Capitolo
Quattro
Il Messo
Infernale e laStella dell’Est
Gli
occhi di Lastar non avevano bisogno
delle lenti graduate: non avevano mai sofferto per gli sfocamenti della
miopia,
o per i bordi sovrapposti dell’astigmatismo. Il medico aveva
dichiarato che la
sua vista era pressoché perfetta: poteva risentire di
abbassamenti temporanei
in seguito ad eccessivo stress, ma nulla di permanente che richiedesse
l’intervento degli occhiali. Eppure, Lastar li indossava da
quando aveva cinque
anni. Gli occhi non ne avevano bisogno, ma la sua anima necessitava di
quello
scudo trasparente.
Non
possedeva ricordi troppo vividi
della sua infanzia. I suoi primi anni di vita erano un impasto
indistinto di
sensazioni spiacevoli e giornate uggiose. Si stupiva della gente che
parlava
con gioia della propria puerizia: lui aveva trascorso quel periodo
isolato tra
le mura di una Abbazia, molto più piccola della Cattedrale
di Elohim e dalle
difese assai più scarse. Era il luogo in cui era nata sua
madre, da cui era
stata rapita e cui aveva fatto ritorno con il ventre gonfio.
Faticava
ad assemblare nella sua
memoria il viso della donna che lo aveva messo al mondo, ma ricordava
perfettamente la sua schiena; aveva passato anni fissando le spalle che
la
madre gli rivolgeva con un’ostinazione venata di disgusto.
Ricordava la curva
delle scapole sotto la maglia, la forma stretta delle spalle, sempre
lievemente
inarcate, e la linea della spina dorsale, inalberata con boria. Aveva
contato
uno per uno tutti i riflessi nei capelli rossi della madre, dal ramato
più
sbiadito al cremisi più acceso, e aveva provato un pizzico
di gioia nel
ritrovare quelle stesse gradazioni sulla sua chioma scomposta, che
nessun
genitore aveva avuto la premura di pettinare.
La
madre aveva fatto in modo che
nemmeno la sua voce rimanesse impressa nei ricordi del figlio:
conversare con
lui le costava uno sforzo enorme, quasi dovesse sradicare le parole dal
punto
più profondo della propria gola e spingerle fuori dalle
labbra a viva forza. Comunicava
per lo più rispondendo a mugugni e vaghi cenni della mano ai
tentativi di
conversazione del suo bambino. Lastar aveva imparato a esprimersi
ascoltando i
suoi coetanei, ma la sua prima parola gli aveva fatto guadagnare solo
un
aggrottamento delle sopracciglia fulve della madre: le sue ciarle
sarebbero
state un altro fastidio da sopportare.
Aveva
estrapolato la verità sulla sua
nascita ascoltando i pettegolezzi degli adulti e le maldicenze dei
ragazzi più
grandi. Sua madre aveva chiesto più volte di abortire, ma la
gravidanza era a
uno stadio troppo avanzato, e avrebbe rischiato di morire di
dissanguamento
durante l’operazione. Circolavano voci più o meno
fantasiose sulle maledizioni
che la donna aveva lanciato mentre lo partoriva; la più
accreditata era
“uccidete questo figlio di Satana”.
La
verità gli era piombata addosso come
una pioggia di pietre, ed era stato quasi seppellito dal peso di quei
macigni. Sua
madre non aveva mai risposto alle domande su suo padre
perché non voleva
ricordare l’uomo che l’aveva torturata durante la
prigionia. E non voleva
guardare suo figlio in viso per lo stesso motivo: con il passare degli
anni, i
suoi lineamenti tondeggianti si erodevano sempre più nel
calco di quelli del
padre, e i suoi occhi sanguigni, oggetto delle chiacchiere di tutta
l’Abbazia,
urlavano la loro origine diabolica.
Aveva
compreso anche la ragione per cui,
al contrario di tutti i suoi compagni, lui non aveva un nome: la gente
aveva
coniato in suo onore un variopinto ventaglio di epiteti, bisbigliati
con
malizia alle sue spalle; i bambini lo chiamavano “occhi
rossi”, e sua madre non
lo chiamava affatto. Credeva che lei avesse semplicemente bisogno di
più tempo
rispetto alle altre per scegliere un nome adatto al proprio figlio.
L’acido
di quelle scoperte si era
coagulato nelle sue viscere, e lui lo aveva spurgato dando di stomaco
per i tre
giorni successivi. Aveva sfiorato la disidratazione: era talmente
nauseato
dalla sua nascita e dal suo sangue sudicio che quella sensazione
ripugnante gli
risaliva l’esofago ed esondava dalle sue labbra
continuamente; i nervi a pezzi
gli avevano pompato le lacrime fuori dalle palpebre mentre si nutriva a
forza
da solo. Aveva tagliato il groviglio di capelli annodati passandosi una
lama di
rasoio sulla testa, sperando così di diminuire la
somiglianza con l’uomo che
aveva fatto soffrire sua madre, e, con le stesse intenzioni, aveva
nascosto le
iridi vermiglie dietro gli occhiali.
Gli
anni avevano sbiadito le sue
speranze e alimentato la convinzione di non essere al suo posto
nell’Abbazia.
Ed era giunta quella sera.
«Me
ne vado» annunciò alla schiena
della madre. Le spalle di lei si contrassero, ma non una parola
volò nell’aria.
«Non sarò più un peso per nessuno. E tu
potrai smetterla di nasconderti per la
vergogna di avere un figlio mezzosangue.»
