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Autore: SoFreakingBecky    12/02/2013    14 recensioni
“Ora, io non sono impicciona, ma quello era l’evento più interessante che si era prodotto nelle ultime tre ore, quindi era naturale che vi prestassi una sconsiderata e morbosa attenzione, no?”
*
*
Un viaggio in treno, una ragazza annoiata, un ragazzo al telefono.
E il vizio di origliare senza vergogna.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Origlio e Pregiudizio




L’aria gelida di Dicembre mi sferzava il viso facendomi lacrimare gli occhi, mentre la mano che stringeva la maniglia della valigia stava diventando blu per lo stato di congelamento in cui si trovava.

Dannati treni in ritardo.

Stavo quasi per rientrare in sala d’attesa, quando sentii in lontananza l’acuto stridore dei freni del treno: pregai mentalmente che una delle porte si fermasse per magia davanti a me, evitando di farmi usare troppo i miei piedi intirizziti.

Fui miracolosamente esaudita e, dopo aver issato con enorme sforzo la mia valigia (che si poteva tranquillamente paragonare ad un tendone da circo, visto il volume) , incominciai a cercare il mio scompartimento.

Ovviamente pagai cara la fortuna della porta, perché dovetti attraversare tutta la carrozza prima di arrivare sana e salva di fronte alla porta a vetri che mi separava dal mio posto.

Appena entrai, una zaffata di aria bollente mi scongelò istantaneamente tutte le estremità.

Sui treni non hanno un normale termostato, no, hanno una schifosissima manopolina che si può regolare solo su due parametri: caldo e freddo.

Gradi Celsius, questi sconosciuti!

Immersa nel clima equatoriale, con un giaccone, una sciarpa e una valigia che pesava come un autocarro, mi feci strada tra le scarpe degli altri passeggeri e raggiunsi il posto 17C, il mio, in una profusione di “scusi”, “le ho fatto male?”, “...è che pesa molto...”.

Avevo piallato tutti gli alluci dei presenti con le ruote del mio bagaglio.

Mi odiavano già.

I passeggeri, non gli alluci.

Appena riuscii a liberarmi degli indumenti più pesanti, mi resi conto che non sarei mai riuscita a sollevare da sola quella specie di container che avevo portato con me: mi guardai fugacemente attorno per individuare il prescelto che me lo avrebbe sistemato sulla rastrelliera.

Il mio vicino di posto, un ultraottantenne con una pancia smisurata, aveva l’aria di non riuscire a reggere nemmeno il giornale che teneva in mano.

La signora con un neonato in braccio era troppo occupata a pulire la bocca del figlio da una melma non bene identificata.

Le due amabili signore che si urlavano addosso mi sembravano troppo prese dalla loro conversazione per essersi accorte della mia situazione.

Con mio sommo gaudio, quando girai la testa, vidi che proprio di fronte a me c’era un ragazzo, seminascosto dalla Gazzetta dello Sport, che poteva fare al caso mio: sembrava alto, in buona salute, senza pancia e senza neonati urlanti sulle ginocchia. Doveva essere salito appena prima di me, perché aveva ancora il giaccone addosso. Magari lui aveva beccato la porta giusta.

Mi inclinai leggermente verso di lui e, con la voce più melliflua che potessi tirare fuori, gli chiesi se gentilmente poteva aiutarmi.

Lo vidi abbassare leggermente il giornale, guardare prima me e poi la valigia, e in seguito alzarsi con uno sbuffo, caricandosi la valigia sulle spalle.

Era molto carino, ma mi resi ben presto conto che il suo fascino non si estendeva anche al suo carattere visto che, prima di sedersi, mi aveva lanciato un’occhiata scocciata che non rispecchiava per niente il gesto caritatevole appena mostrato.

Feci finta di niente. L’importante è che la valigia sia sistemata, mi ripetei mentalmente.

Quando il treno partì, avevo già disposto davanti a me i passatempi che mi avrebbero tenuta occupata per le successive quattro ore: tre numeri di Sudoku Più, una Settimana Enigmistica  e i quiz per la patente.

Decisi di cimentarmi nei quiz, ora che il mio cervello non era ancora provato dal viaggio.

