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Autore: Mary P_Stark    15/02/2013    5 recensioni
Brie e Duncan guidano il branco di Matlock, il Concilio di Anziani è stato destituito e un nuovo corso è iniziato. Assieme a questa nuova via, nuovi amici e vecchi nemici fanno il loro ingresso nella vita dei due licantropi e un'antica, mistica ombra sembra voler ghermire tra le sue spire Brie, che non sa, o non ricorda, chi possa volerla morta. SECONDO CAPITOLO DELLA TRILOGIA DELLA LUNA. (riferimenti alla storia presenti nel racconto precedente)
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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2.

 
 
 
 
 
 
Ci permisero di prepararci una camomilla, prima di passare alle deposizioni.
Alcuni agenti salirono al piano superiore per controllare il mio appartamento, mentre Sparks e Colbie rimasero con noi per chiederci se avessimo dei sospetti, o cosa ricordassimo dell’accaduto.
Io sapevo solo che, nel più breve tempo possibile, avrei dovuto recuperare un telefono per chiamare Duncan, o avrebbe sguinzagliato tutti i licantropi di Londra per venire a controllare se stessi bene, o meno.
Spiegai ai poliziotti che, il tizio che ci aveva sparato addosso, era entrato dalla finestra del terzo piano, dove si trovava il mio appartamento.
Naturalmente, omisi la sua seconda identità; non era proprio il caso di accennarlo.
Dissi soltanto che, senza dare alcuna spiegazione, aveva minacciato di uccidermi.
Mi chiesero se conoscessi qualcuno che potesse avercela con me, ex fidanzati pericolosi, vecchi amici vendicativi, ma io scossi il capo ogni volta.
Sapevo per certo che, se Marjorie ce l’avesse avuta ancora con me, non avrebbe assoldato un sicario per ammazzarmi, ma si sarebbe sporcata da sola le mani.
Era stronza, ma non vigliacca.
Le stesse domande vennero rivolte anche a Elliott e Brittany, così da non lasciare vacante nessuna pista ma, alla fine, le uniche prove in loro possesso furono i bossoli della pistola, la porta dell’appartamento distrutta e la finestra in briciole.
Di impronte neanche l’ombra, come di peli o cellule epiteliali che potessero portare all’identità dell’assalitore.
L’unica cosa che sapevo, ovviamente, non potevo dirla.
Sparks mi assicurò che avrebbe lasciato uno dei suoi a controllare lo stabile, e io ringraziai tutti prima di dirigermi mesta al piano superiore, trovando i segni inequivocabili del passaggio della scientifica, oltre a quelli più discreti di chi mi aveva assalita.
La sua scia odorosa ancora si sentiva – non che fosse piacevole, visto che puzzava di fogna – e la traccia residua del suo potere latente permeava ogni particella fibrosa del muro, dove si era appoggiato nel risalire fino al terzo piano.
Le tracce erano evidenti ai miei occhi come cupe macchie dorate in decomposizione.
Con un sospiro, lasciai perdere la visione della parete esterna del palazzo dove alloggiavo e, con passo strascicato, tornai in camera per recuperare il mio cellulare, riaccendendolo.
Sei messaggi. Otto chiamate.
Ahia.
Prevedevo guai serissimi.
Aprii lo sportello per digitare il numero di Duncan ma lui mi precedette, chiamandomi per la nona volta e trovandomi finalmente all’altro capo del telefono.
Presi la chiamata e dissi subito: “Sto bene. Perciò, se hai sparpagliato il branco di Joshua in giro per Londra, richiamalo subito, perché non c’è bisogno che vengano qua a decine per vedere cose che non li riguardano.”
Un grugnito, e lui replicò: “Stai tranquilla, non l’avevo ancora chiamato. Ma l’avrei fatto nei prossimi venti minuti, se non mi avessi risposto. Allora?”
Sospirando, mi sedetti sul letto lanciando uno sguardo disgustato oltre la porta – dove potevo vedere i vetri a terra e il telaio divelto della finestra – prima di spiegargli: “Hanno cercato di ammazzarmi. Un licantropo, con una pistola caricata ad argento.”
Uno, due, tre secondi, poi Duncan imprecò vistosamente, ringhiando: “Cosa hanno osato fare?!”
“Quel che ti ho detto. Devo ringraziare quel folle del proprietario dello stabile, se sono ancora tutta intera. Mi sono rifugiata in una delle panic room che ci sono nel palazzo, così io e un paio di amici ci siamo salvati le penne. Ma quel tizio ha promesso di cercarmi per uccidermi.”
“Hai riconosciuto la scia?” mi chiese, la voce ridotta a un sussurro rabbioso e sfrigolante.
“No. E non ha lasciato tracce, né per me, né per la polizia. Era preparato, il bastardo” sbuffai, cominciando a provare una certa rabbia. Non ci si comportava così, con una Prima Lupa.
C’erano delle gerarchie da rispettare! Persino io che ero una neofita in materia, lo sapevo!
“Domani sarò lì da te”  disse perentorio.
“Come? No, non se ne parla. Posso cavarmela benissimo e…”
Non riuscii a terminare la frase. Aveva già messo giù.
Provai a richiamarlo, ma invano.
Ben ti sta. Così impari a chiudergli il telefono in faccia, pensai scocciata.
Mi lasciai crollare sul letto, gli occhi chiusi ermeticamente e le mani premute su di essi.
Mi sforzai di capire chi potesse aver mandato quel licantropo, o chi potesse avercela personalmente con me per commettere un atto simile.
Naturalmente, nulla venne in mio soccorso e, quando sentii il sospiro sconvolto di Mandy al suo rientro e il suo strillo spaventato, lasciai perdere le mie divagazioni mentali per sostenere lei.
Confusa da quello scenario apocalittico, aveva un pallore spettrale a dipingerle il viso, e la paura a trasudare dai suoi pori.
La abbracciai, spiegandole sommariamente ciò che era successo e lei, piangendo per me e per quello che avrebbe potuto succedermi, mi strinse con foga, promettendomi: “Non uscirò mai più, se tu sarai a casa da sola. Verrai sempre con me, d’ora in avanti, oppure faremo venire qui qualcuno dei nostri amici. E' chiaro?”
