbe cominciato ad insegnare ad alcune classi del dojo e un
domani avrebbe portato avanti la tradizione di famiglia con entusiasmo.
Amava le arti marziali con tutto se stesso, con quell’amore
viscerale e a volte persino un po’ cieco che ancora animava suo padre. Che fosse lui ad ereditare il dojo Tendo-Saotome era parso a tutti la cosa più ovvia, soprattutto ai due arzilli nonni che fin da bambino lo
avevano all’unanimità eletto loro erede e allievo prediletto: Ranma era stato
sorpreso da come quell’incapace di suo padre Genma fosse diventato un nonno
attento ed un maestro quasi decente. Quasi…
Un giorno si era presentato al dojo con alcuni gatti e, ancora
più sospetto, del cibo per i suddetti felini nascosto tra le pieghe del suo
onnipresente gi bianco: qualche pugno ben assestato da parte sua e altrettante
martellate ugualmente convincenti di Akane avevano
fatto desistere il vecchio dai suoi insani propositi.
Fu così che Arashi scampò alla fatale ailurofobia(*) paterna.
--- --- ---
Ryoko sospirò per la stanchezza e si lasciò cadere sul letto,
allargando le braccia. Era stanca morta; risistemare una casa dopo un trasloco
era sempre una gran fatica.
I grandi occhi scuri fissarono il soffitto di quella che
sarebbe diventata la sua camera, ma che sentiva ancora estranea. L’odore di
vernice era ancora penetrante e probabilmente quella notte avrebbe
dovuto lasciar la finestra aperta e permettere che l’aria di Nerima
stemperasse quell’odore.
Nerima…
Le sembrava di aver sempre conosciuto quel nome; le era
familiare quanto quello di una persona cara, pur non ricordando di esservi mai
stata. I suoi genitori avevano sempre pronunciato quel nome con evidente
affetto, soprattutto sua madre, ma per lungo tempo quello non era stato altro
che un suono vuoto, una parola priva di senso per lei.
Poi, quando tutto era cambiato quel nome era svanito, come se
non fosse stato mai pronunciato. Come se il vuoto fosse
divenuto reale, almeno fino ad una sera di un paio di mesi prima, quando suo
padre all’improvviso aveva detto loro che si sarebbero trasferiti a Nerima.
Di nuovo quel suono, ma stavolta non era più vuoto.
Era una promessa. Una speranza. Lo aveva capito dallo sguardo
che suo padre aveva quella sera.
Una speranza per Ryo. Ma forse anche per lei…
La porta si aprì e per nulla sorpresa
la ragazzina vide il padre con quell'espressione stupita che scorgeva molto
spesso sul suo volto. “Scusa! Cercavo la camera di Ryo… E’
quella accanto, vero?” le domandò imbarazzato, stringendo convulsamente la
maniglia nella mano ancora poggiatavi su.
Ryoko scosse la testa, poi alzandosi con un sospiro si avvicinò
all'uomo e prendendolo per mano, lo guidò alla stanza
posta proprio di fronte alla propria. Con un sorriso gentile gli mostrò infine
la targhetta su cui con caratteri occidentali era scritto il nome del gemello.
Ryoga rise, sempre più impacciato e la ringraziò “Ci sarò
passato avanti un mucchio di volte, che sciocco!” lei gli
sorrise con indulgenza ed intenerito le restituì il sorriso,
carezzandole una guancia.
“Va’ pure a riposare ora. Non preoccuparti: non uscirò da casa
per oggi, perciò non ci sono pericoli che mi perda nei
dintorni” la rassicurò. Lei annuì ed alzandosi sulle punte, depositò un leggero
bacio sulla sua guancia per poi tornare in camera.
Ryoga la guardò fino a quando fu
sparita oltre la soglia poi sospirando, bussò alla porta del figlio ed entrò
senza aspettare risposta.
