
L’aria
gelida di Dicembre mi sferzava il viso facendomi lacrimare gli occhi,
mentre la
mano che stringeva la maniglia della valigia stava diventando blu per
lo stato
di congelamento in cui si trovava.
Dannati
treni in ritardo.
Stavo
quasi per rientrare in sala d’attesa, quando sentii in
lontananza l’acuto
stridore dei freni del treno: pregai mentalmente che una delle porte si
fermasse per magia davanti a me, evitando di farmi usare troppo i miei
piedi
intirizziti.
Fui
miracolosamente esaudita e, dopo aver issato con enorme sforzo la mia
valigia
(che si poteva tranquillamente paragonare ad un tendone da circo, visto
il
volume) , incominciai a cercare il mio scompartimento.
Ovviamente
pagai cara la fortuna della porta, perché dovetti
attraversare tutta la
carrozza prima di arrivare sana e salva di fronte alla porta a vetri
che mi
separava dal mio posto.
Appena
entrai, una zaffata di aria bollente mi scongelò
istantaneamente tutte le
estremità.
Sui
treni non hanno un normale termostato, no, hanno una schifosissima
manopolina
che si può regolare solo su due parametri: caldo e freddo.
Gradi
Celsius, questi sconosciuti!
Immersa
nel clima equatoriale, con un giaccone, una sciarpa e una valigia che
pesava
come un autocarro, mi feci strada tra le scarpe degli altri passeggeri
e
raggiunsi il posto 17C, il mio, in una profusione di “scusi”, “le ho fatto male?”,
“...è che pesa molto...”.
Avevo
piallato tutti gli alluci dei presenti con le ruote del mio bagaglio.
Mi
odiavano già.
I
passeggeri, non gli alluci.
Appena
riuscii a liberarmi degli indumenti più pesanti, mi resi
conto che non sarei
mai riuscita a sollevare da sola quella specie di container che avevo
portato
con me: mi guardai fugacemente attorno per individuare il prescelto che
me lo avrebbe
sistemato sulla rastrelliera.
Il
mio vicino di posto, un ultraottantenne con una pancia smisurata, aveva
l’aria
di non riuscire a reggere nemmeno il giornale che teneva in mano.
La
signora con un neonato in braccio era troppo occupata a pulire la bocca
del
figlio da una melma non bene identificata.
Le
due amabili signore che si urlavano addosso mi sembravano troppo prese
dalla
loro conversazione per essersi accorte della mia situazione.
Con
mio sommo gaudio, quando girai la testa, vidi che proprio di fronte a
me c’era
un ragazzo, seminascosto dalla Gazzetta dello Sport, che poteva fare al
caso
mio: sembrava alto, in buona salute, senza pancia e senza neonati
urlanti sulle
ginocchia. Doveva essere salito appena prima di me, perché
aveva ancora il
giaccone addosso. Magari lui aveva beccato la porta giusta.
Mi
inclinai leggermente verso di lui e, con la voce più
melliflua che potessi
tirare fuori, gli chiesi se gentilmente poteva aiutarmi.
Lo
vidi abbassare leggermente il giornale, guardare prima me e poi la
valigia, e
in seguito alzarsi con uno sbuffo, caricandosi la valigia sulle spalle.
Era
molto carino, ma mi resi ben presto conto che il suo fascino non si
estendeva
anche al suo carattere visto che, prima di sedersi, mi aveva lanciato
un’occhiata scocciata che non rispecchiava per niente il
gesto caritatevole
appena mostrato.
Feci
finta di niente. L’importante
è che la
valigia sia sistemata, mi ripetei mentalmente.
Quando
il treno partì, avevo già disposto davanti a me i
passatempi che mi avrebbero
tenuta occupata per le successive quattro ore: tre numeri di Sudoku Più, una Settimana
Enigmistica e i quiz per la patente.
Decisi
di cimentarmi nei quiz, ora che il mio cervello non era ancora provato
dal
viaggio.
“In caso
di forti piogge il conducente deve: evitare...”
“Elsa!
Ma hai visto che bel bambino che c’è
qui?”
“Quale
tappino, Vilma?”
“BAMBINO,
Elsa, BAMBINO! Guarda com’è carino..”
“Eh
sì, è proprio bassino...”
“...evitare di
azionare il freno in modo
improvviso e non dosato. Vero.”