L’aria
si condensò in ghiaccio a
quell’accusa, e nessuno dei due trovò parole
abbastanza calde da sciogliere
quel gelo.
Lastar
aveva afferrato la coperta in
cui aveva raccolto i propri averi e se l’era caricata in
spalla. Sua madre gli parlò
per la prima volta in due mesi, senza però guardarlo:
«Mi
dispiace.»
Il
ragazzo non mosse nemmeno un
muscolo. Se quella scusa fosse arrivata anni prima, quando era ancora
un
bambino speranzoso, probabilmente si sarebbe messo a piangere dalla
gioia, e si
sarebbe gettato ad abbracciare quelle spalle refrattarie. Ma il bambino
aveva
abdicato in favore dell’adolescente cinico.
«Ti
sei accorta che porto gli
occhiali?»
«Li
hai messi oggi?» raspò la madre.
«Li
porto da quando avevo cinque anni.
Da otto anni» specificò; non nutriva
l’illusione che sua madre si ricordasse
addirittura la sua età. «E tu non li hai mai
notati. Non hai notato nemmeno che
mi rasavo sempre la testa per non farti vedere i tuoi capelli sul viso
dell’uomo che odi. Mi sono sempre curato da solo i tagli che
mi facevo quando
ancora non sapevo usare il rasoio. E scommetto che non sai se i miei
capelli
siano ricresciuti o no» un silenzio colpevole si
dipanò nella distanza
incolmabile tra di loro, e Lastar terminò, adamantino:
«Per cui non dire che ti
dispiace. Sii sincera, e dì che sei felice che finalmente
“il figlio di Satana”
sparisca dalla tua vita.»
«Mi
dispiace…»
«Non
è vero. Se davvero ti fosse
dispiaciuto, ti saresti voltata per salutarmi. Ti saresti voltata per guardarmi, almeno una volta in tredici
anni. Se non puoi darmi affetto, almeno sii onesta con me.»
Abbandonò
sua madre nel modo in cui lei
lo aveva sempre trattato: in silenzio, senza guardarla, voltandole le
spalle,
mentre lei farfugliava qualcosa che non avrebbe ottenuto risposta.
Le
guardie della Abbazia non lo avevano
fermato quando aveva varcato i cancelli: perfino loro si erano sentite
sollevate al pensiero di essere liberate dalla maledizione di quegli
occhiacci
rossi. Avevano lasciato che si addentrasse nel bosco che sommergeva la
fortezza,
sperando che il demone o l’angelo che si sarebbe cibato di
lui non lo facesse
soffrire troppo nell’ucciderlo.
Lastar
aveva cominciato a camminare
senza una meta e senza uno scopo: la sua testa era occupata da una
confusione
letale, così densa da non permettergli di capire se
desiderasse vivere o
morire. Aveva vagabondato finché non era stato davvero
raccolto da un demone. Il
più irrazionale di tutti.
Lastar
si svegliò di soprassalto con il
viso di Deimos marchiato a fuoco nelle pupille.
Si
passò una mano sugli occhi, e
allungò l’altra verso il comodino per recuperare
le lenti da vista. In tanti
anni, non era mai riuscito a buttarle. Osservò il suo
riflesso bombato sugli
occhiali prima di inforcarli. Le spine acri dell’affetto che
aveva continuato a
provare per la madre, nonostante tutto, gli impedivano di rinunciare
alla sua
barriera di vetro: se, quella notte, avesse davvero abbandonato ogni
speranza
all’Abbazia assieme alla genitrice, non si sarebbe fermato
dopo qualche metro
per piangere contro un albero. Aveva cercato di uccidere ogni germe di
illusione dentro di lui, ma qualche bacillo era rimasto: fino
all’ultimo, aveva
sperato che la madre si voltasse finalmente verso di lui e gli
chiedesse di
restare.
Non
nutriva più quei desideri puerili
da tempo: gli occhiali erano diventati un espediente per non
costringere gli
altri a fissare troppo direttamente le sue iridi spaventose. E un modo
per
ricordare a se stesso che quei giorni, per quanto orribili, facevano
parte del
suo passato: non li avrebbe rinnegati come sua madre aveva fatto con
lui per
tredici anni.
Lo
specchio lo colpì a tradimento con
un’immagine perfettamente sana del suo viso e del suo corpo,
ad eccezione della
stella di pelle cauterizzata sulla spalla. Alla luce del giorno,
l’opera di
Deimos appariva ancora più prodigiosa: la guancia era
perfettamente intonsa,
come se nulla l’avesse mai scalfita. Nessuna medicina umana
avrebbe potuto
replicare un simile effetto.
Non
rimase troppo tempo a rimirare la
cicatrizzazione miracolosa: si affrettò anzi a recuperare la
medicazione che
Deimos gli aveva strappato la sera prima, e la applicò
nuovamente sul viso. Non
voleva fornire spiegazioni riguardo alla sua straordinaria guarigione.
Si
drappeggiò addosso la tunica del suo
Ordine, e sistemò velocemente tutti i lacci e i bottoni.
Alexander aveva
indetto una riunione generale per quella mattina. Non poteva tardare in
alcun
modo.
Uscì
dalla stanza, lasciando dietro di
sé i ricordi gravosi del passato e le memorie conturbanti
della sera precedente.
***
Il
cuore si schiacciava su se stesso,
come sottoposto a una pressione troppo forte, nel petto di coloro che
percorrevano il pavimento marmoreo della Navata.