Il ragazzo era seduto sul davanzale della finestra aperta, lo
sguardo perso nella contemplazione del panorama nuovo per lui; probabilmente
non si era accorto nemmeno della sua presenza, preso com’era in chissà quali
pensieri.
“Ryo” lo richiamò gentile e lui si voltò, i begli occhi castani
leggermente annebbiati.
“Papà… non ti ho sentito entrare.”
“Ho anche bussato, eri distratto.”
Il giovane gli sorrise e si volse del
tutto verso di lui, lo sguardo più attento “Bell'affare
per un esperto di arti marziali” ironizzò, strappando al padre un sorriso
divertito.
“Già – ne convenne Ryoga andandogli più vicino – in effetti.
Tutto bene?” gli domandò, scrutandone con attenzione il viso, come a cercare lì
una risposta.
“Sì. Nerima sembra carina e questa stanza è più grande di
quella che avevo… prima” aveva esitato come se si fosse reso conto troppo tardi di quello che stava dicendo, ma suo padre
non sembrò farci caso o per lo meno finse molto bene. Lanciò un’occhiata al
panorama che il ragazzo stava osservando fino a poco prima e annuì, un sorriso
tirato sul volto.
“Già, è una bella casa, siamo stati fortunati a trovarla. Sai
che anni fa trascorrevo molto tempo in questa città?”
“Sì me l’hai detto… - Ryoga pensò
che forse gliene avesse parlato fin troppo – Volevi chiedermi qualcosa?”
“Sì, riguarda Ryoko. Domani sarà il vostro primo giorno di
scuola e vorrei che tu stessi particolarmente attento a lei.”
“Lo faccio sempre” non fu stupito di avvertire una nota dura
nella voce del ragazzo. Era sempre sulle difensive quando
si trattava di sua sorella.
“Lo so, ma vedi quella scuola, il Furinkan, è un vero e proprio
manicomio! Hanno quel preside completamente folle e… ed io non potrò venire con
voi domani, quindi vorrei che fossi tu a spiegare ai professori il problema di
tua sorella.”
Ryo serrò la mascella in uno scatto nervoso, mostrandogli poi
le spalle improvvisamente irrigidite “Ryoko non ha alcun problema” disse con
voce ancora più tesa di prima e Ryoga pensò che non fosse il momento di
litigare.
Non amava discutere con lui, soprattutto
quando l'argomento in questione era sua figlia… Beh, in verità era l'unico
motivo per cui gli capitava di discutere con quel ragazzo e con amarezza pensò
che era anche l'unica occasione in cui lui pareva uscire dal suo guscio. Ryo si
era costruito una vera e propria armatura dalla quale non lasciava trasparire
nulla.
Era incredibilmente maturo per la sua età, assennato come
chiunque costretto a crescere in fretta, ma era così chiuso! A ben vedere, non
vi era molta differenza tra lui e Ryoko: anche lei si era riparata dal mondo,
anche se il modo scelto sembrava più eclatante rispetto a quello del fratello.
“D’accordo, però tu stalle vicino anche più del solito, intesi?
So che non ho bisogno di dirtelo, ma credimi, quel posto non è proprio l’ideale
per lei.”
“E’ per questo che volevi iscriverla a
quella scuola per sole ragazze?”
“Lei però non ha voluto separarsi da te, perciò… Ok, non c’è
altro, vado a preparare il pranzo.”
Ryo inarcò un sopracciglio e tornò a guardare il padre,
fissandolo da oltre la spalla “Così presto?”
“Devo ancora trovare la cucina. Questa casa è
così dannatamente grande!” sbottò Ryoga, avviandosi verso la porta…
“Ehm, papà, quello è l’armadio. La porta è l'altra.”
“Ah, ah, ah, ci sono ricascato –
scherzò Ryoga, anche se non c’era reale divertimento nella sua risata forzata –
speriamo di non uscire per sbaglio da casa… Ah, a proposito, mi faresti un
favore?”
“Certo.”