“Però
piange un sacco. Perché piange, signora? Ha fame?”
“...aumentare
la velocità di marcia, nel
rispetto dei limiti di legge. Vero. Oddio no, falso.”
“No,
è che sta mettendo i dentini...”
“Dov’è
che li mette, i fantini?”
“DENTINI,
Elsa! Ha provato con le carrube? Mia madre da piccola mi dava sempre
delle
carrube da masticare...”
“...percorrere
le forti discese con il cambio in
folle...”
“No,
beh, il pediatra mi ha detto...”
“NON
ASCOLTI I PEDIATRI! Quelli lì non sanno niente di
bambini!”
“...Vero. No,
aspetta. Falso!”
“Ma
perché dovrebbero sapere qualcosa di santini?”
Forse
il Sudoku sarebbe stato più adatto, per il momento.
Due
ore dopo avrei dato qualsiasi cosa pur di far tacere quelle due megere:
una urlava,
l’altra non sentiva, per cui la prima urlava più
forte, ma la seconda si era
dimenticata cosa doveva dire... E ricominciava tutto daccapo.
La
Mamma era sull’orlo di una crisi di nervi: non solo si doveva
sorbire gli
interventi della scimmia urlatrice e della sua amica, ma cercava
disperatamente
di calmare il pianto disperato che suo figlio insisteva a propinarci.
Il
vecchio signore dalla circonferenza addominale improponibile aveva
russato
rumorosamente per gran parte del viaggio, alternando potenti sinfonie
di
trombe, delicate arie di flauto traverso e inquietantissimi momenti di
apnea.
In alcuni momenti son stata veramente tentata di infilargli la Bic su
per il
naso per liberargli le vie aeree, ma fortunatamente il buonsenso ha
prevalso:
non avevo una penna di riserva!
L’elemento
più impassibile dello scompartimento era sicuramente il
ragazzo di fronte a me:
dopo aver esaminato attentamente tutti i gol della serie A, B, C e C1,
aveva
ripiegato accuratamente la Gazzetta e si era infilato gli auricolari
alle
orecchie, isolandosi da tutto il frastuono che imperversava attorno a
noi. Dopo
essermi resa conto che non ero in grado di concentrarmi nemmeno per
completare
anche solo il più banale CruciPuzzle, anche io avevo
ripiegato sull’ascolto di
musica dal mio tarocchissimo lettore mp3. Di esercitarmi con i quiz non
se ne
parlava: avrei sicuramente causato tamponamenti a catena per mancata
precedenza, testacoda per errata decifrazione di segnaletica verticale
e morte
prematura di pedoni che necessitavano di primo soccorso. Almeno
Beyoncé non mi
avrebbe decurtato punti dalla patente se avessi stonato qualche sua
canzone. Ad
ogni modo, non era il caso di aggiungere anche la mia ugola alla
cacofonia.
Per
circa un’ora riuscii ad astrarmi dal trambusto e il dondolio
ritmico della
carrozza mi fece lentamente assopire: mi riscossi solo quando la
batteria del
lettore mp3 mi abbandonò, lasciandomi sgomenta sul da farsi.
Mi sembrava che le
vecchiette stessero discutendo di dentiere, quindi ritenni opportuno
lasciare
gli auricolari dove si trovavano per evitare di ascoltare anche i
dettagli
macabri di quella conversazione.
Stavo
quasi per ripiombare nell’oblio, quando mi accorsi che il
telefono del ragazzo
aveva cominciato a squillare. Lui frugò nella tasca destra
dei suoi pantaloni
ed estrasse l’apparecchio, lesse con un sorriso sghembo il
nome sul display e
rispose subito dopo.
Ora,
io non sono impicciona, ma quello era l’evento più
interessante che si era
prodotto nelle ultime tre ore (se si esclude l’avvistamento
di un fagiano nei
campi grigiastri attorno a Imola), quindi era naturale che vi prestassi
una
sconsiderata e morbosa attenzione, no?
Ah,
no?
Ok,
allora. Sono un’impicciona.
“Ehi,
Giangi… Sì, sono ancora in
treno…”
Pensai
che Giangi aveva un amico con una
voce molto sexy.
“No,
il progetto lo devo ancora finire… No, solo i render della
facciata ovest… Ma
smettila, che tu per una sezione ci metti dei mesi!”