Con
i vari piani di file, troni e
seggi, scolpiti in legno indeformabile e scrupolosamente distanziati
tra di
loro, la gigantesca sala trasmetteva un’idea di perfetto
ordine mummificato nel
tempo: ogni nicchia era ben separata dalle altre, a rimarcare le
differenze
incolmabili di ruolo e rango tra i diversi occupanti; la sua struttura
robusta
e severa emanava un’aura di fissità quasi
soffocante.
Lastar
prese posto nel suo
compartimento – quarta fila a partire dall’alto,
primo posto a destra – e si
servì un’occhiata del panorama.
La
megalomania dell’artista che aveva
affrescato la Cattedrale sarebbe rimasta impressa nei secoli grazie al
dipinto
che rivestiva l’intera Navata, ad esclusione delle colonne e
delle pareti
interne delle nicchie: la storia del mondo veniva ripercorsa nelle sue
date più
salienti, dall’avvento dei Grandi Saggi e dei Grandi Stregoni
fino alla loro
degenerazione in angeli e demoni. Avrebbe portato i mocciosi alla
Navata, per
la lezione successiva: sarebbero rimasti tutto il tempo con il naso per
aria e
la bocca aperta, e lui avrebbe potuto evitare di tenere una di quelle
urticanti
lezioni di storia elementare.
Perfino
la disposizione delle luci era
stata ideata in modo da rimarcare l’inflessibile gerarchia
secondo cui la
Cattedrale era organizzata: le ombre erano ricacciate negli anfratti
della Navata
dalle polverose lampade a olio, sorrette da pomposi lampadari; candele
più
modeste rischiaravano le nicchie degli strati più bassi.
Lastar
osservò i suoi colleghi di
piano: Cy stava zoppicando lentamente verso il seggio di Capo
Scienziato,
mentre le altre tre Stelle Cardinali sedevano perfettamente composte
contro gli
scomodi schienali di legno massiccio, indirizzando sguardi di granito
alle file
superiori, dove stavano prendendo posto i Messi, il Cardinale, il
Diacono e
infine, al primo livello, il Monsignore.
I
suoi occhi purpurei scrutarono le
file sotto di lui, in cui le tenebre andavano infittendosi man mano che
si procedeva
verso il basso: gli ultimi livelli parevano un mare di pece in cui
erano
affondate per sbaglio alcune perle di luce morente.
Esattamente
sotto i suoi piedi,
Esorcisti e Scienziati affollavano il quinto piano; coloro che
ricoprivano i
ranghi più elevati sedevano su seggi rialzati, che perdevano
altezza ed
eleganza fino a diventare normali panche per gli Scienziati e gli
Esorcisti
comuni. Più sotto ancora si trovavano i Maghi: la rampa
degli Stregoni era
simmetrica a quella degli Scienziati, come quella dei Saggi lo era alla
fila degli
Esorcisti. All’ultimo livello, inginocchiati sulle gradinate
imbottite, stavano
gli Ordini Supplicanti, visibili dall’alto come una fila
puntiforme di cappucci
grezzi e umili veli ingrigiti dall’oscurità. I
Mestieri e il popolo non erano
autorizzati a presenziare alle riunioni di quel tipo.
A
ogni classe era stato assegnato un
colore, per rimarcare ulteriormente l’appartenenza a una
determinata casta e
l’obbligo di accettare tutti i privilegi e le proibizioni che
il proprio ruolo
prevedeva. Gli Ordini Supplicanti erano spartiti tra i sai marroni dei
Fratelli
e le tonache bianche delle Sorelle; il verde distingueva gli Stregoni
dai Saggi
vestiti di blu, i camici grigi disgiungevano gli Scienziati dalle
divise nere
degli Esorcisti. Ai piani più elevati spiccavano il viola e
l’argento del Messo
Divino, contrapposti all’arancione striato di bronzo del
Messo Infernale;
l’opulenza aumentava nello zafferano venato di rame del
Cardinale e del
Diacono, per raggiungere il proprio apice nel rosso e oro che
caratterizzavano
le vesti del Monsignore.
Alcuni
dettagli permettevano di
discernere il grado rivestito all’interno del proprio Ordine:
Cy, in quanto
Scienziato Capo, indossava una magnifica spilla le cui spire di platino
si
annodavano attorno ad un piccolo diamante, ben diversa dai metalli semi
preziosi e mal lavorati degli accessori dei suoi sottoposti; allo
stesso modo,
i bottoni che chiudevano le divise di Lastar e delle altre Stelle
Cardinali
erano piccoli capolavori di oreficeria, mente i loro subordinati
dovevano
accontentarsi di rifiniture assai meno pregiate. Inoltre, ognuna delle
Stelle
era distinguibile tra i suoi pari grazie al colore dei citati bottoni e
di qualunque
orpello presente nel proprio vestiario: gli ornamenti spartani di
Lastar
rispecchiavano il rosso pallido del sole che sorge a Est.
L’attenzione
maniacale per i dettagli e
le suddivisioni era spiegata nei Codici come la precauzione necessaria
a
identificare immediatamente il proprio interlocutore, per sapere a chi
rivolgersi durante un’eventuale situazione di emergenza.
Più di una volta,
Lastar aveva ritenuto misera quella giustificazione così
vaga.
Il
Monsignore sollevò il proprio stemma
– un leone d’oro che stringeva tra le fauci un
rubino acuminato - e batté sul
parapetto per tre volte con la pietra.
Sulla
Navata calò il silenzio, e la
riunione cominciò.
