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Autore: Yvaine0    17/02/2013    7 recensioni
Ero in treno da un'ora verso il nulla più totale.
Perchè? Probabilmente tutto era iniziato quando mio fratello aveva iniziato a parlare. Fin da subito aveva capito la sua vocazione: sparare stronz-...sciocchezze. E così, litigio dopo litigio, nostra madre era impazzita e aveva deciso di spedirci tutti e due a vivere da qualche parte lontani da loro.

Pan Fletcher, diciottenne, ragazza di città, si ritrova catapultata in un mondo a lei estraneo, caratterizzato da laboriosità, aria pura, e sentimenti sinceri. Armata di mp3, di un bizzarro interesse per le mucche e di un rassicurante manuale di sopravvivenza create da lei stessa, affronta questa avventura che la vita le regala senza ben sapere cosa pensare di tutto ciò che le sta per accadere.
"Che diavolo ci fai qui?"
"Che diavolo ci fai TU qui! Questa è casa di mio nonno!"
"Io qui ci vivo!"
Fissai il ragazzo in cagnesco per qualche istante. "Bè, anche io!"
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cows and jeans'
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Cows and jeans
 
40
 
 

Camminavo alla cieca lungo quella maledetta strada ciottolata che portava fuori dal paese. Si poteva ancora chiaramente la musica della canzone cantata di Phil e Terrence, ma la percepivo solo passivamente, senza che entrasse davvero nella mia testa. Un caotico bombardamento di delusione, tradimento e umiliazione mi rimbombavano nel cervello impedendomi di realizzare o pensare qualunque cosa.
“Pan!”.

Non mi voltai neppure. L'ultima cosa che volevo in quel momento era vedere qualcuno, anche se si trattava di Kameron. Avevo bisogno di stare da sola, di … di... non lo sapevo di cosa avevo bisogno. Di dormire, probabilmente. Era l'unica soluzione che riusciva a venirmi in mente. Cos'altro avrebbe potuto attutire tutte quell'accavallarsi di pensieri negativi? Avevo bisogno di un rilassante sonno senza sogni. Avevo bisogno di svegliarmi rigenerata, dimentica dell'umiliazione che mi si era insinuata fin dentro le ossa.
“Pan, avanti, dove stai andando?”.
Allungai il passo, nel vano tentativo di seminarlo.
Dove stavo andando? A casa probabilmente. Con un pizzico di fortuna mi sarei persa e sarei rimasta da sola tutta la notte e magari anche tutto il giorno successivo.
Il nodo che sentivo nella gola si strinse fino a farmi quasi mancare il fiato. Non volevo piangere. Non volevo dare a Dean la soddisfazione di ferirmi, non volevo. E poi c'era quello stupido di Kameron, che evidentemente non riusciva a capire che volevo stare da sola. Continuava a trottarmi dietro come uno stupido cavallo e, se anche avessi voluto lasciarmi andare, non avrei mai potuto piangere davanti a lui. Davanti a nessuno. Non l'avrei fatto.
“Pan...”.
Una mano si posò sulla mia spalla. Come scottata, la scrollai via, stizzita. “Vai al diavolo pure tu!” Non sapevo nemmeno io perché gli avessi risposto. Una parte di me aveva deciso fin dal primo momento di ignorarlo e aspettare che capisse da solo che non era il momento per farmi compagnia. C'era un'altra parte, evidentemente, consapevole del suo essere un po' tardo, che aveva compreso quanto fosse inutile aspettare che facesse due più due.
Feci ancora qualche passo, spedita, poi mi fermai; un dubbio si era insinuato nella mia mente e la mia rabbia lo stava per sputar fuori: “Perché glielo hai detto, si può sapere?”.
Gli davo ancora le spalle, ma potevo immaginare con facilità l'espressione ebete di Kameron alle mie parole. “Cosa?”.
“Lo sai benissimo cosa! Lo sapevi solo tu, Kameron, solo tu!” sibilai, furiosa. Perché? Perché aveva avuto la geniale idea di andare a spifferargli della mia stupidissima cotta? No, anzi, non era più corretto chiamarla così. Perché io ero schifosamente innamorata di Dean. Esserne consapevole faceva male, forse tanto male quanto il suo pubblico rifiuto, tanto male quanto l'idea che Kam avesse tradito la mia fiducia. Da tutti me lo sarei aspettata, ma da lui...
“No, aspetta un minuto”. Se avessi avuto la lucidità di fare del sarcasmo, probabilmente a quel punto gli avrei chiesto se i pigri criceti dentro la sua testa si fossero messi a correre sulla ruota. Ma non ce l'avevo. Non riuscivo a formulare un solo pensiero coerente, i miei neuroni venivano spintonati a destra e a sinistra, caoticamente, dalla quantità industriale di sentimenti negativi che mi si agitavano in testa. “Non sono stato io a dirglielo, Pan!”.