“Ecco, servono alcune cose, potresti andare a comprarle? Ci
andrei io, ma…”
“Ma rischieresti di ritrovarti ad
Osaka. Credi che Ryoko voglia venire con me?”
Ryoga ripensò al volto pallido della ragazza e ad i suoi occhi
stanchi e scosse il capo “Meglio lasciarla riposare. Puoi approfittare
dell’uscita per visitare i dintorni, così domani troverai subito la scuola.”
Ryo annuì e sorrise con genuino divertimento. Al contrario del
padre, possedeva un senso dell’orientamento eccezionale. Anche se si ritrovava
in luoghi sconosciuti, riusciva ad orientarsi in poco tempo e non si era mai
perso; scherzando sua madre una volta gli aveva detto
che quel dono era un risarcimento delle divinità per compensare il totale
disorientamento paterno.
“Farò un giretto allora, cosa ti serve?”
--- --- ---
“Mamma, più tardi andiamo dagli zii?” la bambina se ne stava
aggrappata quasi al bancone lasciando penzolare le gambe, mentre la madre era
impegnata a ripulire la grande piastra.
“Certo Yuri, perché no? Scommetto che Hotaru e Arashi saranno
felici di giocare con te.”
La bimba rise e poggiò il mento sulle manine incrociate “E lo
zio Ranma mi farà volare di nuovo?”
La donna le puntò contro un dito, fissandola con cipiglio “Se
Ranma riprova di nuovo a lanciarti in aria come l’altra volta, giuro che lostendo con la mia spatola!”
“Ma è divertente, mamma!”
Ukyo sospirò, l’animosità svanita all’istante e scosse
rassegnata la testa “Sei proprio un maschiaccio Yuri, eppure hai sei anni
quasi, sei una ragazzina ormai.”
“Anche lo zio mi chiama maschiaccio, però ride
quando lo dice” commentò la piccola per nulla oltraggiata.
Stavolta Ukyo sorrise ed alzò gli occhi al cielo “A tuo zio Ranma
sono sempre piaciuti i maschiacci. Ora però basta poltrire, peste: dobbiamo
aprire il ristorante! Va’ a prendere l’insegna, così la
metterò fuori” la bambina annuì, facendo sussultare i riccioli scuri.
“Sì, mammina!” disse, saltando poi
giù dalla sedia. Ukyo la guardò sparire sul retro del locale ed il suo sorriso
divenne più triste.
La sua bambina doveva sentirsi molto sola, pensò mordendosi le
labbra; era davvero una fortuna che Hotaru ed Arashi le volessero
bene come se fosse davvero una loro parente.
La famiglia di Ranma aveva in pratica
adottato lei e sua figlia, accogliendoli tra loro con affetto e di
questo lei non poteva che essere felice, ma non era la stessa cosa per Yuri, lo
sapeva bene: le mancava una vera famiglia, una famiglia che fosse tutta sua.
Sospirò e si sforzò di nascondere la propria tristezza visto che la piccola
stava rientrando, tenendo l’insegna del suo locale tra le mani. “Mamma?”
“Sì?”
“Quando andiamo dagli zii?” Ukyo
sospirò: di tutti i propri difetti, certo Yuri aveva ereditato la
testardaggine.
“Non essere impaziente, andremo stasera dopo aver chiuso.”
“Speriamo che la zia Akane prepari la torta, è così buona!”
A quelle parole la cuoca rise e scosse la testa, sinceramente
divertita “Già, incredibile, ma vero!” disse ridendo
più forte, mentre la piccola la guardava curiosa, chiedendosi che ci fosse di
così divertente.
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Ryo sistemò meglio il pacco sotto al braccio
e dopo aver salutato la gentile commessa, lasciò il negozio. La strada
principale di Nerima era particolarmente affollata soprattutto di ragazzi che
sfruttavano quell’ultimo giorno di vacanza per divertirsi prima dell’inizio della scuola.