L’architetto
che aveva progettato la
Navata aveva riservato una cura particolare all’acustica: la
voce del
Monsignore riecheggiava con la stessa nitidezza in tutti i livelli,
rendendogli
possibile parlare senza sforzarsi eccessivamente.
Lastar
rischiò di addormentarsi mentre
i piani superiori discutevano con gli Ordini Supplicanti di questioni
soporifere
inerenti al clero. Alexander gli lanciò uno sguardo di
rimprovero dall’alto
della sua postazione di Messo Celeste, che la Stella ignorò
con enorme impertinenza:
era per colpa della sua negligenza nel trattare i pazienti se si era
affidato
alle cure di un demone.
«Ordine
degli Esorcisti, Grado Stella
Cardinale dell’Est, Lastar Godgrace.»
La
sua qualifica si allungò sfarzosa sulle
labbra del Monsignore. Lastar chinò la testa prima di
alzarsi in piedi.
«Ordine
degli Scienziati, Grado
Scienziato Capo, Cy» annunciò cerimoniale il
Monsignore.
Un
rapido bisbiglio sfrecciò sulle
bocche dei meno abituati a quella sala, e si spense l’istante
successivo. L’assenza
del cognome dello Scienziato Capo destava sempre meraviglia: si
riferiva che i
suoi genitori detestassero a tal punto lui e la sorella da non aver
voluto
lasciare loro nemmeno il cognome, per troncare ogni legame con quei
fagotti
indesiderati; quella leggenda da sobborghi giustificava la mancanza di
nome
familiare dello Scienziato Capo e del Messo Infernale, Drew. Lastar
aveva
evitato lo stesso destino grazie ad Alexander, che aveva inventato un
cognome
apposta per lui tanti anni prima.
«Vogliate
spiegarci le modalità
dell’intrusione verificatasi nella giornata di
ieri» lo pregò imperativo il
Monsignore.
«Siamo
stati aggrediti da Aamon
l’Alchimista e Pruslas l’Assassina, rispettivamente
Primo e Secondo Assistente
di Astaroth, demone superiore di estrazione nobiliare»
scandì Cy, solenne
nonostante le gambe malferme e le nocche sbiancate
sull’impugnatura delle
stampelle.
«Avete
riportato alcun tipo di danno?»
s’informò atono il Monsignore.
«La
Stella Cardinale dell’Est è stata
ferita alla guancia dal pugnale dell’Assassina, e alla spalla
dalla freccia che
ha infranto la vetrata nel corridoio ovest del primo piano»
riferì lo
Scienziato Capo.
Lastar
sostenne impavido lo sguardo
rapace con cui il Cardinale frustò il bendaggio sul suo
volto.
«Siete
stato aggredito da demoni
temibili, Stella dell’Est. Lodo la vostra mirabile
capacità di ripresa» si
complimentò l’uomo, con il tono pruriginoso delle
insinuazioni. Il Cardinale
non aveva mai nutrito particolari simpatie per lui. Le sue parole,
specie
quelle non pronunciate, trasudavano pensieri malevoli: un essere con il
sangue
sporco come quell’ibrido non avrebbe mai dovuto avere il
diritto di vivere
insieme agli esseri umani, tantomeno di sedere su uno degli scranni
più alti
della Navata. Se il mezzosangue fosse stato ucciso mentre difendeva la
Cattedrale, il Cardinale non avrebbe sprecato nemmeno una stilla di
rammarico
per compiangerlo.
«Vi
ringrazio» si schermì Lastar. «Ma
è
merito del pronto intervento del Messo Divino, Alexander Holycross, se
ho
potuto riprendermi così in fretta.»
Il
Cardinale sembrò rinfrancato dal
poter rivolgere i suoi elogi altrove, e il Diacono proseguì
nell’inchiesta:
«Come
hanno potuto valicare le protezioni
della Cattedrale?»
«Riteniamo
che Astaroth li abbia
aiutati» ammise Cy.
Le
fronti dei tre piani più alti si
corrugarono per il risentimento.
«Ma
Astaroth, Duca del Terrore, ha
stretto un patto con il nostro Messo Infernale»
replicò il Diacono.
«Ordine
dei Messi, Grado Messo
Infernale, Drew» citò il Cardinale.
«Avete omesso di informarci dello
scioglimento del patto?»
La
ragazza si issò con maestosità nella
sua esigua statura: non arrivava alle spalle del più basso
degli uomini, ma il
potere che scorreva silenzioso nelle sue vene inceneriva ogni possibile
scherno
sulla lingua dei suoi interlocutori.
«Non
peccherei mai di una simile
mancanza» si discolpò lei. «Il patto
è vivo e solido come il giorno in cui è
stato stipulato. Se permettete, interrogherò personalmente
il Duca del Terrore
a riguardo.»
«Siete
certa che vi risponderà?»
«I
demoni non concepiscono sentimenti
speculari ai nostri, ma sono vincolati da un rigido codice
d’onore. Un demone
non lascia mai un interrogativo in sospeso, e risponde sempre con la
verità»
proclamò Drew.
«Ma
è comunque possibile che ometta ciò
che potrebbe metterlo in difficoltà» insistette il
Cardinale.
«Sono
stata scelta per questo ruolo
proprio perché so come strappare confessioni ai
demoni» ricordò con cortese
fermezza la ragazza. «Non temete: vi fornirò le
spiegazioni che cercate, entro
questa sera stessa.»
Il
Monsignore accolse la sua proposta
con un cenno affermativo della testa, e le restanti file non poterono
che
seguire la sua decisione e approvare a loro volta.