Ridacchiò,
guardando dal finestrino. Mentre lui proseguiva nella telefonata, mi
resi conto
di due cose: la prima era che molto probabilmente era uno studente di
architettura, e la seconda era che quando sorrideva gli si formavano
due
adorabili fossette ai lati della bocca.
Ovviamente
non lo guardavo direttamente in faccia, perché dovevo
mantenere l’apparenza di
una che è immersa nel mondo musicale contemporaneo: lo
osservavo dal riflesso
del finestrino, mentre simulavo un profondo interesse per le brughiere
spoglie
che passavano veloci ai lati delle rotaie.
Con
la mia poker face, la copertura era perfetta.
Ad un
certo punto finsi addirittura di battere il tempo con la mano sul
ginocchio.
“Ma
Checco l’ha richiamata poi quella là?... Cazzo
dici? Di già?... Si è dato da
fare…”
Io
adoro come gli uomini riescano ad essere concisi nei discorsi che noi
donne
svisceriamo in ore e ore di confidenze. Se avessi avuto la stessa
conversazione
con la mia migliore amica, probabilmente staremmo ancora
psicanalizzando la
scelta di scarpe del povero Checco.
“Cosa
c’entro io?... E allora? Non è mica un crimine non
avere la ragazza per più di
sei mesi…”
SINGLE.
La
mia mente percepiva solo questo concetto, che si presentava come una
scritta
lampeggiante al neon sopra i suoi capelli leggermente mossi.
“Testa
di cazzo… Lo sai che sono un bravo ragazzo! Ah ah
ah!”
BRAVO
RAGAZZO.
Ok,
no, magari questa informazione poteva non essere così certa
come la precedente,
visto la risata maliziosa che la accompagnava, ma alla mia mente non
interessava un fico secco della logica intrinseca
dell’affermazione: stava già
mettendo insieme gli elementi fossette-single-bravo
ragazzo e l’equazione che ne risultava avrebbe
avuto un esito a dir poco
interessante.
“Ma
finiscila, cosa ne sai delle mie preferenze?... Cosa c’entra
adesso lo
scompartimento?”
Dlin-dlin-dlin-dlin.
Il
discorso si faceva più interessante. Magari mi aveva
notato… Magari era troppo
timido e aspettava un mio cenno per farsi avanti…
“No…
Ti dico che… Ok, ci sono solo due nonnette isteriche, una
neomamma che ha
partorito il figlio del demonio, un signore che probabilmente
morirà asfissiato
davanti ai miei occhi e una ragazza che non prenderà mai la
patente…”
Cosa,
cosa, COSA?
“Lo
so perché fa una media di 7 errori per quiz… No,
sta ascoltando musica da ore,
secondo me le si sono fusi gli auricolari alle
orecchie…”
Lo
sforzo che feci per non muovere nemmeno un muscolo fu paragonabile a
quello
fatto da Frodo per non infilarsi l’anello di Sauron al dito.
Che
ne sapeva lui degli errori che facevo? E da che pulpito criticava
l’attività
dei miei timpani, se anche lui non aveva fatto altro praticamente da
quando
eravamo saliti?
“Se
fosse per te ci dovrei provare anche con il capotreno… Beh,
bella, diciamo
passabile…”
Sentii
qualcosa stridere all’altezza dello sterno e smisi di
respirare.
Tutte
le mie speranze di rimorchio andarono in frantumi, e cominciavo a
percepire un
distinto bruciore, in prossimità della ferita inferta al mio
orgoglio. Lui
sicuramente non aveva letto Jane Austen, altrimenti avrebbe saputo
quanto può
far male un’affermazione del genere. Diedi la colpa della
mancanza di tatto al
fatto che lui credeva che non sentissi nulla, ma questo non
diminuì la rabbia
che mi faceva stritolare il bordo della manica della felpa.
E c’è
solo una cosa peggiore di una ragazza arrabbiata.
“Sì,
dovrei arrivare tra circa un’ora, se tutto va
bene… Lo spero, visto che mi si
sono scaricate le batterie dell’iPod…”
Una
ragazza vendicativa.