 “In caso di forti piogge il conducente deve: evitare...”

“Elsa! Ma hai visto che bel bambino che c’è qui?”

“Quale tappino, Vilma?”

“BAMBINO, Elsa, BAMBINO! Guarda com’è carino..”

“Eh sì, è proprio bassino...”

“...evitare di azionare il freno in modo improvviso e non dosato. Vero.”

“Però piange un sacco. Perché piange, signora? Ha fame?”

“...aumentare la velocità di marcia, nel rispetto dei limiti di legge. Vero. Oddio no, falso.”

“No, è che sta mettendo i dentini...”

“Dov’è che li mette, i fantini?”

“DENTINI, Elsa! Ha provato con le carrube? Mia madre da piccola mi dava sempre delle carrube da masticare...”

“...percorrere le forti discese con il cambio in folle...”

“No, beh, il pediatra mi ha detto...”

“NON ASCOLTI I PEDIATRI! Quelli lì non sanno niente di bambini!”

“...Vero. No, aspetta. Falso!

“Ma perché dovrebbero sapere qualcosa di santini?”

Forse il Sudoku sarebbe stato più adatto, per il momento.

 

Due ore dopo avrei dato qualsiasi cosa pur di far tacere quelle due megere: una urlava, l’altra non sentiva, per cui la prima urlava più forte, ma la seconda si era dimenticata cosa doveva dire... E ricominciava tutto daccapo.

La Mamma era sull’orlo di una crisi di nervi: non solo si doveva sorbire gli interventi della scimmia urlatrice e della sua amica, ma cercava disperatamente di calmare il pianto disperato che suo figlio insisteva a propinarci.

Il vecchio signore dalla circonferenza addominale improponibile aveva russato rumorosamente per gran parte del viaggio, alternando potenti sinfonie di trombe, delicate arie di flauto traverso e inquietantissimi momenti di apnea. In alcuni momenti son stata veramente tentata di infilargli la Bic su per il naso per liberargli le vie aeree, ma fortunatamente il buonsenso ha prevalso: non avevo una penna di riserva!

L’elemento più impassibile dello scompartimento era sicuramente il ragazzo di fronte a me: dopo aver esaminato attentamente tutti i gol della serie A, B, C e C1, aveva ripiegato accuratamente la Gazzetta e si era infilato gli auricolari alle orecchie, isolandosi da tutto il frastuono che imperversava attorno a noi. Dopo essermi resa conto che non ero in grado di concentrarmi nemmeno per completare anche solo il più banale CruciPuzzle, anche io avevo ripiegato sull’ascolto di musica dal mio tarocchissimo lettore mp3. Di esercitarmi con i quiz non se ne parlava: avrei sicuramente causato tamponamenti a catena per mancata precedenza, testacoda per errata decifrazione di segnaletica verticale e morte prematura di pedoni che necessitavano di primo soccorso. Almeno Beyoncé non mi avrebbe decurtato punti dalla patente se avessi stonato qualche sua canzone. Ad ogni modo, non era il caso di aggiungere anche la mia ugola alla cacofonia.

Per circa un’ora riuscii ad astrarmi dal trambusto e il dondolio ritmico della carrozza mi fece lentamente assopire: mi riscossi solo quando la batteria del lettore mp3 mi abbandonò, lasciandomi sgomenta sul da farsi. Mi sembrava che le vecchiette stessero discutendo di dentiere, quindi ritenni opportuno lasciare gli auricolari dove si trovavano per evitare di ascoltare anche i dettagli macabri di quella conversazione.

Stavo quasi per ripiombare nell’oblio, quando mi accorsi che il telefono del ragazzo aveva cominciato a squillare. Lui frugò nella tasca destra dei suoi pantaloni ed estrasse l’apparecchio, lesse con un sorriso sghembo il nome sul display e rispose subito dopo.

Ora, io non sono impicciona, ma quello era l’evento più interessante che si era prodotto nelle ultime tre ore (se si esclude l’avvistamento di un fagiano nei campi grigiastri attorno a Imola), quindi era naturale che vi prestassi una sconsiderata e morbosa attenzione, no?