«Siete
a conoscenza delle cause di
questo increscioso attacco?» indagò il Diacono.
Le
croci metalliche di Lastar
sfregarono tra di loro quando il giovane sciolse le braccia dalla
posizione
conserta.
«Hanno
affermato che due ladri presenti
nella Cattedrale hanno rubato il vero Aamon al loro signore»
rispose, secco.
Il
Diacono lo fissò con perplessità.
«Perdonatemi,
ma non è Aamon il nome
del Costrutto contro cui avete combattuto?»
vacillò.
«Sono
confuso quanto voi» dichiarò
sincero Lastar. «Ma hanno insistito su questo
punto.»
«Hanno
rivelato perlomeno il nome di
questi presunti ladri?» si innervosì il Cardinale.
Le
stampelle di Cy batterono un colpo
contro il rivestimento di legno della nicchia.
«Pruslas
l’Assassina ha additato me
come uno dei due ladri. Ma posso giurarvi sulla mia stessa vita che non
ho mai
sottratto nulla ad Astaroth» annunciò Cy, la voce
ferma nonostante il pallore
del viso. «E hanno affermato che il secondo ladro si
intrometterebbe in un
eventuale chiarimento tra me e il Duca del Terrore.»
«Per
quale motivo?»
«Le
ragioni mi sono oscure» rivelò
sconsolato lo Scienziato Capo.
Gli
sguardi dell’intera Navata
ruotarono verso il Monsignore, che si rilassò in qualche
secondo di silenzio
prima di sentenziare:
«Maghi
della Quinta Cerchia, Stregoni e
Saggi, ripristinate le difese attorno alla Cattedrale. Rinforzate gli
scudi,
moltiplicate gli emblemi di allarme, costruite trappole magiche:
elaborate un
piano di difesa e presentatelo al Diacono entro questo pomeriggio.
Esigo che i
lavori siano cominciati entro sera, e finiti entro la mattina.
Scienziati,
pretendo da voi la medesima serietà: elaborate nuovi sistemi
difensivi, e
presentateli al Cardinale quanto prima. Stelle Cardinali, riorganizzate
i turni
di pattuglia dei vostri Esorcisti e intensificate gli allenamenti dei
Discepoli. Ordini Supplicanti, sgomberate le vecchie aule inutilizzate
e
rendetele fruibili come postazioni di pronto soccorso in caso di
attacco. E
fate in modo che nulla di tutto ciò trapeli nel volgo: se
Elohim cade nel
panico, trascinerà con sé tutte le Cattedrali e
le Abbazie ancora esistenti.»
I
tre colpi di rubino sancirono la fine
della riunione.
Lastar
cercò di abbandonare la sua
postazione più in fretta possibile, ma Alexander prevenne la
sua strategia di
fuga.
«Tu
stai nascondendo qualcosa» l’accusa
saettò tagliente verso l’Esorcista.
La
Stella dell’Est non poté fare a meno
di chiedersi come Alexander potesse essere così veloce con
la divisa da Messo
Celeste addosso: sebbene la tunica ametista non costituisse un grosso
peso,
nemmeno sommata ai calzoni o alla tiara argentata che gli stringeva la
fronte,
i rinforzi in metallo degli stivali, la cotta di maglia e i guanti
ferrati
avrebbero dovuto rallentare i suoi movimenti.
«La
vecchiaia ti sta facendo diventare
paranoico» lo insultò velocemente Lastar.
«Togliti
la benda. Se non lo farai, la
considererò un’ammissione di
colpevolezza.»
Era
così abituato all’immortale
sorrisetto sul volto scultoreo di Alexander che l’improvvisa
serietà delle
iridi olivastre lo atterrì tanto da convincerlo ad obbedire.
Poche volte il
Messo Celeste ricorreva al divario che si apriva tra di loro per
ottenere
disciplina, e, quando ciò avveniva, quell’abnorme
baratro lasciava Lastar
abbastanza disorientato da renderlo mansueto.
L’Esorcista
staccò piano una porzione
di benda, mettendo a nudo la pelle compatta. La mano di Alexander
calò sulla
sua, e coprì la gota compromettente.
«Immagino
che sia superfluo chiederti
di mostrarmi anche la spalla» mormorò grave.
«È
così problematico che io sia
guarito?» sgroppò Lastar, ma il tono di Alexander
polverizzò il suo spirito di
ribellione:
«Sì, lo
è. Queste ferite non guariscono in un
giorno solo» il Messo gonfiò il petto in un
vistoso sospiro, che sfruttò per
sommergerlo di critiche quando espirò: «Non ti
rendi conto della tua posizione,
Lastar? Il Cardinale sfrutterebbe ogni occasione per buttarti fuori
dalla
Cattedrale, in pasto ai demoni o agli angeli, e tu gliene stai servendo
un’infinità.»
«Non
ho fatto nulla per cui il
Cardinale potrebbe condannarmi» replicò Lastar.
«Invitare
un demone ad Elohim è un
reato punibile con la morte» sibilò a denti
stretti Alexander. «Lo hai
incontrato svariate volte, e ha addirittura trascorso una serata qui,
nella
nostra Cattedrale. E lo hai fatto tornare per curarti.»
«Non
rappresenta un pericolo: è l’unico
di tutta la sua specie a non cibarsi di esseri umani.»
«E
credi che questo rappresenti una
difesa solida?»
«Credo
che non avrò bisogno di
difendermi, se il segreto non trapelerà.»
«Allora,
Lastar, non vedere mai più
quel demone. Non sfidare ulteriormente la sorte.»