“Tranquilla. Duncan sarà qui domani. E non credo mi mollerà prima della fine degli esami” le spiegai, non sapendo se esserne contenta o meno.
Volevo vederlo, ma non per quel motivo. Doveva fidarsi di me.
“Ah, bene. Avere un uomo per casa mi aiuterà a star tranquilla” assentì rassicurata, lasciandosi andare a un ultimo brivido prima di guardare la finestra distrutta e i segni del passaggio della scientifica. “Possiamo ripulire? Detesto la confusione.”
Risi, e annuii. “Sì, hanno raccolto tutto quello che potevano.”
Ed era ben poco.
Con paletta, scopa e guanti rinforzati, togliemmo tutto ciò che fu in nostro potere togliere – la paura non avremmo potuto cancellarla neppure con litri di candeggina – e, dopo aver sigillato il vetro con un telo di plastica e tanto scotch, decidemmo di comune accordo di dormire nello stesso letto, per quella notte.
Spingendo a forza di braccia, posizionammo dinanzi alla porta la cassettiera e, di fronte alla finestra, il mobile degli abiti.
Sapevo che un licantropo sarebbe passato ugualmente, ma vedere quelle due potenziali vie d’accesso sbarrate, mi aiutò a prendere sonno.

***

 
La mattina seguente, risvegliata dal cinguettio degli uccelli che, grazie alle mie orecchie sensibili, riuscivo ad avvertire nonostante le imposte chiuse e sigillate da un armadio, mi sollevai da letto in silenzio, lasciando che Mandy continuasse a riposare.
Piano, spostai la cassettiera per uscire dalla stanza e raggiungere il bagno.
Rabbrividii leggermente, quando i primi raggi del sole mattutino ferirono i miei occhi.
Osservando ancora preoccupata la striscia di plastica trasparente che fungeva da finestra – laddove un tempo vi era stata quella originale – , mi chiesi se il mio potenziale assassino fosse ancora là fuori, in cerca di un’altra occasione propizia per aggredirmi.
“Idiota… pensaci ancora un po’ e lo vedrai anche nella tua ombra” mi derisi, andandomene in bagno a passo di carica.
Mi lavai viso e denti, e spazzolai i capelli quasi senza smettere di pensare alle parole raggelanti di quel tizio.
Quando, finalmente, misi piede in cucina, il mio umore era più nero del caffè che stavo per preparare.
Il mio cellulare colse quel momento spiacevole per squillare all’improvviso e, lanciato uno strillo ben poco onorevole, imprecai tra me per i miei nervi ultra-tesi e lo aprii, grugnendo: “Pronto?”
“Sono fuori dall’edificio. Puoi dire al poliziotto di guardia che sono a posto?” mi chiese, suadente, la voce di Duncan.
Cristo, già qui?, pensai sgomenta, non sapendo se trovare la cosa comica o piacevole.
“Passamelo” mugugnai ombrosa.
Un fruscio e sentii dire al poliziotto: “Buongiorno, signorina Smithson. Quest’uomo dice di essere il suo fidanzato. E’ vero?”
“Sì, lo faccia pure passare. E’ a posto” asserii, chiudendo la comunicazione.
Uno, due, tre, quattro… al quinto secondo, sentii un toc toc alla porta e l’onda del suo potere dilagare come una coperta morbida e calda, fino a raggiungermi.
Sorridendo nel riconoscerlo, corsi ad aprire e, a dispetto di tutte le mie migliori intenzioni, mi gettai tra le sue braccia protese e piansi come una vite tagliata, finché gli occhi non ebbero più lacrime per sostenere il mio scoppio di paura incontrollata.
In tutto quel tempo, Duncan mi tenne stretta a sé, le braccia simili a magli d’acciaio pronti solo a proteggermi.
Il suo potere mi tenne avvinta a sé finché non fu certo che fossi tranquilla e, quando la mia crisi fu terminata, entrammo in appartamento chiudendoci la porta alle spalle.
Nell’accompagnarlo in cucina, sorrisi imbarazzata e mormorai: “Alla faccia di quella che voleva sembrare indipendente e forte.”
Mi sorrise bonario, replicando: “Non hai motivo di fare né l’una, né l’altra cosa. Sono il tuo compagno ed è giusto che, se c’è bisogno, io ti protegga.”
“Ma so proteggermi da sola” protestai debolmente, pur sapendo che le prove mi smentivano alla grande.
Senza quella panic room, probabilmente, in quel momento mi sarei trovata su un tavolo dell’obitorio, con un avvelenamento da argento come causa di morte.
Lui si limitò a carezzarmi il viso, la mano grande e forte che indugiò a sfiorarmi i capelli lungi e morbidamente rilasciati sulle spalle. “Ti sono cresciuti ancora… sono così belli.”
Sorrisi deliziata – aveva sempre ammirato la mia ordinaria chioma castano dorata, anche se io non ci avevo mai trovato nulla di speciale – e mormorai: “Continua così ancora un po’.”
Duncan ridacchiò, chiedendomi curioso: “Hai bisogno di essere rassicurata sul tuo aspetto? Strano, per una che ha sempre detto di essere sorda ai complimenti degli uomini.”
“Oggi va così. Sopportami” scrollai le spalle, mettendo il broncio.
“Come vuoi” ammiccò, piegandosi in avanti per mordicchiarmi il labbro sporgente e imbronciato.
Apprezzai.
“I tuoi occhi mi ricordano l’oro più puro e la tua pelle, così soffice e vellutata, rivaleggia con la seta più pregiata” mi sussurrò all’orecchio, mordicchiandomi in prossimità dell’attaccatura dei capelli.
Mugolai come un gattino. “Continua…”
Lui rise roco, annuendo, e mormorò con tono profondo: “Quando corri con me nel bosco, il mondo si annulla, tu diventi il Tutto. Niente ha più importanza, solo tu.”
“Ti manco?” sussurrai, lasciandolo vagare sul mio corpo con le mani, il potere e lo sguardo.
“Più di quanto le parole potranno mai affermare, più di quanto i miei baci potranno dimostrarti” asserì in un sussurro, la voce non più controllata ma preda di un desiderio sempre crescente, che sentivo strisciarmi addosso come una pelliccia soffice.