“E chi allora? Emily?”.
“Come faccio a saperlo io? Bethany, magari ha...”.
Emisi un ringhio carico di frustrazione. “Non lo sapeva! Non lo sapeva nessuno, solo tu!” strillai.
Improvvisamente mi sentivo fin troppo fragile. Lo stomaco faceva un male cane, tremavo come una foglia. Mi piegai su me stessa, rimanendo china sulle ginocchia. Senza che potessi evitarlo, le lacrime avevano preso a rigarmi il volto. Avevano vinto loro. Non ero capace nemmeno di trattenerle.
Forse Dean aveva ragione, forse l'unica cosa che sapevo fare era fuggire i miei problemi, evitarli, scansarli. Non sapevo affrontare la vita a testa alta. Quando ci provavo, combinavo solo guai.
E me la stavo prendendo con Kameron come se tutto ciò fosse stata colpa sua. Come se il caratteraccio del suo migliore amico fosse un suo errore, come se lui avesse potuto cambiare i suoi sentimenti nei miei confronti o magari i miei e non l'avesse fatto per capriccio.
I miei stupidissimi singhiozzi furono l'unico suono udibile per qualche istante, assieme ad un terribile fruscio di qualcosa che si muoveva tra le sterpaglie del fosso. Mi faceva male, malissimo la testa, il sangue mi pulsava nelle orecchie e non riuscivo a calmarmi nemmeno quel poco che bastava per ordinare a me stessa di smettere di frignare. Ero consapevole che tanto non ci sarei riuscita.
Mi sembrava tutto così nero, tutto così sbagliato, così terribile. Tutto e niente, perché non riuscivo a pensare in maniera abbastanza lucida da capire cosa non andasse, cosa mi facesse stare così male.
Poi venne il suono dei pensanti passi di Kameron sulla ghiaia. Si fermarono proprio accanto a me. L'istante successivo stavo piangendo come una fontana stretta tra le sue braccia, in mezzo al nulla, mentre il sole decideva che era ora di andare a dormire, perché di melodrammi sul piccolo schermo di Sperdutolandia ne aveva visti abbastanza per quel giorno.
In mezzo a tutto quel turbinante casino che imperava nella mia testa, solo un pensiero era nitido: Kameron c'era; c'era sempre stato da quando l'avevo conosciuto e non mi avrebbe mai lasciata affogare in me stessa. E io mi ci stavo aggrappando con tutte le mie forze, come nella mia vita mi ero aggrappata solo ad Emily.

Quando tornai a casa, le sorprese per quel giorno non erano ancora finite. In camera mia trovai un quaderno aperto, gettato malamente sul pavimento. Seppure io avessi poca cura delle mie cose e non fossi esattamente la persona più ordinata del mondo, la cosa mi parve strana. Ma ogni incertezza svanì quando mi accorsi che quello non era un quaderno qualunque, ma il mio diario, uno di quelli che, una volta pieni fino all'ultima pagina, finivano in un pacco e viaggiavano via posta fino alla città, fino ad Emily.
Quando capii il perché della sua insolita posizione e la collegai a ciò che era successo poco prima in paese, non potei che scoppiare di nuovo: Dean aveva letto il mio diario.
Aveva violato la mia privacy, letto i miei pensieri, i miei sfoghi, aveva spalancato le porte del mio cervello ed era andato a farci una passeggiata all'interno. Quanto aveva letto? Cosa, in particolare? Sicuramente il momento in cui avevo ammesso di essere innamorata di lui.
Non ricordo esattamente cosa successe poi. Oggi ho un vago ricordo di aver lasciato il diario aperto sul letto di Dean su una pagina pulita su cui avevo scritto uno stizzito “Buona lettura, stronzo!”. Non oso nemmeno chiedermi se lui abbia poi letto o meno ciò che non aveva già letto in precedenza. Era il mio ultimo pensiero in quel momento e credo non valga la pena di domandarselo ora. Ciò che importa è che da quel giorno le cose cambiarono radicalmente.
La delusione per ciò che era successo era stata così grande che il mio cervellino orgoglioso decise di cancellare Dean dalla mia vita.
Incredibilmente, fu proprio quello che feci.
Non gli rivolsi più la parola volontariamente, non risposi più alle sue provocazioni, non lo chiamai più 'Trenino Thomas' e mi sforzai di non parlare più di lui.
Dean McDonnel diventò un'ombra, una delle tante sfumature imprecise e fin troppo appariscenti che si notano con la coda dell'occhio quando ci si sforza di non guardare qualcosa o qualcuno. Era proprio ciò che facevo: sforzarmi di chiuderlo fuori dalla mia vita. Non era l'operazione più semplice e intelligente del mondo, specie se si considera che abitavamo insieme, ma era una di quelle decisioni definitive. Un'impresa da donne ferite, disposte a tutto e di più pur di soddisfare la propria sete di vendetta e attestare la propria superiorità.