«Non
posso promettere una cosa del
genere.»
All’improvviso,
Alexander vide la sua
stessa sicurezza negli occhi amaranto dell’Esorcista: la
soggezione dovuta alla
sua età e al suo grado superiore erano sparite, in onore
dello stendardo eretto
in difesa del Principe Irrazionale.
«Perché
non puoi farlo?» reiterò
Alexander, una punta di esasperazione nella voce. «Non
capisci che ogni tuo
incontro con lui può condurti alla scomunica o
all’esilio?»
Lastar
rialzò il capo, stese le braccia
in posizione marziale lungo il corpo e troncò la discussione
senza ulteriori
indugi:
«Non
prometterei una cosa simile
nemmeno se me lo imponesse Lucifero in persona.»
***
La
schiena di Astaroth sembrava
soffrire la nostalgia del triclinio a giudicare dalla curva senza forza
in cui
era afflosciata: il corpo pigro del Duca del Terrore era nato per
essere
sorretto da comodi cuscini, e non dall’aria. Il demone
leccò il sangue argenteo
dalle labbra, sperando che il sapore agrodolce degli angeli lo aiutasse
a
sopportare quello strazio.
Il
Messo Infernale di Elohim lo aveva
chiamato, e lui aveva dovuto sacrificare gli agi della sua reggia per
onorare
il codice dei demoni: non si rifiutava mai udienza a un umano con cui
si era
stipulato un contratto.
Le
pupille vacue ciondolarono sulla
figura del Messo. Elohim aveva scelto una ragazza senza particolari
meriti di
bellezza come tramite con i demoni: il castano dei capelli non sarebbe
stato
ricordato per il suo splendore, così come la pelle
abbronzata non aveva nulla
in comune con la delicatezza della seta. Il corpo minuto era stato
plasmato
nella forgia della battaglia e non in quella dell’amore, e
molte morbidezze
femminili erano state soffocate dagli allenamenti sfibranti. Tuttavia,
perfino
il Duca del Terrore riconosceva a quella ragazza la capacitò
di imporre la sua presenza agli
altri: la
sua aura cancellava i suoni, i colori e le immagini del mondo,
convogliando lo
sguardo dell’interlocutore esclusivamente su di
sé. Se non avesse vissuto per
così tanti secoli, forse si sarebbe sentito attratto da
quella forza d’animo,
alimentata dal potere che la giovane aveva imparato a padroneggiare con
tanti
sforzi.
Non
erano stati però né il suo aspetto
comune né il suo spirito quasi inumano a spingere il Duca
del Terrore a
scegliere lei come Messo con cui stringere un patto, tra tutti gli
emissari
esistenti al mondo. Erano stati i suoi occhi; non il mogano delle
iridi, ma la
loro forma a goccia, lievemente inclinata
all’insù, così identica
a quella che aveva perseguitato i sogni e gli incubi del
demone da quella notte.
«Mi
hai chiamato» le parole si svolsero
affaticate sulle labbra bagnate del diavolo.
«Esigo
risposte» esordì Drew.
Il
serpente d’oro scintillò sul polso
del Duca, quando questo sollevò una mano per passarla tra le
lunghe ciocche
acquamarina.
«Che
genere di risposte?»
«Avete
attaccato la nostra Cattedrale.»
«Non
ho abbandonato il mio salone. E
avrei preferito continuare a farlo.»
«I
vostri assistenti, allora.»
«È
stata una loro libera iniziativa.»
«Credevo
che il Duca del Terrore avesse
un migliore controllo dei suoi sottoposti.»
L’insulto
non superò il muro gommoso
dell’accidia del demone: vi rimbalzò contro, e
giacque a terra, inascoltato.
«Inoltre,
i vostri assistenti hanno
asserito di aver agito per recuperare qualcosa che vi è
stato rubato» aggiunse,
per nulla intimidita dalla resistenza passiva del nobile.
«Potrei sapere di
cosa si tratta?»
«Assolutamente
no.»
Non
si era aspettata una replica così
assoluta e così immediata dal demone indolente, per cui
impiegò un secondo più
del solito per articolare una risposta.
«Dovete
parlarmene, o perlomeno
accennarmene» patteggiò.
«Non
ho alcun dovere a riguardo. I miei
affari personali interessano me soltanto» sillabò
lemme Astaroth.
«I
vostri affari sono quasi costati la
vita alla Stella dell’Est»
s’infiammò Drew.
«Che
sarà sicuramente preparato a
questo tipo di evenienze, o non sarebbe degno di essere chiamato
“Esorcista”»
gli occhi neri di Astaroth si appuntarono sul gioiello a forma di
serpente,
quasi fosse un interlocutore migliore del Messo Infernale.
«Se
non chiarirete le cause di questo
incidente, saremo costretti a considerare nullo il nostro
patto.»
«Il
che andrebbe a vostro esclusivo
svantaggio» l’espressione annoiata di Astaroth non
mutò nemmeno nel pronunciare
la condanna: «Posso trovare altri modi per nutrirmi, anche
senza essere legato
ad Elohim. Mentre la Cattedrale avrebbe molte più
difficoltà ad accordarsi con
altri demoni.»
Drew
portò la mano destra sotto il
cappuccio della pellegrina per toccare la “C”
arabescata che aveva fatto
tatuare sul collo. L’iniziale del fratello, per trovare
coraggio nei momenti di
sconforto e ricordarsi che era per lui che stava ancora combattendo.