Si sedette e mi attirò sulle sue gambe, cominciando a baciarmi con maggiore serietà il collo.
In quella posizione più che privilegiata, avvertii tutto il suo desiderio e la voglia che aveva di farmi sua, lì, in quel posto, a costo di farci beccare in flagranza di reato da Mandy.
Mi strinsi a lui, inarcando all’indietro il collo per facilitargli il compito e, sospirando, sussurrai a fatica: “Mandy è di là che dorme, quindi attento a quel che fai.”
Rise contro la mia pelle rovente di baci e, con un unico, fluido movimento, mi sollevò la maglietta che indossavo a mo’ di pigiama e mi baciò i seni, uno dopo l’altro, scatenando in me una fame divorante.
Fatto ciò, riabbassò l’indumento, si impossessò delle mie labbra, affondando in me con una sete e una disperazione quasi tangibili con mano e, dopo essersi – e avermi – saziato, si scostò con il viso un po’ accaldato e gli occhi che scivolavano dal verde all’oro.
Roco, mi promise: “Mi tratterrò, giusto per non spaventarla.”
Annuii, non proprio sicura di poter abbandonare le sue gambe senza crollare a terra priva di forze e, sorridendo un po’ scioccamente, celiai: “Certo che, come risveglio, questo è di gran lunga il migliore degli ultimi mesi.”
Storcendo appena la bocca, lui replicò torvo: “Spero ardentemente che non ci sia nessuno che ti sveglia a questo modo.”
Risi, baciandolo sul naso prima di sollevarmi in piedi – sì, il mio equilibrio era buono – e irriderlo bonariamente. “Tranquillo, solo tu hai questo piacere.”
“Ottimo” assentì, prima di sospingermi verso una sedia e aggiungere: “Resta lì. Preparerò io la colazione.”
“Abbondante. Mandy è una mangiona” lo avvertii, sorridendo nel vederlo muoversi per la piccola cucina.
“E sia. Preparerò una tonnellata di pancake, so che li adori. Piacciono anche a lei, se non erro” mormorò, trovando al primo colpo gli ingredienti. Beato olfatto di lupo!
“Abbonda, perché siamo due divoratrici sfegatate di pancake. Là dentro c’è anche lo sciroppo d’acero. E quello all’amarena. Mandy li preferisce con quello” lo instradai a dovere, indicando a più riprese i vari stipetti della credenza.
Duncan era davvero troppo grande per quella cucina formato Hobbit, ma era piacevole averlo vicino, e vedere con quanta premura si stesse prendendo cura di me.
Al diavolo le mie idee sull’indipendenza! Volevo Duncan qui con me, punto e basta!
Lo osservai avida mentre, con la competenza di un uomo abituato da anni a lavorare in cucina, preparava la colazione per me e Mandy.
Sorridendo, mi volsi non appena sentii i passi strascicati della mia amica, mentre si avventurava lungo il corridoio per raggiungere il bagno.
A mezza voce, giusto per non farla impaurire, la avvertii della presenza di Duncan in casa. “Ehi, Mandy, Mac è arrivato, perciò non arrivare in mutande, se non vuoi morire d’imbarazzo!”
I suoi passi si bloccarono per un momento, prima che uno sbadiglio si facesse largo nel bel mezzo del silenzioso appartamento, assieme a un borbottio di assenso.
“Ciao, Mac Duncan!” biascicò, allegra.
Un secondo dopo, la porta del bagno si aprì e si richiuse, e l’acqua della doccia venne aperta.
Duncan sogghignò, dicendomi: “Non mi sembra che Amanda si scomponga tanto.”
“Dopo ieri sera, le fa solo piacere saperti qui in casa” annuii, scrollando le spalle.
“E a te, fa piacere?” mi domandò per contro, facendo saltare con abilità i pancake sulla padella.
Ero felice? Sì, no. Non lo sapevo.
Sospirando, appoggiai il mento sul palmo della mano e, dopo un momento di riflessione, ammisi: “Naturalmente, sono felicissima di vederti e di saperti qui ma, al tempo stesso, sono irritata dal fatto di non poter gestire da sola la situazione. Non so se mi sono spiegata.”
Annuendo pensieroso, Duncan dedicò il proprio sguardo alla padella, mentre mi esponeva i suoi pensieri con fare tranquillo. “So che sei una ragazza indipendente, e non voglio intromettermi più del necessario, ma la cosa è grave. Non intendo lasciare che alla mia Prima Lupa, e wicca, succeda qualcosa. Spero comprenderai il mio punto di vista.”
“Lo comprendo, naturalmente, e credimi, se le parti fossero invertite, mollerei l’università per tornare a Matlock e proteggerti, anche se so che hai già Lance a guardarti le spalle” ammiccai complice. “E’ solo che mi è ancora difficile abituarmi a…”
“… a ragionare come una coppia, e non più come un singolo individuo?” terminò per me Duncan, sorridendo comprensivo.
Annuii, grata che avesse compreso, e gli sorrisi a mia volta. “Non fraintendermi, sono più che felice di far coppia con te. E penso che la cosa sia più che ovvia.”
“Lo è” ammiccò.
“Bene. Però, per me è ancora tutto nuovo. Con Leon non era così” mugugnai a mezza voce.
Duncan aggrottò la fronte per un momento, prima di rilassare i tratti del volto.
Incuriosita da quel momentaneo cambio d'umore, gli chiesi: “Non sarai mica geloso di Leon, spero? Sai che non provavo, per lui, le stesse cose che provo per te.”
“Lascia stare, Brie, non far caso a me” brontolò, abbozzando un sorriso fasullo.
Basita, sollevai le sopracciglia con aria meravigliata ed esalai sorpresa: “Ma dai? Non vorrai farmi credere che Mister-Fisico-da-Paura, e Fenrir di Matlock, ha timore di un ragazzo di vent’anni che non ha neppure un decimo del suo fascino?”
“Mister… Fisico-da-Paura?” ripeté confuso Duncan.
Ridacchiando, gli spiegai: “E’ così che ti ha chiamato una volta Gordon, e penso ti si addica.”