Guardando i gruppetti di ragazzi e ragazze, Ryo si chiese
quanti di loro sarebbero poi potuti essere suoi compagni di scuola; non gli
importava granché a dire il vero, così come non gli importava della scuola.
Era un bravo studente, ma questo non significava che lo studio
l’appassionasse. Nulla lo entusiasmava granché ora,
nemmeno le arti marziali, anzi, quelle meno di tutto.
C’erano stati giorni in cui nulla gli era sembrato più
importante e in cui nulla poteva competere con l’amore per l’Arte,
ma quei tempi erano andati.
Continuava ad allenarsi con suo padre più per fargli piacere,
per dargli qualcosa a cui aggrapparsi dopo quello che
era successo, ma anche Ryoga si era reso conto che non c’era più passione in
suo figlio. E questo era uno dei motivi per cui si
erano trasferiti a Nerima, anche se il ragazzo non lo sapeva ancora.
C’erano stati anche altri motivi, cause dolorose per le quali
la famiglia Hibiki non avevo più potuto restare nella
loro vecchia casa. Ricordi soprattutto, che nessuno di loro tre poteva più
sopportare.
Tentando di scrollarsi di dosso quei pensieri, Ryo consultò la
nota scrittagli da suo padre per verificare cosa dovesse ancora comprare.
‘Uhm, non m’è rimasto molto da
prendere: devo ritirare le divise scolastiche dalla tintoria e poi posso
tornarmene a casa… Ma dove sarà la tintoria?’ si guardò intorno, ma del negozio
non c’era traccia.
Il suono di una risata lo fece voltare; alle sue spalle un
gruppetto di tre ragazze stava ridendo tra loro, ferme davanti ad una vetrina.
Una delle tre indicava qualcosa alle altre due scatenandone l’ilarità. ‘Potrei chiedere a loro…’ si disse, avvicinandole.
“Scusate.” Le tre amiche si voltarono all’unisono, guardandolo
poi curiose.
“Sì?” chiese una di loro.
“Sapreste dirmi dove si trova la tintoria Refresh?”
“Non è molto lontana da qui – una delle ragazze, proprio quella
al centro del gruppetto che aveva fatto ridere le altre, gli si avvicinò con
fare sicuro – devi andare dritto fino al banco delle ciambelle, quello lì in
fondo e poi girare a destra, la tintoria è il terzo negozio.”
Ryo annuì e s’inchinò leggermente davanti alla ragazza “Ti ringrazio, ho capito. Arrivederci.”
Lei gli sorrise di rimando, poi appena
si fu allontanato tornò dalle sue amiche rimaste qualche passo indietro.
Le due la guardarono stupite “Hotaru!”
La ragazza batté le palpebre, confusa dal tono accusatorio
della loro voce “Cosa ho fatto?” chiese, mettendosi
istintivamente sulla difensiva.
“Come cosa?!Ma l’hai visto o no?”
“Visto chi?”
Midori la prese sottobraccio “Quel ragazzo! Quello della
tintoria!”
“Quello? Sì, certo che l’ho visto, gli ho parlato, no? Che c’è di male?”
L’altra amica sospirò scuotendo la testa, carica
di rassegnazione “Sei senza speranze, Hotaru Saotome! Non hai notato che
quel ragazzo era molto carino?”
La suddetta senza speranze inarcò un sopracciglio “Eh?
Davvero?” in effetti l’aveva guardato appena…
“Proprio vero, Hitomi, è senza
speranze! Hai avuto un’occasione d’oro, razza di sciocca! Potevi
farci amicizia, era così carino!” la ragazza sospirò alzando gli occhi
al cielo con aria sognante subito imitata dall’altra, mentre perplessa, Hotaru
si limitava a fissarle. “Potevi offrirti di accompagnarlo, di mostrargli la
strada…”
“E poi strada facendo gli chiedevi come si chiamava e ce lo presentavi! Hotaru, tu non capisci proprio nulla di ragazzi!”