Le
parole del Duca corrispondevano alla
verità. Il patto tra demone e Messo Infernale era semplice:
il Messo avrebbe
offerto nutrimento al diavolo, e avrebbe accettato che una porzione
della sua
anima venisse divorata negli intervalli e secondo le procedure previste
dal
contratto. Per anni aveva versato ogni goccia del suo sangue negli
allenamenti
che le avrebbero permesso di ripristinare la parte di anima perduta: il
procedimento era lungo e complesso, e aveva impiegato mesi e mesi solo
per
afferrarne il funzionamento. Aveva imparato a sfruttare la sua energia
magica
per supplire alla sezione di spirito di cui il demone si sarebbe
cibato, e
occorrevano settimane perché il processo potesse
completarsi. Un Messo poteva
stringere il patto con un solo demone, o avrebbe rischiato la vita o,
assai peggio,
l’esistenza senza anima: giorno dopo giorno senza provare la
minima emozione,
senza avvertire odori e sapori, con gli occhi spenti e il corpo vuoto
come una
caverna abbandonata.
I
sacrifici del Messo avrebbero procurato
però un enorme beneficio: il demone con cui il patto fosse
stato stretto si
sarebbe impegnato a non attaccare la Cattedrale o la Abbazia, e si
sarebbe
assicurato che anche i suoi sottoposti e gli inferiori nella gerarchia
demoniaca si attenessero a quel pacifismo forzato. Accaparrarsi
l’attenzione di
Astaroth, secondo solo alla famiglia reale, era stata una vera
benedizione per
Elohim: da quando il patto era stato stipulato, solo alcuni demoni
inferiori, troppo
primitivi per comprendere i comandamenti dei diavoli più
nobili, avevano
cercato di attaccarli. Grazie a quel contratto, Elohim godeva di
un’ottima
protezione, e poteva permettersi di inviare i suoi Esorcisti come
supporti
occasionali nelle altre roccaforti; questo le aveva permesso di
divenire il
baluardo della resistenza umana. Ma se Astaroth avesse deciso di
ritirarsi dal
patto, ogni garanzia sarebbe andata perduta, e la Cattedrale sarebbe
tornata ai
nefandi giorni in cui ogni alba segnava una nuova lotta contro i
molteplici
assalti dal confine poco distante.
«Se
mi direte di che oggetto si tratta,
potrei aiutarvi a recuperarlo. In questo modo voi otterrete di nuovo
ciò che vi
è stato sottratto» mercanteggiò Drew.
«E
voi potrete continuare a rilassarvi
all’ombra della mia protezione» concluse con
flemmatica spietatezza Astaroth.
«Aamon
l’Alchimista ha detto che state
cercando il vero “lui”»
seguitò Drew, ignorando lo schiaffo verbale del
diavolo. «Cosa intendeva, esattamente?»
Nel
bordo rossastro delle iridi onice
del demone avvampò una brama insana, subito inabissata nel
solito tedio; il
cambiamento fu così fulmineo che la ragazza per un attimo
credette di averlo
solo immaginato.
«Se
anche ne parlassi, non ne trarrei
alcun beneficio» si lamentò aristocratico il Duca.
«Mettetemi
alla prova» lo sfidò
garbatamente Drew.
Di
nuovo, la cornice di sangue si agitò
in una smania irrefrenabile, e, come in precedenza, la fiamma
tornò
immediatamente a covare sotto la cenere.
«C’è
una persona che non deve
assolutamente sapere ciò che sto per dirti»
premise Astaroth.
«Le
mie labbra saranno sigillate»
garantì Drew.
La
testa del Duca dondolò un paio di
volte, senza nerbo, poi l’argento delle labbra si
increspò.
«Alexander
Holycross. Se ti lascerai
sfuggire un solo fiato, considererò nullo il
contratto.»
La
serenità oziosa con cui Astaroth
parlò della possibile distruzione della Cattedrale
scatenò una tempesta di
ghiaccio nelle vene del Messo. Quel demone, nella sua decadente
malvagità, era
mille volte più spaventoso di qualunque altro diavolo: molti
satanassi erano
abbastanza arroganti da dare lustro ai propri poteri e alle nefandezze
da essi
derivate; al contrario, Astaroth segregava nel silenzio la smisurata
ampiezza
della propria forza e tumulava le proprie intenzioni nel loculo del
viso
disattento, negando al nemico ogni possibile indizio sui pensieri
cristallizzati
dietro i suoi occhi immobili, o sulla portata dei suoi poteri
addormentati. Il
nobile pareva la personificazione del fulmine: riposava nascosto in una
fitta
coltre di nubi fino all’imprevedibile momento in cui la sua
furia si sarebbe
abbattuta sulla terra; gli uomini non potevano che tremare e augurarsi
di
sopravvivere a una simile sciagura. La pericolosità sopita
dei suoi poteri, la
calma malvagità della sua mente e l’impigrita
impenetrabilità del suo volto
erano le caratteristiche che lo rendevano il Duca del Terrore.
«Perché
non devo parlare con lui?»
«Perché
lui ti ostacolerebbe nel
riportarmi ciò che mi è stato tolto. E, se
davvero vuoi aiutarmi, dubito che tu
voglia avere come avversario il Messo Celeste» anche quella
risposta fu
straordinariamente pronta per la bocca intorpidita del demone.
«È
per caso uno dei due ladri?» il
diavolo batté lentamente le palpebre in quella che era la
sua personale
manifestazione di smarrimento. Drew circoscrisse l’argomento:
«Pruslas
l’Assassina ha parlato di due ladri. E ha detto che uno dei
due è mio
fratello.»