“Questa poi…” esalò, prima di riprendere il discorso e dire: “… ammetterai, però, che anche Leon è un bel ragazzo.”
“Dovrò evitare che tu guardi troppo spesso nella mia testa, se certi miei ricordi ti fanno venire tanti e tali dubbi” brontolai, indicando poi con un cenno del capo la porta della cucina.
Mandy aveva finito di fare la doccia e, entro pochi minuti, sarebbe giunta lì assieme a noi, per fare colazione.
Era decisamente meglio cambiare argomento.
Duncan annuì e aggiunse mentalmente: “La sostanza non cambia. Leon è molto affascinante, ed è molto più …”
Bloccandolo sul nascere, lo fissai malissimo e replicai per contro: “Non mi propinare di nuovo la storia dell’età, sennò ti faccio a fettine sottili e ti uso da salume affumicato per il toast. Sei tu l’uomo che voglio, e non me ne frega niente se hai ventinove anni. Non sei Matusalemme, quindi non ti preoccupare.”
“Se lo dici tu… ma sai che puoi essere Prima Lupa anche senza essere la mia compagna, vero?”
Sbuffai tra me e me, e gli ringhiai nella testa: “Sì, lo so, me l’avrai ripetuto fino allo sfinimento ma, a meno che tu non ti sia stancato di me, io sono ancora stra-convinta di aver fatto la scelta giusta.”
“Anch’io. Quindi, non mi devo preoccupare che tu scappi con qualcuno più giovane di me?” Lo disse ironicamente, ma sentii ugualmente una punta di panico in quel commento.
Sempre più sorpresa, replicai: “Perché hai così tanta paura, Duncan? Da dove ti vengono questi dubbi?”
“Samantha ha lasciato Fred” mi buttò lì su due piedi, facendomi spalancare la bocca per la sorpresa.
Samantha era una delle Mánagarmr più giovani del branco, assieme a Erika e poche altre e, un paio di anni addietro, si era fidanzata con il ben più vecchio Fred McAvoy, un licantropo di trentaquattro anni originario di Leek.
La cosa aveva sorpreso un po’ tutti – lui insegnante nella scuola di Samantha, lei sua allieva – ma, essendo loro entrambi licantropi, nessuno aveva mosso troppe obiezioni al riguardo, Duncan compreso.
Il tutto era andato avanti più o meno bene per un po’ ma, da quel che mi aveva appena detto Duncan, dovetti supporre che qualcosa, tra loro, si fosse spezzato. Timorosa, domandai: “Cos’è successo?”
“Samantha si è innamorata di un licantropo di Cambridge, dov’è andata a studiare.”
“Ah… ecco da dove salta fuori tutta questa paura.”
“Devi scusarmi, Brie, ma la lontananza non mi rende solo più piacevole rivederti.”
“Lo so. Ti rende anche più insicuro. Ma posso dirti che è lo stesso per me, anche se non so se questo possa esserti d’aiuto” gli sussurrai, sfiorandolo con il mio potere per rassicurarlo.
Lui mi sorrise e ammise: “Non ricordavo che amare facesse stare così male.”
“Io lo scopro adesso, perciò la botta è peggiore.”
“Forse” ammiccò, prima di aprirsi in un sorriso e dire: “Ciao, Amanda. Ben svegliata.”
I capelli ricci e umidi, trattenuti da una salvietta, e il corpo perfetto ricoperto da una bella tuta dell’Adidas color blu e nero, Amanda sorrise ed esordì con il suo solito saluto al mio ragazzo. “Ciao, Mac Duncan. Brie. Preparato la colazione? Sei un tesoro di uomo.”
“Grazie” sorrise Duncan, servendoci al tavolo.
Amanda si accomodò al mio fianco, mugolando soddisfatta: “Lamentati di un uomo simile, e giuro che ti prenderò a bastonate in testa!”
“Non mi permetterei mai” ridacchiai, affondando la forchetta nel mio pancake. “Hai capito, Duncan? Non mi permetterei mai di farti soffrire, quindi cancella quel che è successo a Sam e Fred, perché a noi due non succederà.”
“Come ordina la mia Prima Lupa” rise nella mia testa, riempiendo di caffè le nostre due tazze spaiate prima di servirsene una dose generosa.
Tra una boccata e l’altra di pancake, e un sorso di caffè, guardai Duncan e gli chiesi: “Ora che sei qui, cos’hai intenzione di fare? Pedinarci per tutto il tempo?”
Mandy ghignò, e celiò divertita: “Ci pensi, presentarci all’università con lui come guardia del corpo? Sbaveranno tutte d’invidia!”
Storcendo la bocca, scossi la testa, sbuffando: “Cosa da evitare, questo è sicuro.”
Duncan mi sorrise sornione, e si limitò a dire: “Vi seguirò a distanza.”
“Con la Volvo? Ti sarà difficile, col traffico che c’è in città” replicai, scettica.
Lui ammiccò, sempre più divertito. “Ma non sono venuto con la Volvo.”
Rizzando le orecchie, poggiai in fretta la forchetta sul piatto e, fissandolo curiosa, chiesi: “E con cosa sei venuto?”
“In moto” disse vago, sorprendendomi oltremodo.
E da quando in qua, Duncan aveva una moto? Di certo, in garage non gliel’avevo mai vista! Che novità era questa?!
Levandomi in piedi, andai di corsa alla piccola finestra della cucina e guardai dabbasso, sulla strada di fronte allo stabile.
Lì, sorpresa delle sorprese, vidi uno spettacolare esemplare di Ducati Multistrada 1200 rosso fuoco, parcheggiato proprio a lato dell’entrata.
Un lento sorriso mi si dipinse sul volto e Duncan, scoppiando a ridere, celiò: “Devo dedurre che ti piace?”
Annuii a più riprese, incapace di distogliere lo sguardo da quell’esemplare lodevole a due ruote e Duncan, sfiorandomi con il suo potere, mi fece capire che la mia gioia rallegrava anche lui.

***

Se già la scoperta della splendida Ducati Multistrada di Duncan mi aveva stupita, dovetti concedermi un nuovo tuffo al cuore quando vidi, allacciato accanto al sedile del passeggero, un bel casco integrale della Marushin a fantasie arabescate grigie e nere.