Nei
venti minuti seguenti registrai ogni suo minimo gesto: dovevo essere
attenta e
non lasciarmi sfuggire nemmeno un particolare. Quando si rimise le
cuffie capii
che era giunto il momento: anche lui non stava ascoltando nulla, lo
sapevo per
certo, quindi sarebbe riuscito a distinguere ogni parola uscita dalla
mia bocca
malefica.
Presi
il cellulare e scrissi un messaggio telegrafico a Stefania,
l’amica che mi
doveva passare a prendere all’arrivo in stazione.
Chiamami subito e
ricordati
che non sono pazza.
Dopo
pochi secondi il telefono squillò e io risposi, gioviale
come se stessi
cavalcando un unicorno in mezzo agli arcobaleni.
“Stefi,
ma che bello sentirti!”
“Che bello
sentirmi un corno! Cosa è
successo?”
Feci
fatica a trattenere le risate per il tono preoccupato della mia amica,
ma mi
imposi di restare nella parte.
“Sì,
sì, tra circa tre quarti d’ora dovrei
arrivare… No, non preoccuparti per la
cena, sono troppo stanca anche solo per mangiare…”
“Oddio, non
avrai mescolato ancora l’aspirina
con la Coca Cola, vero? No perché mi ricordo bene di quando
quel Capodanno
andasti in giro mezza nuda pensando di essere un’arancia,
strillando che
volevamo sbucciarti…”
Rimanere
seria si stava rivelando difficoltoso.
“Il
viaggio è stato estenuante e la compagnia non è
delle migliori…” sospirai,
ignorando l’obiezione della mia amica.
Il
ragazzo si sgranchì una gamba, ma la sua espressione non
cambiò.
“Ok, mi
dispiace per il viaggio ma…”
“Beh,
ci sono due vecchie che non la smettono di gracchiare come corvi, una
signora
che sta rimpiangendo di non aver guardato la tv quella sera di qualche
mese fa,
un signore che andrebbe intubato e un ragazzo che non sa nemmeno
completare il
Sudoku della Gazzetta dello Sport.”
In un
nanosecondo aveva spostato lo sguardo su di me: lo vedevo ancora dal
riflesso,
e non avevo la minima intenzione di guardarlo direttamente negli occhi.
Lui, al
contrario di me, faticava a dissimulare il suo interesse per quello che
dicevo.
“In-intubare?
Oh Signore! Va beh, non
riuscire a completare uno stupido gioco non mi sembra un
grave… Ma che dico? E tu
che diavolo stai blaterando?”
“Esatto…
Ecco, parlato è una
parola grossa…
Gli ho chiesto di mettermi su la valigia e dalla sua faccia sembrava
che gli volessi
estorcere l’IBAN del conto corrente.”
Il
ragazzo si mosse nervoso sul sedile, schiarendosi la gola un paio di
volte.
“Frena, frena,
frena. Ho capito, c’entra un
ragazzo. È carino, almeno?”
Benedissi mentalmente la perspicacia di Stefania che, non volendo,
aveva
anticipato la mia prossima battuta.
“Beh,
carino, diciamo passabile…”
Feci
leva su tutto l’autocontrollo che mi era rimasto per non
incrociare il suo
sguardo incredulo: la sua bocca era semi aperta e le sopracciglia erano
sollevate, ma l’espressione che ne risultava non intaccava
minimamente il suo
fascino, purtroppo.
“Brutta
baldracca che non sei altro! Mi hai
fatto spaventare. Ok, ho capito il gioco. Non puoi spiegare. Cerca di
rispondermi coerentemente, però, non come una sotto
barbiturici…”
Mi
scappò una risata, ma decisi che non avrebbe rovinato il mio
piano e non me ne
preoccupai.
“Dunque, se hai
detto ‘passabile’ significa
che come minimo è un manzo da traino…”
“Non
esageriamo…”
“Ok, allora un
gnocco senza ritorno…”
“Ci
sei quasi…”
“Scopabile?”
“Beh,
quello sicuramente.”
“Sgualdrina!”
Mi
concessi un’altra risata, senza però staccare gli
occhi dal riflesso sul vetro.
“Ora sono
troppo curiosa! Descrivimelo! Occhi?”
Pensai
che, come ringraziamento per esser stata così in sintonia
con il mio piano
malvagio, avrei dovuto soddisfare la curiosità della mia
amica come potevo.