Ah, no?

Ok, allora. Sono un’impicciona.

“Ehi, Giangi… Sì, sono ancora in treno…”

Pensai che Giangi aveva un amico con una voce molto sexy.

“No, il progetto lo devo ancora finire… No, solo i render della facciata ovest… Ma smettila, che tu per una sezione ci metti dei mesi!”

Ridacchiò, guardando dal finestrino. Mentre lui proseguiva nella telefonata, mi resi conto di due cose: la prima era che molto probabilmente era uno studente di architettura, e la seconda era che quando sorrideva gli si formavano due adorabili fossette ai lati della bocca.

Ovviamente non lo guardavo direttamente in faccia, perché dovevo mantenere l’apparenza di una che è immersa nel mondo musicale contemporaneo: lo osservavo dal riflesso del finestrino, mentre simulavo un profondo interesse per le brughiere spoglie che passavano veloci ai lati delle rotaie.

Con la mia poker face, la copertura era perfetta.

Ad un certo punto finsi addirittura di battere il tempo con la mano sul ginocchio.

“Ma Checco l’ha richiamata poi quella là?... Cazzo dici? Di già?... Si è dato da fare…”

Io adoro come gli uomini riescano ad essere concisi nei discorsi che noi donne svisceriamo in ore e ore di confidenze. Se avessi avuto la stessa conversazione con la mia migliore amica, probabilmente staremmo ancora psicanalizzando la scelta di scarpe del povero Checco.

“Cosa c’entro io?... E allora? Non è mica un crimine non avere la ragazza per più di sei mesi…”

SINGLE.

La mia mente percepiva solo questo concetto, che si presentava come una scritta lampeggiante al neon sopra i suoi capelli leggermente mossi.

“Testa di cazzo… Lo sai che sono un bravo ragazzo! Ah ah ah!”

BRAVO RAGAZZO.

Ok, no, magari questa informazione poteva non essere così certa come la precedente, visto la risata maliziosa che la accompagnava, ma alla mia mente non interessava un fico secco della logica intrinseca dell’affermazione: stava già mettendo insieme gli elementi fossette-single-bravo ragazzo e l’equazione che ne risultava avrebbe avuto un esito a dir poco interessante.

“Ma finiscila, cosa ne sai delle mie preferenze?... Cosa c’entra adesso lo scompartimento?”

Dlin-dlin-dlin-dlin.

Il discorso si faceva più interessante. Magari mi aveva notato… Magari era troppo timido e aspettava un mio cenno per farsi avanti…

“No… Ti dico che… Ok, ci sono solo due nonnette isteriche, una neomamma che ha partorito il figlio del demonio, un signore che probabilmente morirà asfissiato davanti ai miei occhi e una ragazza che non prenderà mai la patente…”

Cosa, cosa, COSA?

“Lo so perché fa una media di 7 errori per quiz… No, sta ascoltando musica da ore, secondo me le si sono fusi gli auricolari alle orecchie…”  

Lo sforzo che feci per non muovere nemmeno un muscolo fu paragonabile a quello fatto da Frodo per non infilarsi l’anello di Sauron al dito.

Che ne sapeva lui degli errori che facevo? E da che pulpito criticava l’attività dei miei timpani, se anche lui non aveva fatto altro praticamente da quando eravamo saliti?

“Se fosse per te ci dovrei provare anche con il capotreno… Beh, bella, diciamo passabile…”

Sentii qualcosa stridere all’altezza dello sterno e smisi di respirare.

Tutte le mie speranze di rimorchio andarono in frantumi, e cominciavo a percepire un distinto bruciore, in prossimità della ferita inferta al mio orgoglio. Lui sicuramente non aveva letto Jane Austen, altrimenti avrebbe saputo quanto può far male un’affermazione del genere. Diedi la colpa della mancanza di tatto al fatto che lui credeva che non sentissi nulla, ma questo non diminuì la rabbia che mi faceva stritolare il bordo della manica della felpa.

E c’è solo una cosa peggiore di una ragazza arrabbiata.