Lo fissai confusa, chiedendomi quando avesse escogitato quella sorpresa e, voltandomi a fissarlo con enormi occhioni sconcertati, esalai: “Ma… come… non sapevo che…”
Lui sorrise, annullando di fatto tutto ciò che mi circondava e rendendomi tremendamente consapevole della mia fame.
Con voce resa roca da un desiderio che non sembrava essere inferiore al mio, mormorò: “Ho pensato che ti sarebbe piaciuto andare in moto, per il tuo ritorno a casa, così ho deciso di sfruttare la mia patente per le due ruote, visto che era lì a vegetare da anni senza alcuno scopo.”
Mi aprii in un sorriso estasiato e, lanciandomi addosso a lui per stringerlo in un abbraccio soporifero, esclamai eccitata: “Oddio, tu non hai idea di quanto la cosa mi ecciti! Grazie, grazie, grazie!”
Duncan rise, replicando: “Sai, penso di avere una vaga idea di quanto la cosa ti stuzzichi.”
Risi con lui – stavo immaginando scorribande per le strade e corse folli in campagna – e mugugnai: “Beh, ammettilo, piacerebbero anche a te.”
“Non lo nego, ma vedrò di non farci sbattere in galera, se posso evitarlo” ammiccò, prima di veder uscire Mandy dal palazzo. “Forse è il caso che andiate a scuola, voi due. Io vi verrò dietro e vi aspetterò fuori.”
Mandy diede un’occhiata fuggevole alla moto, annuendo sentitamente, e disse: “Ottima scelta; la Ducati è la Ducati. Da brava emiliana, approvo alla grande.”
Duncan la ringraziò con un sorriso prima di chiederle: “Se non erro, tu abiti vicino a Borgo Panigale, no?”
“A una ventina di chilometri, sì” annuì Mandy. “La prossima volta che torno a casa, ti porterò un gadget originale dalla fabbrica.”
“Grazie” mormorò Duncan, ammiccando. “Coraggio, andate. Io mi apposterò fuori dall’università.”
Il poliziotto che controllava lo stabile aggrottò leggermente la fronte, a quelle parole, e lo ammonì immediatamente. “Spero non avrà intenzione di ostacolare la giustizia, signore.”
Duncan si esibì in un sorriso innocente e, sollevate le mani con fare tranquillo, asserì pacifico: “Oh, no, lungi da me. Mi limiterò ad aspettare la mia fidanzata e la sua amica, tutto qui. E poi, so che l’agente Perkins è già sul posto, per cui sono più che tranquillo.”
Sia io, che il poliziotto, che Mandy, lo fissammo sorpresi e l’agente, sollevando un sopracciglio con interesse, domandò curioso: “Conosce l’agente Perkins?”
“Sì, da molto tempo” annuì Duncan, dicendo poi solo per me. “Naturalmente, è uno di noi.”
“Non avevo dubbi, o non saresti stato così tranquillo, limitandoti ad aspettarci fuori dall’università” replicai, cercando di non fare smorfie di nessun genere al suo indirizzo.
“La priorità è la tua sicurezza, Brie, ficcatelo bene in testa. Non mi interessa se pensi che esagero, o che sono prevaricante nei tuoi confronti. Potremo discuterne ampiamente a casa, e anche scannarci, se vuoi, ma ora fammi contento. Qui, non posso proteggerti come vorrei, e devo innanzitutto affidarmi a Joshua, quindi non fare il bastian contrario.”
“E va bene, non ti annoierò con le mie recriminazioni da femminista convinta… per ora.”
“Grazie.”
Dovevo ammetterlo. Le sue attenzioni, in una certa qual maniera, mi facevano piacere.
Sentirmi pedinata e, peggio ancora, controllata a vista come poteva fare solo un licantropo, era qualcosa che, però, sconfinava, e di molto, nell’area che io chiamo privacy violata.
Spiegarlo a Duncan era impossibile, visto che si era elevato a mio paladino personale.
Sebbene sapessi che era del tutto ovvio questo suo interessamento nei miei confronti – diamine, lo avrei fatto anch’io, se le parti fossero state invertite – mi sentivo leggermente soffocare.
Non ero abituata a simili sollecitudini e, anche se sapevo che il motivo era più che fondato – una pistola ad argento era un ottimo motivo per preoccuparsi – il mio Io più ribelle fremeva, e la mia bestia reclamava spazi che, lì e in quel momento, non potevo concederle.
Un vero strazio, insomma.
Dopo avergli dato un bacio leggero sulle labbra, presi per mano Mandy e corremmo alla fermata dell’autobus, mentre Duncan inforcava la sua moto per seguirci.
Dovevo convincermi che quell’eccessiva dimostrazione di forza maschile - quanto lupesca - fosse una buona cosa, eppure ero più che convinta che non sarebbe servita assolutamente a niente, soprattutto non sarebbe servita a scoprire chi voleva farmi fuori.
Ombrosa, osservai le auto che ingombravano la strada mentre raggiungevamo l’università, rumorose e fumose come ciminiere.
Era uno strazio, tapparmi mentalmente in naso per non sentirle.
Quando finalmente giungemmo alla nostra fermata, l’agente Stephen Perkins, un armadio a due ante alto un metro e novanta e dalla pelle scura come l’ebano, si presentò a noi due povere studentesse spaventate – ma dove? – assicurandoci che ci avrebbe tenute d’occhio durante la nostra permanenza all’università.
E, ne ero più che sicura, avrebbe detto in tempo reale a Duncan tutto ciò che succedeva all’interno del plesso scolastico.
Lanciai un’occhiata esasperata a Duncan che, comodamente, si sedette su una panchina armato di giornale mentre Stephen ci seguiva all’interno, la sua aura in allerta non meno dei suoi sensi e lo sguardo di uno che, per nulla al mondo, si sarebbe fatto fare fesso da chicchessia.
“Posso contare sulla tua discrezione, almeno quando andremo al bagno?”
“Ma certo” assentì ironicamente, lanciandomi un fuggevole sguardo divertito.
Ammiccai nell’entrare assieme a Mandy e, prima di dedicarmi all’esame, gli dissi: “Ringrazia il tuo Fenrir da parte mia. Si sta prendendo anche troppo disturbo.”