Le nostre quotidiane discussioni di limitarono ad un “Mi passi il sale?”, “Mh”.
Era evidente che Kameron trovasse questa soluzione sciocca e improbabile, ma dopo avermi visto piangere in quel modo, come mi aveva confessato un giorno in collegamento viva voce con Emily nel giardino della scuola, aveva deciso di non immischiarsi nella faccenda. Era roba da donne, aveva detto.
Agatha non si espresse mai a riguardo, non sapevo come la pensasse, ma, sinceramente, qualunque fosse stato il suo parere, io ormai ero decisa a continuare per la mia strada. Dovevo cancellarlo dalla mia vita.
Non che fosse facile. Per quanto cercassi di ignorarlo, non rispondere alle provocazioni, Dean era sempre nella mia testa, nei miei pensieri. Continuavo a scacciarlo malamente; a volte, quando ero sola, scuotevo ostinatamente il capo fino a che non mi girava a testa nello sciocco tentativo di sbriciolare ogni pensiero che lo riguardava. La delusione che mi era stata inflitta, la rabbia che provavo nei suoi confronti mi aiutava a non calcolarlo quando era al mio fianco, a non parlargli e a rispondergli a monosillabi quando proprio non potevo evitare di aprire bocca. Ma quando lui non c'era, compariva nei miei sogni, si intrufolava nelle mie fantasie nei momenti in cui, mentre studiavo, la mia mente prendeva il volo. Inutile dire che per evitare che cose del genere succedessero, cercavo di tenermi impegnata in altre attività. In un primo momento avevo optato per la cucina, ma la mia incapacità doveva essere qualcosa di troppo profondamente radicato in me, perché per quanto mi impegnassi non riuscivo mai a preparare un piatto che potesse essere gustato senza storcere il naso o, in alternativa, chiedersi quando esattamente Rubeus Hagrid ci si fosse seduto sopra.
Constatato che imparare a cucina per me era una battaglia persa in partenza, mi dedicai ad una diversa, fruttuosa e divertente attività: cercare di capire se ci fosse qualcuno nel cuore di Kameron.
Dopo qualche tentativo di prenderlo per sfinimento e convincerlo a dirmi spontaneamente a chi appartenesse il suo cuore, avevo optato per ricorrere al mio subdolo lato da femmina abbindolatrice. Ecco perché, dopo aver appurato che pur ammiccando a quasi tutte le ragazze della scuola, nessuna di loro gli interessava davvero, avevo intuito – andando per esclusione – che probabilmente l'unica che gli piacesse davvero era quella con cui meno andava d'accordo. Ovvero...
“Aggie non era a pranzo oggi” buttai lì un pomeriggio, mentre facevamo i compiti assieme. La cucina di nonno Abe, quando Dean lavorava da qualche altra parte - lontano da me, da noi, dalla mia pace interiore -, diventava un ottimo luogo in cui passare il tempo, accogliente e caldo al punto giusto, visto che il forno era costantemente acceso per cuocere qualche meraviglia del nonno o riscaldare qualcosa preparatoci da Ginger.
Non saprei dire esattamente perché avessi deciso che Kameron avesse una cotta proprio per lei, ma da un po' di tempo a quella parte – precisamente da quel terribile ventitrè settembre e dalle allusioni di Robin – avevo una pulce nell'orecchio. Osservando come battibeccavano e le parole che usavano per apostrofarsi, era chiaro che tra quei due ci fosse del tenero. Del tenero inespresso, ma sempre di tenero si trattava.
Kameron si strinse nelle spalle, giochicchiando distrattamente con una penna. “Aggie chi?” Naturalmente il mio caro amico faceva di tutto per mettermi fuori strada; per qualche assurdo motivo l'idea che io venissi a conoscenza di certe informazioni private al suo riguardo non gli piaceva molto. Il che era assurdo, perché lui sapeva benissimo della mia cotta! Ma a questo non era il caso di pensare.
Aggrottai le sopracciglia. Che razza di domanda era? “Come sarebbe 'chi'? Agatha!”.
“Sì, ma quale Agatha? Agatha del corso di spagnolo o...”.
Chi diavolo è Agatha del corso di spagnolo? “La nostra Agatha!” insistetti, lanciandogli un'occhiata eloquente: quella messinscena era davvero ridicola e non faceva che agitare la pulce nel mio orecchio.
“Ah, quella del corso di spagnolo, quindi” concluse in un lampo di genio terribilmente poco credibile.