Le
unghie limate si incontrarono davanti
al viso del demone, pensose.
«Pruslas
deve imparare a esprimersi più
correttamente» ponderò Astaroth. «No, il
ladro è Alexander.»
«E
per quanto riguarda mio fratello?»
Drew premette le dita sul tatuaggio, un’orribile sensazione
annidata sul fondo
dello stomaco.
Le
palpebre mirabilmente truccate del nobile
si incontrarono di nuovo, e le labbra argentate si incurvarono in un
sorriso
malevolo. Intravide il bagliore del sadismo sul viso di Astaroth quando
questo
mormorò:
«Tuo
fratello è ciò che cerco. Me lo
consegnerai, per il bene di Elohim?»
***
«Davvero
non mi lasceresti andare
nemmeno se te lo ordinasse mio padre?»
L’asciugamano
bagnato gli scivolò tra
le mani come un’anguilla; Lastar recuperò
velocemente i bordi e se li avvolse
attorno ai fianchi, prima di rivolgersi rabbioso alla porta del bagno.
«Cosa
sei venuto a fare?» ruggì.
«Mi
godo un bello spettacolo» cinguettò
Deimos, acquattato sulla soglia con il mento accoccolato tra le mani.
«I
vestiti minimizzano i tuoi muscoli, sai?»
Lastar
non aveva mai posto particolari
limiti alle visite del demone, sapendo in anticipo che Deimos li
avrebbe
infranti con irritante spensieratezza. Ma si augurava che il Principe
avesse il
buonsenso di non piombare nella sua camera, nel
suo bagno, mentre lui era impegnato a lavarsi.
«Puoi
voltarti mentre mi vesto?» sibilò
Lastar, inforcando gli occhiali come protezione.
«Certo
che posso» Deimos si stese sul
pavimento e rotolò su se stesso, trovandosi supino.
«Ma non ho alcuna
intenzione di farlo.»
«Devo
vestirmi.»
«No,
non devi. È un pensiero coatto che
ti ha instaurato la società.»
«Devo
vestirmi.»
«Fai
pure come se io non fossi qui.»
La
riunione non lo aveva stancato, i
lavori di riorganizzazione non lo avevano sfinito, ma Deimos sarebbe
riuscito
ad ammazzarlo, se solo avesse provato con sufficiente ardore.
«Te
lo chiedo ogni volta, forse per
abitudine o forse per soddisfare una vena masochista che non sapevo di
avere»
finse di essere sordo alla battuta sconcia di Deimos
sull’autolesionismo e
terminò: «Perché sei venuto
qui?»
Il
Principe raccolse le ginocchia al
petto, sorprendendolo con il suo silenzio.
Le
parole di Astaroth e quelle di
Lastar si scontrarono nella sua testa, sprizzando scintille.
Nonostante
l’atteggiamento scontroso e
le continue negazioni, il sentimento che l’Esorcista nutriva
nei suoi confronti
era indubbio. L’ipotesi avanzata dal Duca del Terrore lo
aveva ferito a quel
modo perché non aveva negato l’esistenza di
quell’emozione, ma aveva gettato
un’ombra funesta sulla sua possibile evoluzione.
Per
quanto irrazionale, Deimos non era
uno sciocco: sapeva che, anche se l’Esorcista fosse diventato
il suo amante
ufficiale, la loro relazione non sarebbe stata semplice. Non solo per i
sovrabbondanti
ostacoli in entrambi i mondi: il suo carattere incostante, la natura
inaffidabile
che sfuggiva a lui stesso, lo avrebbe portato a tradirlo pur essendo
innamorato
di lui. Era un’azione insensata, per questo era sicuro che
l’avrebbe commessa.
Non
voleva che Lastar credesse di
essere uno dei tanti: non lo
era mai stato, fin dal giorno in cui il Principe aveva raccolto quel
mucchietto
d’ossa bellicose nel bosco intorno all’Abbazia.
La
profezia del Duca poteva essere
corretta: se si fosse unito a lui, Lastar avrebbe potuto pensare di
essere il
capriccio di una notte, e che il sentimento del demone non fosse forte
come
pretendeva.
Deimos
si arruffò i capelli con rabbia:
pensare non era mai stato il suo punto forte. Meglio assecondare la sua
natura e
cavalcare l’impulso del momento.
Sentì
Lastar sobbalzare e irrigidirsi
quando poggiò il viso sulle sue cosce, coperte solo
dall’asciugamano. Se
protestò a voce, Deimos non lo udì: poteva
avvertire il calore dell’Esorcista
attraverso il tessuto, e respirare il suo odore mischiato a quello del
sapone.
Forse
interruppe un discorso di rivolta
a metà, ma non se ne curò; poggiò le
mani sulle gambe dell’Esorcista, una sul
ginocchio e una pericolosamente vicina all’inguine, chiuse
gli occhi e mormorò
suadente:
«Lastar,
se ti chiedessi di dividere il
letto con me, per questa notte… che cosa
risponderesti?»
Quarto
capitolo<3
Scusate
l’attesa, il periodo di esami (finalmente CONCLUSO!!!)
è stato particolarmente
stressante çAç
Grazie
a tutti coloro che sono arrivati a leggere fin qui. Mi rendo conto che
il
capitolo ha lasciato molti interrogativi in sospeso, ma non temete: i
prossimi
capitoli sveleranno ogni arcano<3
Ciò
detto, torno subito a scrivere<3
A
presto!
Red
P.S.
Come sempre, per i dettagli tecnici consultate il Commentario.
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