“Lo farei in ogni caso, visto che sono un poliziotto. Comunque riferirò, wicca.”
Sapevo che la mia duplice condizione di wicca e Prima Lupa metteva in seria difficoltà chi già conosceva il mio segreto, poiché nessuno sapeva con esattezza come chiamarmi.
Io avevo specificato più di una volta che, in un modo o nell’altro, a me sarebbe comunque andata bene.
Avevo tenuto a precisare anche che, in nessun caso, mi sarei sentita offesa per la mancanza di questo, o quel titolo onorifico.
Come se la cosa mi desse qualche pensiero.
Sapevo che i licantropi tenevano molto alla tradizione, ma io ero talmente nuova a quel genere di mentalità, che la cosa non poteva farmi né caldo, né freddo.
Sapevo anche, però, quanto vi tenesse Duncan, per cui avevo dovuto per forza esprimermi in tal senso, anche se ero convintissima che la cosa avrebbe creato discussioni, all’interno dei clan.
Tutto questo mio rimuginare su titoli altisonanti e arrabbiature lupesche, però, non aveva nulla a che fare con quello che mi accingevo ad affrontare in quell’aula universitaria.
Per niente.
Quando mi sedetti al mio posto, perciò, chiusi le porte sull’argomento licantropi e mi concentrai su quello che dovevo portare a termine, e cioè quel benedetto esame di Microbiologia.
Non dovevo farmi distrarre da zanne, pallottole d’argento e riunioni tra branchi. Avrei pensato alla mia parte ferina più tardi. Molto più tardi.

***

Sbuffai esausta, quando uscii dall’aula e mi ritrovai nel corridoio assieme a Mandy, che appariva crucciata non meno di me.
In lontananza, avvertii l’aura guardinga di Stephen che, saggiamente, aveva mantenuto le proprie emissioni di energia al minimo per tutta la durata dell’esame, al solo scopo di non distrarmi.
Immaginavo quanto la cosa gli fosse costata – tenere l’aura sotto controllo, significava anche non poter sondare su largo raggio il perimetro dell’università – per cui, quando incrociai il suo sguardo, dissi mentalmente: “Grazie per la discrezione.”
“Immaginavo avresti voluto avere la mente sgombra, wicca.”
“Hai immaginato bene. Tutto okay, qui?”
“Tutto regolare. Anche perché, non credo che il tuo attentatore sarebbe così folle da presentarsi con due licantropi e un Geri che bazzicano intorno all’università.”
Cercai di non apparire basita per non impensierire Mandy ma, mentalmente, esalai: “Geri? Joshua ha scomodato il suo Geri?”
“Nessuno di noi desidera che succeda qualcosa alla wicca e Prima Lupa di Duncan. L’alleanza che abbiamo con il vostro clan è molto importante per tutti noi. E, oltretutto, l’idea stessa di perdere una wicca ci riempirebbe di orrore, credimi. Anche senza l’alleanza di mezzo.”
Sorrisi appena e, a voce alta, asserii: “Spero non si sia annoiato troppo, agente Perkins.”
“Nessun problema” replicò tranquillo, accennando un sorriso in risposta. Perfettamente professionale. “Dove vi posso scortare?”
“Alla fermata dell’autobus. Per oggi, basta massacri” sospirai, buttandomi sulla spalla la sacca coi libri.
Mandy mi prese sottobraccio e, rivolgendosi al poliziotto, disse: “Domani ci sarà il secondo round. Entro la fine del mese ce ne spettano altri sei, di esami, tra tutte e due.”
“Avete una bella gatta da pelare, allora” commentò il poliziotto, sollevando ironicamente un sopracciglio.
“Diciamo di sì” annuimmo all’unisono, facendolo sorridere maggiormente.
All’esterno, il sole era velato da radi cirri che solcavano il cielo azzurro sporco di Londra, mentre l’odore di gas combusti, asfalto surriscaldato e spezie orientali si confondevano tra loro creando un miasma insopportabile che mi diede il voltastomaco.
Non avevo ancora imparato ad annullare quelle sensazioni dal mio cervello, come solevano fare gli altri licantropi – si impiegavano anni, per eliminare definitivamente il problema – e, non appena quella cacofonia di odori investì il mio naso sensibile, rabbrividii leggermente prima di impormi l’autocontrollo necessario.
Duncan, seduto su una panchina, era intento a chiacchierare con una donna alta e dalle spalle toniche, da atleta, che non riconobbi per nulla.
Stephen, annuendo impercettibilmente, mi fece comprendere che quella ragazza sui trent’anni, dai biondi capelli lisci e tagliati alla paggetto, altri non era che la loro Geri.
Quando ci vide, si alzò in piedi risultando essere poco più alta di me e, sorridendomi, allungò una mano non appena fummo abbastanza vicini a loro, presentandosi allegramente. “Tu devi essere Brianna, tanto piacere. Io sono Gwendoline, un’amica di Duncan. Ma tu puoi chiamarmi Gwen.”
Strinsi quella mano inaspettatamente elegante e dalle unghie ben curate, replicando con un sorriso: “Ciao. Il piacere è mio, Gwen. E chiamami pure Brie” poi, scostandomi, aggiunsi: “Lei è la mia amica Amanda.”
Mandy si fece avanti e disse: “Mandy, per gli amici. Non sapevo che Duncan avesse tante conoscenze, qui a Londra.”
“Gwen è la sorella di un mio ex compagno di corso all’università” mentì su due piedi Duncan, sorridendo tranquillo.
“Quando ci ha chiamati per dirci che sarebbe stato in città, ne ho approfittato subito per invitarlo a pranzo da noi” aggiunse Gwen, ammiccando nella mia direzione. “Naturalmente, sei invitata anche tu, Mandy, se vuoi venire.”
“Ah, mi spiace, ma ho un impegno con un ragazzo, e non vorrei lasciarmi sfuggire l’occasione… se mi capisci” ridacchiò imbarazzata Mandy, scrollando indolente le spalle.
Sollevando un sopracciglio con ironia, Gwen annuì maliziosa: “Oh, capisco eccome. Sei più che scusata. Anzi, divertiti.”