“Sai
che ho comprato una nuova felpa da Terranova? È verde ed
è bellissima…”
“Ricevuto,
occhi verdi da gattone. Ottimo.
Capelli?”
“No,
quella nera l’ho regalata a mia mamma…”
“Wow, un bel
Bronzo di Riace, eh? Moro e
occhi verdi… E che mi dici della bocca?”
chiese maliziosamente Stefania.
Non
avevo una bella visuale sulla sua bocca, perché una delle
luci dello
scompartimento creava un riflesso che confondeva leggermente i suoi
contorni.
Approfittando del fatto che aveva spostato il suo sguardo altrove,
sbirciai
nella sua direzione.
I
contorni delle sue labbra non erano molto marcati…
“Beh,
ecco…”
… e
questo conferiva loro un aspetto pieno e apparentemente morbido,
nonostante non
fossero carnose o sporgenti.
“Sono… ehm…
belle.”
Come
se mi avesse letto nel pensiero, il bel giovane si
mordicchiò l’angolo del
labbro inferiore, assumendo un’espressione curiosamente
pensierosa.
“Eh, la mia
Gin! Ha sempre tutti i culi del
mondo! Immagina quante belle cosette potrebbe farti con quella
boccuccia di
rosa…”
Mentre
la mia amica ridacchiava, mi ritrovai veramente a fantasticare su
quella bocca,
complice il rilassamento prodotto da tutte quelle risate. Se lo
scompartimento
fosse stato vuoto, avrebbe potuto baciarmi per tutta la durata del
viaggio,
prima sulle labbra, poi sul collo, sulla clavicola, sul…
Cazzo.
No,
volevo dire, cazzo!
Mi
stava guardando. Lui mi stava
guardando.
Sentii
la mia copertura sgretolarsi nell’esatto istante in cui le
mie guance
incominciarono a bruciare. Per una frazione di secondo i miei occhi
trasmisero
ai suoi tutta la sorpresa, l’imbarazzo e il disagio che
quella situazione mi
stava creando. Distolsi immediatamente lo sguardo, ben consapevole di
aver
abbassato fin troppo la guardia, e tentai di racimolare un minimo di
autocontrollo.
“Ehi, e che mi
dici del culo? È di bronzo
come il resto?”
Biascicai
un saluto frettoloso e chiusi nervosamente la conversazione.
Appena
prima di impormi una serrata meditazione zen (che non prevedeva
fantasie porche
sulla bocca altrui) diedi un ultimo, rapido sguardo al riflesso sul
finestrino.
Mi
stava ancora fissando.
E un
angolo della sua dannatissima bocca era leggermente alzato.
Stava…sorridendo!
La
mia dignità era irrimediabilmente compromessa.
Trascorsi
la mezz’ora successiva nel tentativo di mettere in pratica la
comunicazione tra
universi paralleli: volevo creare un buco nero proprio sotto ai miei
piedi,
saltarci dentro, e ritrovarmi su Proxima Centauri a contare gli
asteroidi che
passavano di là. Inutile dire che l’unica cosa che
potessi fare, fosse fingere
di dormire.
Con
scarsissimi risultati. Benché tenessi gli occhi chiusi,
l’immagine di quel
sorrisetto compiaciuto non abbandonava la mia mente. Come avevo fatto
ad essere
così stupida? Se alle recite dell’asilo mi avevano
fatto sempre fare ruoli di
ortaggi, un motivo ci doveva essere.
Quando
sentii le ruote stridere sulle rotaie, capii che il supplizio era
finalmente
terminato.
La
Mamma raccolse calzini, berretti, biberon, Pampers e bambini dal suo
sedile, le
vecchie si mummificarono sotto vari strati di scialli e cappotti e
uscirono
sbraitando, il signore dal diametro equatoriale emise un sonoro sbuffo
e
continuò a rantolare. Non osai guardare cosa stava facendo
Mister Simpatia,
davanti a me: mi alzai velocemente e mi voltai verso la rastrelliera,
decisa a
tirare giù quella maledetta valigia con le mie sole forze,
anche a costo di
comprimermi due vertebre lombari.
Con
enormi sforzi riuscii a spostarla verso di me, ma quando mi resi conto
che se
mi fosse caduta addosso da quell’altezza mi avrebbe
quantomeno resa invalida a
vita, era tropo tardi.