“Sì, dovrei arrivare tra circa un’ora, se tutto va bene… Lo spero, visto che mi si sono scaricate le batterie dell’iPod…”

Una ragazza vendicativa.

 

 

Nei venti minuti seguenti registrai ogni suo minimo gesto: dovevo essere attenta e non lasciarmi sfuggire nemmeno un particolare. Quando si rimise le cuffie capii che era giunto il momento: anche lui non stava ascoltando nulla, lo sapevo per certo, quindi sarebbe riuscito a distinguere ogni parola uscita dalla mia bocca malefica.

Presi il cellulare e scrissi un messaggio telegrafico a Stefania, l’amica che mi doveva passare a prendere all’arrivo in stazione.

Chiamami subito e ricordati che non sono pazza.

Dopo pochi secondi il telefono squillò e io risposi, gioviale come se stessi cavalcando un unicorno in mezzo agli arcobaleni.

“Stefi, ma che bello sentirti!”

Che bello sentirmi un corno! Cosa è successo?”

Feci fatica a trattenere le risate per il tono preoccupato della mia amica, ma mi imposi di restare nella parte.

“Sì, sì, tra circa tre quarti d’ora dovrei arrivare… No, non preoccuparti per la cena, sono troppo stanca anche solo per mangiare…”

Oddio, non avrai mescolato ancora l’aspirina con la Coca Cola, vero? No perché mi ricordo bene di quando quel Capodanno andasti in giro mezza nuda pensando di essere un’arancia, strillando che volevamo sbucciarti…”

Rimanere seria si stava rivelando difficoltoso.

“Il viaggio è stato estenuante e la compagnia non è delle migliori…” sospirai, ignorando l’obiezione della mia amica.

Il ragazzo si sgranchì una gamba, ma la sua espressione non cambiò.

Ok, mi dispiace per il viaggio ma…”

“Beh, ci sono due vecchie che non la smettono di gracchiare come corvi, una signora che sta rimpiangendo di non aver guardato la tv quella sera di qualche mese fa, un signore che andrebbe intubato e un ragazzo che non sa nemmeno completare il Sudoku della Gazzetta dello Sport.”

In un nanosecondo aveva spostato lo sguardo su di me: lo vedevo ancora dal riflesso, e non avevo la minima intenzione di guardarlo direttamente negli occhi. Lui, al contrario di me, faticava a dissimulare il suo interesse per quello che dicevo.

In-intubare? Oh Signore! Va beh, non riuscire a completare uno stupido gioco non mi sembra un grave… Ma che dico? E tu che diavolo stai blaterando?

“Esatto… Ecco, parlato è una parola grossa… Gli ho chiesto di mettermi su la valigia e dalla sua faccia sembrava che gli volessi estorcere l’IBAN del conto corrente.”

Il ragazzo si mosse nervoso sul sedile, schiarendosi la gola un paio di volte.

Frena, frena, frena. Ho capito, c’entra un ragazzo. È carino, almeno?
Benedissi mentalmente la perspicacia di Stefania che, non volendo, aveva anticipato la mia prossima battuta.

“Beh, carino, diciamo passabile…”

Feci leva su tutto l’autocontrollo che mi era rimasto per non incrociare il suo sguardo incredulo: la sua bocca era semi aperta e le sopracciglia erano sollevate, ma l’espressione che ne risultava non intaccava minimamente il suo fascino, purtroppo.

Brutta baldracca che non sei altro! Mi hai fatto spaventare. Ok, ho capito il gioco. Non puoi spiegare. Cerca di rispondermi coerentemente, però, non come una sotto barbiturici…

Mi scappò una risata, ma decisi che non avrebbe rovinato il mio piano e non me ne preoccupai.

Dunque, se hai detto ‘passabile’ significa che come minimo è un manzo da traino…

“Non esageriamo…”

Ok, allora un gnocco senza ritorno…

“Ci sei quasi…”

Scopabile?

“Beh, quello sicuramente.”

Sgualdrina!

Mi concessi un’altra risata, senza però staccare gli occhi dal riflesso sul vetro.

Ora sono troppo curiosa! Descrivimelo! Occhi?

Pensai che, come ringraziamento per esser stata così in sintonia con il mio piano malvagio, avrei dovuto soddisfare la curiosità della mia amica come potevo.