Mandy fissò un momento Stephen ed esalò con un mugugno: “Lei mi deve seguire, vero?”
Il suo tono fu così disperato che Stephen non poté esimersi dal sorridere e, benevolo, le promise: “Sarò così discreto che non si accorgerà neppure di me.”
“E va bene” sospirò con esagerata angoscia Mandy, prima di darmi un bacio e mormorare: “Divertiti, cara, noi ci rivediamo stasera.”
“Okay. Poi mi racconterai tutto di Brandon” ammiccai, dandole un buffetto sulla guancia.
“Ovvio!” annuì, allontanandosi dopo aver lanciato un’occhiata esasperata all’indirizzo di Stephen.
Non appena furono abbastanza lontani, Gwen commentò: “Povero Stephen. Come poliziotto, è costretto a tampinarla, pur sapendo che non è lei la diretta interessata in questo caso.”
Duncan mi strinse una mano, chiedendomi: “Tutto bene, l’esame?”
“Te lo saprò dire tra qualche giorno” poi, guardando Gwen, osservai curiosa: “So dove porti le pistole, ma mi chiedo… come diavolo fai ad averle nascoste così bene?”
Gwen ridacchiò divertita. “Quando sei una donna, hai molte più possibilità di portarti dietro orpelli inutili, per cui è più facile ingegnarsi in tal senso.”
Le sorrisi – il suo modo di fare mi piaceva davvero – e le chiesi: “Che genere di pistole usi? Per averle nascoste così bene, non devono essere molto grosse.”
Gwen ammiccò e mi spiegò: “So che Branson ama girare con quelle sottospecie di cannoni che lui osa definire pistole - le 357 Magnum sono dei carri armati, poco ma sicuro - ma io sono molto più discreta. Ho una Derringer nel retro coscia e una Beretta Tomcat 3032 nella borsetta” poi, sorridendo divertita, si avvicinò, mostrandomi i bei bracciali che indossava. “Questi, però, sono il pezzo forte.”
Ne sfilò uno, una lamina argentea e bulinata a fantasie di fiori che, sotto il tocco esperto delle sue dita, si distese fino a diventare un pugnale dalla punta acuminata e letale.
Lo squadrai allibita, sentendole dire: “Me lo sono fatto preparare appositamente. E’ fatto come i bracciali che vanno tanto di moda adesso, ma il mio nasconde un segreto molto pericoloso.”
“Decisamente” annuii, deglutendo a fatica. “Sono tutti così, i tuoi bracciali?”
“Sì. È un’alternativa valida alle fondine da pugnale che, per esempio, usa di solito Branson” ridacchiò Gwen, sistemandosi nuovamente al polso l’arma letale che, magicamente, si ripiegò su se stessa tornando a essere un innocuo bracciale.
“Denoto una certa acredine, quando ne parli. Avete litigato, per caso?” ridacchiai, pensando al nostro Geri e ai suoi modi più che eleganti.
“Non esattamente” tergiversò, ammiccando in direzione di Duncan.
Sorridendo, lui mi spiegò meglio. “Branson ha certe … idee sulle Geri donne.”
“Oh. Un misogino?” esalai, sorpresa. “Non l’avrei mai detto.”
Gwen rise e chiosò ironica: “Non arriva al punto di insultarmi ma, secondo lui, Joshua ha commesso un errore dandomi il titolo di Geri. Naturalmente, io l’ho dissuaso dal pensarlo ancora ma, evidentemente, l’ultima batosta non è servita a fargli cambiare idea.”
“Oh, e perché?” chiesi, sempre più interessata.
Gwen poggiò le mani sui fianchi stretti e disse, orgogliosa: “Branson sarà anche bravo nel karate, ma con il kenpo l’ho steso, rompendogli il setto nasale.”
Sbattei le palpebre, sorpresa e sgomenta al tempo stesso.
Guardando Duncan, che stava ridendo abbastanza civilmente, esalai: “E tu e Joshua glielo lasciate fare?”
“Sono innocui” replicò Duncan, strizzando l’occhio a Gwen, che sorrise sorniona. “In realtà, si vogliono un gran bene, anche se non hanno esattamente le stesse idee su tutto.”
Sollevai le mani in segno di resa, troppo stanca per cercare di capire.
“Okay, non spiegatemi più niente. Andiamo a mangiare, o mi metterò ad azzannare il primo umano che passa per strada.”
Duncan mi prese sottobraccio e, incamminandosi al fianco di Gwen, chiosò: “Non sia mai che ti accontenti di misera carne umana di seconda scelta, mia Prima Lupa.”
“Ecco, bravo, pensa al mio stomaco raffinato” commentai sogghignando.
Gwen rise divertita e, per il mio sommo piacere, mi confidò: “Ci aspetta un ottimo ristorantino, a meno di un miglio da qui. Vedrai che mangerai benissimo, wicca.”
“Non scherzavo, prima, Gwen,... chiamami Brie. E’ più semplice” la pregai, sorridendole gentilmente.
Lei parve vagamente scettica, come se rinunciare a quel titolo, per lei, fosse quasi un’assurdità.
Sospirando, allora, le spiegai: “Considera che sono wicca da un anno, e Prima Lupa da meno ancora. Non sono abituata a certi titoli altisonanti, e non mi riterrò per nulla offesa se tu mi chiamerai solo per nome. Chiunque avesse da ridire, ne risponderà a me, Gwen, non temere.”
“E’ solo che mi sembra così strano” tentennò, guardando un momento il mio compagno in cerca di aiuto.
Duncan mi sorrise benevolo, asserendo: “Devi sapere, Brie, che il titolo di Prima Lupa è molto onorato all’interno del branco, ed essere Prima Lupa è considerato un privilegio enorme. L’essere wicca, poi, è ancora peggio, da quel punto di vista. Siete così rare che, quando una di voi giunge in un branco, viene portata in palmo di mano.”
“Questo lo so, ma dovete darmi un po’ di tempo per abituarmi. Non sono stata educata a essere trattata come una regina, per cui concedetemi un po’ per non sentirmi un’idiota, tutte le volte che mi vedo fare l’inchino” li pregai, cercando di sorridere.