Chiusi
gli occhi e pregai che i due mesi di palestra che avevo frequentato
l’anno
prima mi avessero fornito la forza necessaria per evitare danni
permanenti al
mio corpo.
Proprio
quando ero pronta ad accogliere le fratture scomposte come punizione
divina,
una leggera spinta mi fece barcollare verso destra; aprii di colpo gli
occhi,
trovando al mio fianco il Bronzo di Riace che appoggiava il mio
container sul
sedile.
Lo guardai
come una triglia e non riuscii a spiaccicare parola.
Gli
avrei dovuto dire grazie?
Magari
‘Grazie, stronzo’ sarebbe stato più
appropriato.
“A
scuola guida non ti insegnano a ringraziare quando qualcuno ti fa un
favore?” mi
chiese, riproponendomi il suo odiosissimo sorrisetto.
Rettifico.
Grandissimo stronzo.
“Si
dà il caso che non prenderò mai la patente,
quindi non sono ancora tenuta a
mettere in pratica gli insegnamenti.”
Era
inutile far finta di non aver capito che lui aveva già
smascherato il mio
giochetto. Sarei sembrata ridicola, e sinceramente me la cavavo meglio
nelle
battute al vetriolo che non nella pantomima.
Afferrai
il manico del bagaglio e mi accinsi a trascinarlo fuori, quando una
mano fresca
si sovrappose alla mia e lo sollevò verso l’alto.
“Lascia,
faccio io. Non vorrei che ti slogassi qualche dito. Poi come fai a
completare i
Sudoku della Settimana Enigmistica?”
Mi
lasciò senza parole, con un’espressione ebete
sulla faccia. Si diresse verso la
porta dello scompartimento, poi sparì nel corridoio. Mi
infilai velocemente il
giaccone e mi precipitai fuori.
Aveva
appoggiato la valigia a terra e si stava sistemando una sciarpa nera al
collo.
Proprio
mentre stavo per aprire la bocca per chiedergli il motivo della sua
esistenza,
mi squillò il cellulare. Era un messaggio di Stefania.
Non trovo parcheggio,
tardo un
po’.
“Vaffanculo.”
borbottai.
“Beh,
preferivo un semplice ‘grazie’, ma mi
accontenterò.”
Alzai
lo sguardo verso il tizio di fronte a me. Dalla bocca, quella sua
stracazzo di
bocca, usciva un leggero vapore bianco, che si dissolveva velocemente
nella
fredda aria invernale. Improvvisamente mi accorsi di avere freddo: con
molta
probabilità l’adrenalina che mi scorreva in corpo
fino a qualche attimo prima
aveva esaurito il suo effetto.
“Senti…
coso…”
“Coso?
Solamente nei film degli anni ’80 dicono ancora
‘coso’! Se proprio vuoi
insultarmi, almeno usa il mio nome. Mi chiamo Giacomo.”
“Va
bene. Senti, Giacomo… Dovresti proprio… Ecco! Lo
sapevo! – esclamai, esasperata
- Ora che so il tuo
nome non riesco più
a mandarti a fanculo!”
Ruppe
in una risata, che enfatizzò le sue fossette, e rispose
“Beh, visto che mi ci
hai già mandato una volta, non posso che esserne
contento!”
Mio
malgrado, mi scappò un sorriso.
“La
prima volta non era per te - replicai - Era per
l’amica che doveva venire a
raccattarmi. È
in ritardo.”
“Ne
sono contento.”
“Per
il vaffanculo o per il ritardo?”
“Per
entrambi.” rispose, tranquillo.
“Capisco
il vaffanculo, ma la mia amica cosa c’entra?”
domandai, dubbiosa.
“Così
ho la scusa per trascinare la cassa da morto che ti porti dietro in un
posto
più caldo. Tipo un bar.”
Boccheggiai.
Avevo
capito bene?
“Non
c’è bisogno che mi porti la valigia. –
balbettai, incerta - Non
ho subìto mutilazioni, riesco benissimo a
spostarla da sola.”
“Lo
so, ma sono un bravo ragazzo,
ricordi?”
Avvampai.
Non sapevo se era più per la sua proposta o per
l’ennesima frase che provava
che ero una terribile impicciona che origliava le conversazioni
telefoniche
altrui.
“Senti,
- riprese - io mi rifiuto di chiamarti ‘cosa’.