“Sai che ho comprato una nuova felpa da Terranova? È verde ed è bellissima…”

Ricevuto, occhi verdi da gattone. Ottimo. Capelli?

“No, quella nera l’ho regalata a mia mamma…”

Wow, un bel Bronzo di Riace, eh? Moro e occhi verdi… E che mi dici della bocca?” chiese maliziosamente Stefania.

Non avevo una bella visuale sulla sua bocca, perché una delle luci dello scompartimento creava un riflesso che confondeva leggermente i suoi contorni. Approfittando del fatto che aveva spostato il suo sguardo altrove, sbirciai nella sua direzione.

I contorni delle sue labbra non erano molto marcati…

“Beh, ecco…”

… e questo conferiva loro un aspetto pieno e apparentemente morbido, nonostante non fossero carnose o sporgenti.

“Sono… ehm… belle.”

Come se mi avesse letto nel pensiero, il bel giovane si mordicchiò l’angolo del labbro inferiore, assumendo un’espressione curiosamente pensierosa.

Eh, la mia Gin! Ha sempre tutti i culi del mondo! Immagina quante belle cosette potrebbe farti con quella boccuccia di rosa…”

Mentre la mia amica ridacchiava, mi ritrovai veramente a fantasticare su quella bocca, complice il rilassamento prodotto da tutte quelle risate. Se lo scompartimento fosse stato vuoto, avrebbe potuto baciarmi per tutta la durata del viaggio, prima sulle labbra, poi sul collo, sulla clavicola, sul…

Cazzo.

No, volevo dire, cazzo!

Mi stava guardando. Lui mi stava guardando.

Sentii la mia copertura sgretolarsi nell’esatto istante in cui le mie guance incominciarono a bruciare. Per una frazione di secondo i miei occhi trasmisero ai suoi tutta la sorpresa, l’imbarazzo e il disagio che quella situazione mi stava creando. Distolsi immediatamente lo sguardo, ben consapevole di aver abbassato fin troppo la guardia, e tentai di racimolare un minimo di autocontrollo.

Ehi, e che mi dici del culo? È di bronzo come il resto?

Biascicai un saluto frettoloso e chiusi nervosamente la conversazione.

Appena prima di impormi una serrata meditazione zen (che non prevedeva fantasie porche sulla bocca altrui) diedi un ultimo, rapido sguardo al riflesso sul finestrino.

Mi stava ancora fissando.

E un angolo della sua dannatissima bocca era leggermente alzato. Stava…sorridendo!

La mia dignità era irrimediabilmente compromessa.

 

 

Trascorsi la mezz’ora successiva nel tentativo di mettere in pratica la comunicazione tra universi paralleli: volevo creare un buco nero proprio sotto ai miei piedi, saltarci dentro, e ritrovarmi su Proxima Centauri a contare gli asteroidi che passavano di là. Inutile dire che l’unica cosa che potessi fare, fosse fingere di dormire.

Con scarsissimi risultati. Benché tenessi gli occhi chiusi, l’immagine di quel sorrisetto compiaciuto non abbandonava la mia mente. Come avevo fatto ad essere così stupida? Se alle recite dell’asilo mi avevano fatto sempre fare ruoli di ortaggi, un motivo ci doveva essere.

Quando sentii le ruote stridere sulle rotaie, capii che il supplizio era finalmente terminato.

La Mamma raccolse calzini, berretti, biberon, Pampers e bambini dal suo sedile, le vecchie si mummificarono sotto vari strati di scialli e cappotti e uscirono sbraitando, il signore dal diametro equatoriale emise un sonoro sbuffo e continuò a rantolare. Non osai guardare cosa stava facendo Mister Simpatia, davanti a me: mi alzai velocemente e mi voltai verso la rastrelliera, decisa a tirare giù quella maledetta valigia con le mie sole forze, anche a costo di comprimermi due vertebre lombari.

Con enormi sforzi riuscii a spostarla verso di me, ma quando mi resi conto che se mi fosse caduta addosso da quell’altezza mi avrebbe quantomeno resa invalida a vita, era tropo tardi.