“Midori ha ragione, sei ancora una bambina per queste cose.”
La giovane Saotome si strinse nelle spalle, affatto toccata da
quelle parole “Siete voi che siete fissate. A me non
interessano i ragazzi per il momento e non m’interesseranno fino a quando non ne troverò uno in gamba” spiegò sicura.
Midori fece una smorfia, arricciando il grazioso naso “Come se
non lo sapessimo, ma tu sei troppo viziata in questo
senso: dove lo trovi uno che possa sembrarti appena decente con certi termini
di paragone? Se io vivessi sotto lo stesso tetto con uno
come tuo fratello, gli altri mi sembrerebbero dei primati come minimo. Arashi è
meraviglioso!” Hotaru gongolò intimamente a quel
complimento, anche se in tutta sincerità non condivideva tanto entusiasmo
riguardo suo fratello maggiore.
“E’ vero, ma dovresti comunque
cercarti un ragazzo che abbia tra le sue qualità non solo l’esser carino –
continuò Hitomi con aria saccente – Come la
gentilezza, l’educazione, la sensibilità… Quel ragazzo sembrava molto gentile.”
“Oh, basta smettetela voi due! E poi ora quel tizio se n’è
andato e probabilmente non lo vedrò più, perciò è inutile parlarne… Piuttosto,
pensavo di prenderlo proprio quel peluche – indicò
l’animaletto che prima aveva scatenato le loro risate – è davvero uguale al
nonno” disse, ridendo di nuovo.
Il peluche, un
morbido e tenero panda, teneva un cartello tra le zampette con su scritto ‘Sono
un adorabile panda’… Sarebbe stato perfetto per
donarlo a sua nonna Nodoka!
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Note:
(*)ailurofobia: è la fobia
per i gatti. Dal greco àiluros, gatto.
Carla’s corner:
Salve gente! Lo so, sono letteralmente sparita dall’etere,
nonostante avessi promesso di non farlo… sigh, che dire se non che, naturalmente, mi spiace
tantissimo? Odio non mantenere le promesse e anche se qualche scusante ce l’ho, non voglio sottrarmi alle mie responsabilità, per cui se volete scagliarmi addosso pomodori e ortaggi vari, prego, accomodatevi
pure.
In segno di buona volontà, ho pensato di
postare non uno, ma ben quattro capitoli nuovi in una
sola volta: il tanto atteso capitolo 13 di ITMH e i primi tre della nuova
fiction, L’Ultimo desiderio (titolo che nel sondaggio proposto tempo fa a
stravinto a mani basse). In realtà c’è un motivo valido per questa sbornia, per cui vi prego di non aspettarvi aggiornamenti così sostanziosi tanto spesso ^_^;. Il fatto
è che avendo disdetto il mio fornitore ufficiale di internet,
tra poco potrei restare senza linea per un po’, motivo per cui ho pensato di
inviare tutto il materiale corretto in una sola volta, ma mi raccomando,
centellinatelo con cura! Io proverò a non sparire più, ho anche rinnovato il
mio abbonamento all’intenet-point che in un recente
passato mi ha permesso di non esser tagliata fuori dal
mondo virtuale in seguito a varie rotture tecnologiche. Per ora vi auguro buona
lettura e vi chiedo ancora scusa.
Ah, dimenticavo: saluto tanto la mia beta, la somma Cri aka Tiger eye,
la dolcissima Mikki (hai ripreso il lavoro con i
marmocchi?) e tutti coloro che mi hanno commentato, anche quelli del sito di manganet:
vi assicuro che leggo con attenzione tutti i commenti postati, anche quelli per
le mie fictions più vecchie! Un saluto anche all’ultima
arrivata, si fa per dire, cioè Flavia. Dedico questi
capitoli a tutti voi che avete avuto la pazienza di aspettarmi e a tutti coloro che con gentilezza mi hanno chiesto che fine ho
fatto. Grazie, infinitamente grazie.