Posso sapere il tuo nome?
Prometto che poi ti consegno la mia tessera sanitaria, il pin del mio
cellulare
e la password del computer. E l’IBAN, ovviamente.”
Mi
ritrovai nuovamente a ridere. Non mi aspettavo davvero che, sotto il
primo
strato di stronzaggine, fosse così simpatico e alla mano.
“Mi
chiamo Ginevra. E mi sto lentamente e inesorabilmente
congelando.”
“Vieni,
fredda Ginevra del regno di Camelot. Ti offrirò un
caffè, mentre aspetti la tua
ancella.”
Sollevò
nuovamente il mio tir in miniatura e si diresse verso il bar della
stazione. Lo
seguii, stringendomi nella giacca e pensando che quella era la
situazione più
assurda che mi fosse mai capitata. Ok, magari quella in cui credevo di
essere
un’arancia lo era di più, ma non ho ricordi molto
nitidi di quella esperienza,
per fortuna.
Il
cellulare, nella mia tasca, suonò ancora.
Toccagli il culo, ora che
ha
le mani impegnate!
Mi
guardai attorno furibonda: altro che parcheggio, Stefania era
già in stazione e
aveva visto tutto! Gliela avrei fatta pagare, oh, eccome se gliela
avrei fatta
pagare! Si poteva anche scordare che io le prestassi quella borsa
che…
“Prima
le signore!”
Inaspettatamente
galante.
Ragazzo
dalle fossette batte ragazza impicciona uno a zero.
Come
avevo fatto a passare dalla sete di vendetta all’ammirazione
incondizionata?
Quelle quattro ore mi avevano rimbecillita del tutto?
Eravamo
arrivati di fronte alla porta del bar e Giacomo
non smetteva di guardarmi con quei suoi occhioni da gatto. E quel suo
sorrisetto. E quella barba leggera che…
Ok, Ginevra, ripigliati.
“Senti,
io non so perché sono venuta qui con te, se non per tentare
di riappropriarmi
della mia valigia…” sputai, con la delicatezza di
un camion rimorchio. Il suo
sorriso si smorzò e mi guardò con espressione
delusa.
Sono
proprio un manico di bastone, io.
Deglutii,
e mi sforzai di proseguire.
“Però,
ecco, volevo…ringraziarti. Sì, insomma, per
prima. La valigia e tutto il resto.
Sei stato…carino. Credo.”
Avevo
combinato fin troppi casini per permettermi di rimanere stronza.
Inarcò
nuovamente le sue labbra peccaminose, regalandomi un sorriso che fece
aumentare
di qualche tacca il mio termostato personale che, a differenza di
quello di
Trenitalia, i gradi Celsius li conosceva eccome.
“Carino?
Beh dai, non esagerare – replicò, nascondendo un
leggero imbarazzo - Diciamo… passabile.”
Angolo autrice
1.
Il
Bronzo di Riace, esteticamente parlando, esiste veramente. Lo incontro
tutte le
mattine sul bus 6, si siede sempre dietro di me. Purtroppo son quasi
certa di
avere come minimo sette anni in più di lui, quindi cerco di
non fantasticare troppo
sulla sua bocca per evitare di sentirmi più pervertita di
quanto già non sia.
2.
Anche
Stefania esiste veramente, ed è molto peggio di questa qua.
Temo il momento in
cui mi verrà veramente a prendere in stazione.
3.
Questa
one shot è nata tre anni fa, dopo un viaggio in treno per
Milano, in cui ero
davvero seduta di fronte ad un ragazzo che era gran bel figliuolo, mi
sembra.
Ovviamente non è successo nulla di quanto ho scritto,
ahimè. La cosa surreale è
che dopo aver scritto le prime due pagine l’avevo lasciata
incompiuta, fino
all’altro giorno, in cui ho pensato che avrei potuto
completarla. Mi sono
ricordata dell’episodio che l’ha ispirata solo
ADESSO, ovvero mentre stavo
scrivendo queste note. Mi è anche venuto in mente che avevo
perfino rubato una
foto al ragazzo che ho ammirato per quattro ore consecutive.
L’ho ritrovata.
Era
davvero un gran bel
figliuolo.
Ps. Si ringrazia MedOrMad
per l’incoraggiamento e il titolo
semplicemente geniale.