Chiusi gli occhi e pregai che i due mesi di palestra che avevo frequentato l’anno prima mi avessero fornito la forza necessaria per evitare danni permanenti al mio corpo.

Proprio quando ero pronta ad accogliere le fratture scomposte come punizione divina, una leggera spinta mi fece barcollare verso destra; aprii di colpo gli occhi, trovando al mio fianco il Bronzo di Riace che appoggiava il mio container sul sedile.

Lo guardai come una triglia e non riuscii a spiaccicare parola.

Gli avrei dovuto dire grazie?

Magari ‘Grazie, stronzo’ sarebbe stato più appropriato.

“A scuola guida non ti insegnano a ringraziare quando qualcuno ti fa un favore?” mi chiese, riproponendomi il suo odiosissimo sorrisetto.

Rettifico. Grandissimo stronzo.

“Si dà il caso che non prenderò mai la patente, quindi non sono ancora tenuta a mettere in pratica gli insegnamenti.”

Era inutile far finta di non aver capito che lui aveva già smascherato il mio giochetto. Sarei sembrata ridicola, e sinceramente me la cavavo meglio nelle battute al vetriolo che non nella pantomima.

Afferrai il manico del bagaglio e mi accinsi a trascinarlo fuori, quando una mano fresca si sovrappose alla mia e lo sollevò verso l’alto.

“Lascia, faccio io. Non vorrei che ti slogassi qualche dito. Poi come fai a completare i Sudoku della Settimana Enigmistica?”

Mi lasciò senza parole, con un’espressione ebete sulla faccia. Si diresse verso la porta dello scompartimento, poi sparì nel corridoio. Mi infilai velocemente il giaccone e mi precipitai fuori.

Aveva appoggiato la valigia a terra e si stava sistemando una sciarpa nera al collo.

Proprio mentre stavo per aprire la bocca per chiedergli il motivo della sua esistenza, mi squillò il cellulare. Era un messaggio di Stefania.

Non trovo parcheggio, tardo un po’.

“Vaffanculo.” borbottai.

“Beh, preferivo un semplice ‘grazie’, ma mi accontenterò.”

Alzai lo sguardo verso il tizio di fronte a me. Dalla bocca, quella sua stracazzo di bocca, usciva un leggero vapore bianco, che si dissolveva velocemente nella fredda aria invernale. Improvvisamente mi accorsi di avere freddo: con molta probabilità l’adrenalina che mi scorreva in corpo fino a qualche attimo prima aveva esaurito il suo effetto.

“Senti… coso…”

“Coso? Solamente nei film degli anni ’80 dicono ancora ‘coso’! Se proprio vuoi insultarmi, almeno usa il mio nome. Mi chiamo Giacomo.”

“Va bene. Senti, Giacomo… Dovresti proprio… Ecco! Lo sapevo! – esclamai, esasperata -  Ora che so il tuo nome non riesco più a mandarti a fanculo!”

Ruppe in una risata, che enfatizzò le sue fossette, e rispose “Beh, visto che mi ci hai già mandato una volta, non posso che esserne contento!”

Mio malgrado, mi scappò un sorriso.

“La prima volta non era per te - replicai - Era per l’amica che doveva venire a raccattarmi.  È in ritardo.”

“Ne sono contento.”

“Per il vaffanculo o per il ritardo?”

“Per entrambi.” rispose, tranquillo.

“Capisco il vaffanculo, ma la mia amica cosa c’entra?” domandai, dubbiosa.

“Così ho la scusa per trascinare la cassa da morto che ti porti dietro in un posto più caldo. Tipo un bar.”

Boccheggiai.

Avevo capito bene?

“Non c’è bisogno che mi porti la valigia. – balbettai, incerta -  Non ho subìto mutilazioni, riesco benissimo a spostarla da sola.”

“Lo so, ma sono un bravo ragazzo, ricordi?”

Avvampai. Non sapevo se era più per la sua proposta o per l’ennesima frase che provava che ero una terribile impicciona che origliava le conversazioni telefoniche altrui.