In realtà, quella faccenda degli inchini, e degli sfregamenti contro la mano, mi mettevano parecchio più a disagio di quanto non fossi disposta ad ammettere.
La prima volta che, dopo il mio scontro con Marjorie, ero tornata al Vigrond per la presentazione ufficiale dinanzi a tutto il branco, ero quasi svenuta per l’imbarazzo quando tutti si erano inchinati di fronte a me.
Come tanti gattoni, si erano avvicinati per strusciarsi contro il mio corpo, come a voler essere marchiati dal mio potere e dal mio odore.
Naturalmente, ero rimasta stoicamente ferma sul posto e mi ero lasciata sfiorare dalle loro energie, lasciando che la mia penetrasse come acqua corrente nei loro corpi febbricitanti di eccitazione.
Dentro di me, però, mi ero sentita invadere da un’ansia tale che, alla fine della cerimonia, ero stata tentata di scoppiare a piangere.
Duncan aveva dovuto cullarmi tutta la notte tra le braccia per calmare i miei tremori e, alla fine, ero crollata in un sonno privo di sogni, risvegliandomi il giorno dopo nell’incavo sicuro del suo braccio, con il cervello spaccato in due da un mal di testa biblico.
Quella mattina, Duncan aveva continuato per ore a scusarsi con me, asserendo di non avermi di certo facilitato la vita, facendomi diventare sua Prima Lupa.
Per tutto il tempo, giusto per essere ligia al mio ruolo di bastian contrario, avevo continuato a mandarlo al diavolo per le idiozie che stava dicendo.
Ma, a onor del vero, quel giorno mi ero sentita davvero tradita da lui, pur sapendo che Duncan non era stato responsabile di nulla.
Ero stata io ad aver accettato quel ruolo, io ad aver voluto stare al suo fianco.
Non era stato giusto incolparlo, visto che quelle erano le tradizioni dei clan, eppure lo avevo fatto, sentendomi male al solo pensiero.
Avevo impiegato giorni per riprendermi e, alla fine, avevo pianto, stretta nel suo abbraccio, chiedendogli scusa per essermi comportata da egoista.
Guardandolo, apparentemente tranquillo nonostante la situazione abbastanza spinosa, mi chiesi se si sentisse ancora in colpa per ciò che stavo passando, da quando ero diventata la sua compagna.
Quando avevo accettato, non avevo minimamente tenuto conto di cosa avrebbe potuto significare, per me, diventare la Signora del branco.
Per loro, ero la guida spirituale, la matriarca di qualche migliaio di licantropi, che guardavano a me come un faro nell’oscurità, al pari di come vedevano Duncan nel suo ruolo di Fenrir.
L’amore per lui mi aveva fatta muovere d’istinto senza badare a tutto il resto e, per quanto non fossi pentita delle mie scelte, il peso del titolo di Prima Lupa era decisamente più gravoso, rispetto a quello di wicca.
Mi strinsi un momento a lui, sussurrando: “Nel bene e nel male, siamo assieme.”
Lui mi fissò sorpreso, aggrottando leggermente la fronte, prima di chiedermi: “Che ti prende?”
“Nulla. Sono solo stanca e vedo tutto nero” mugugnai, chiudendo gli occhi e lasciandomi guidare dall’olfatto e dall’udito, oltre che dal corpo di Duncan, stretto accanto a me.
Duncan allora mi avvolse le spalle, protettivo, e disse: “Siamo una coppia giovane, Brie, ma non pensare di essere l’unica ad aver patito simili crisi d’identità. Parlane con Estelle, e vedrai.”
“La disturberò in merito, se pensi che possa servire” assentii, sospirando.
“Credimi, può capirti meglio di altri” annuì, sicuro.
Gwen, con il suo tono di voce allegro e bonario, intervenne a sua volta. “Scommetto che ti senti schiacciare dal tuo doppio ruolo. E chi non si sentirebbe così, wicca?…cioè, Brie?”
Sorrisi per quella fulminea correzione, e la ascoltai proseguire nel suo monologo. “Io ci rimasi malissimo, quando seppi di non avere il gene giusto per diventare un licantropo. Mi sentii inadatta a essere parte integrante del branco, anche se tutti mi dissero il contrario. Quando Joshua mi diede il ruolo di Geri, impazzii di gioia ma lui mi disse che, con o senza quel titolo, sarei comunque rimasta un membro effettivo del clan, e come tale dovevo vedermi, peli o non peli addosso.”
“Pensavi che il tuo non essere licantropo fosse un peso per il branco?” le chiesi, riaprendo gli occhi per guardarla.
“Sì. Mi sembrava di non poter dare nulla quando loro, invece, mi davano tutto. Joshua mi fece capire che il solo fatto di esistere era di per sé un miracolo, e perciò andava benedetto, non maledetto” mi spiegò, sorridendo orgogliosa. “Ogni vita è importante, indipendentemente dal titolo che grava sulle nostre spalle. Questo mi ha insegnato Joshua. Al cospetto della Madre, siamo tutti uguali. L’importante è che la nostra vita sia vissuta appieno, al meglio delle nostre forze.”
“Per cui, non dovrei cavillare troppo su ciò che mi è capitato tra capo e collo” commentai comicamente.
Lei assentì, sorridente. “Un titolo non fa la persona. Ma è la persona che dà lustro al titolo. Visto come sei diventata Prima Lupa e, soprattutto, quanto è grande e puro il tuo potere di wicca, non hai nulla da dimostrare a nessuno. Le tue azioni parlano per te. Sii orgogliosa di te stessa, perché ne hai motivo.”
Mi aprii in un sorriso grato, dicendole: “Grazie per le tue parole, Gwen. Le terrò in debito conto.”
“Ne sono onorata, wicca” replicò, con un cortese cenno del capo.
Per la prima volta da quando ero diventata wicca, quell’inchino formale non mi diede noia.
Duncan, sorridendo orgoglioso, mi baciò i capelli senza dire nulla, limitandosi a godere di quel piccolo passo in avanti verso la nostra completa serenità.
Certo, ero più che sicura che non tutti si sarebbero dimostrati disponibili e comprensivi come Gwen, ma avere un amico in più nella lista non avrebbe fatto male.


  
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