“Senti, - riprese - io mi rifiuto di chiamarti ‘cosa’. Posso sapere il tuo nome? Prometto che poi ti consegno la mia tessera sanitaria, il pin del mio cellulare e la password del computer. E l’IBAN, ovviamente.”

Mi ritrovai nuovamente a ridere. Non mi aspettavo davvero che, sotto il primo strato di stronzaggine, fosse così simpatico e alla mano.

“Mi chiamo Ginevra. E mi sto lentamente e inesorabilmente congelando.”

“Vieni, fredda Ginevra del regno di Camelot. Ti offrirò un caffè, mentre aspetti la tua ancella.”

Sollevò nuovamente il mio tir in miniatura e si diresse verso il bar della stazione. Lo seguii, stringendomi nella giacca e pensando che quella era la situazione più assurda che mi fosse mai capitata. Ok, magari quella in cui credevo di essere un’arancia lo era di più, ma non ho ricordi molto nitidi di quella esperienza, per fortuna.

 Il cellulare, nella mia tasca, suonò ancora.

Toccagli il culo, ora che ha le mani impegnate!

Mi guardai attorno furibonda: altro che parcheggio, Stefania era già in stazione e aveva visto tutto! Gliela avrei fatta pagare, oh, eccome se gliela avrei fatta pagare! Si poteva anche scordare che io le prestassi quella borsa che…

“Prima le signore!”

Inaspettatamente galante.

Ragazzo dalle fossette batte ragazza impicciona uno a zero.

Come avevo fatto a passare dalla sete di vendetta all’ammirazione incondizionata? Quelle quattro ore mi avevano rimbecillita del tutto?

Eravamo arrivati di fronte alla porta del bar e Giacomo non smetteva di guardarmi con quei suoi occhioni da gatto. E quel suo sorrisetto. E quella barba leggera che…

Ok, Ginevra, ripigliati.

“Senti, io non so perché sono venuta qui con te, se non per tentare di riappropriarmi della mia valigia…” sputai, con la delicatezza di un camion rimorchio. Il suo sorriso si smorzò e mi guardò con espressione delusa.

Sono proprio un manico di bastone, io.

Deglutii, e mi sforzai di proseguire.

“Però, ecco, volevo…ringraziarti. Sì, insomma, per prima. La valigia e tutto il resto. Sei stato…carino. Credo.”

Avevo combinato fin troppi casini per permettermi di rimanere stronza.

Inarcò nuovamente le sue labbra peccaminose, regalandomi un sorriso che fece aumentare di qualche tacca il mio termostato personale che, a differenza di quello di Trenitalia, i gradi Celsius li conosceva eccome.

“Carino? Beh dai, non esagerare – replicò, nascondendo un leggero imbarazzo -  Diciamo… passabile.”

 

 

 

 

 

 

Angolo autricepenna

 

1.     Il Bronzo di Riace, esteticamente parlando, esiste veramente. Lo incontro tutte le mattine sul bus 6, si siede sempre dietro di me. Purtroppo son quasi certa di avere come minimo sette anni in più di lui, quindi cerco di non fantasticare troppo sulla sua bocca per evitare di sentirmi più pervertita di quanto già non sia.

2.     Anche Stefania esiste veramente, ed è molto peggio di questa qua. Temo il momento in cui mi verrà veramente a prendere in stazione.

3.     Questa one shot è nata tre anni fa, dopo un viaggio in treno per Milano, in cui ero davvero seduta di fronte ad un ragazzo che era gran bel figliuolo, mi sembra. Ovviamente non è successo nulla di quanto ho scritto, ahimè. La cosa surreale è che dopo aver scritto le prime due pagine l’avevo lasciata incompiuta, fino all’altro giorno, in cui ho pensato che avrei potuto completarla. Mi sono ricordata dell’episodio che l’ha ispirata solo ADESSO, ovvero mentre stavo scrivendo queste note. Mi è anche venuto in mente che avevo perfino rubato una foto al ragazzo che ho ammirato per quattro ore consecutive.
L’ho ritrovata.

 

Era davvero un gran bel figliuolo.


Ps. Si ringrazia MedOrMad per l’incoraggiamento e il titolo semplicemente geniale.


   
 
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