Sbuffai e gli lanciai la mia gomma da cancellare. “Ma quale Agatha del corso di spagnolo! Aggie! La nostra Aggie! La tua Aggie!” sbottai. Incrociai le braccia e avevo tutta l'intenzione di lanciargli un'occhiataccia, quando, vedendolo boccheggiare, la meraviglia ebbe la meglio.
“M-mia? Ma-ma cosa dici? Io non ho nessuna...” si bloccò, arrossendo appena in zona orecchie.
E Pan Fletcher prende il Boccino d'Oro! La partita è finita, signori! Tassorosso vince!
Risi forte, allegra. “Oh, andiamo, Kam! Hai capito benissimo di chi parlo!”.
Lui aprì bocca per dire qualcosa, guardandomi dritto negli occhi. Poi però distolse lo sguardo e ridacchiò, palesando il proprio imbarazzo. “Be', ma questo non significa proprio niente, no? Stavo solo cercando di … prenderti in giro”.
Sì, appunto: stava cercando di prendermi in giro. “Ah-ha, certo. Hai una mucca di nome Agatha o sbaglio?” gli ricordai, inarcando le sopracciglia con fare saccente.
Kameron mi fissò qualche istante, aprì la bocca, poi la richiuse. “Vacca” mi corresse infine.
Roteai gli occhi. “Mucca”.
“Vacca! Si chiamano vacche!” insistette, stringendosi nelle spalle.
“E con questo?” sbottai, battendo le mani sul tavolo. “Io mica ti definisco Homo Sapiens! Non cercare di cambiare argomento”.
“Non sto cercando di cambiare argomento, è che un discorso tira l'altro” puntualizzò lui con aria da intellettuale noncurante delle quisquilie di cui si stava disquisendo.
Alzai di nuovo gli occhi al soffitto. “La mia presenza ti influenza troppo, stai diventando saccente” commentai, con il suo stesso tono. “Ma comunque”, pausa per dare enfasi, “sei arrossito!” strillai, puntandogli un dito contro e contemporaneamente sporgendomi un po' sul tavolo.
Lui sgranò gli occhi – un po' per la sorpresa e un po' per lo spavento – e scosse ostinatamente il capo: “Ma certo che no! Perché dovrei arrossire quando mi danno del saccente?”.
Ridacchiai, mettendo su un sorrisetto irriverente. “Ritiro tutto: la mia presenza non ti influenza abbastanza. Io sono molto più brava a svicolare” constatai.
“Tu dici? Eppure ti sto portando a parlare d'altro...”.
Risi di nuovo, questa volta più forte. Se anche non me ne fossi accorta, lui me l'aveva appena svelato. E io me ne ero accorta, giuro. “Kam, ma fammi il piacere!”.
“Fammene uno tu: smettila con questa storia!” bofonchiò lui, intuendo che di quel passo non sarebbe arrivato da nessuna parte. Lo stavo mettendo con le spalle al muro – metaforicamente parlando, perché fisicamente non sarei mai riuscita a farlo: lui era troppo grosso, troppo muscoloso, troppo alto e io troppo pigra.
“Non capisco perché tu non voglia ammetterlo”.
Questa volta fu lui a ridacchiare, rivolgendomi un'occhiata di superiorità. “Come se tu fossi corsa a dirmelo fin da subito, quando hai capito che...”.
“Questo non c'entra proprio niente” precisai, incrociando le braccia con stizza. Ora che c'entravamo io e la mia vecchia cotta? “La situazione è completamente diversa”.
“Ah sì? E perché?” mi sfidò lui, assumendo la mia stessa posizione. Sembravamo vagamente due bambinetti delle elementari nel ben mezzo di un bisticcio per decidere quale, tra la blu e quella rossa, fosse la penna migliore. Ed era la blu, chiaramente.
“Perché tu sei un ragazzo!”.
“E tu una ragazza!”.
“Oh, ma che occhio di lince!” mi congratulai, fulminandolo con lo sguardo.
Lui rise e continuò: “Non è esattamente la stessa cosa?”.
“No, Kameron. Noi ragazze, nella maggior parte dei casi, abbiamo una cosuccia che voi non avete...”.
“Il...?” spostò lo sguardo sulla mia maglietta.
“IL CERVELLO!” sbottai, sistemando le braccia a nascondere il mio praticamente inesistente seno da sguardi poco discreti. Certo che a volte quel ragazzo diventava particolarmente troglodita. “Imbecille. Questa ne è la prova”.
“Ok, ammesso e non concesso che voi abbiate il cervello e noi no” continuò Kameron. “Allora? Dove sta la differenza?”.
“Tu sei il suo migliore amico, maledizione” soffiai, irritata dalla piega che stava prendendo quella conversazione. Non mi piaceva parlare di Dean, ultimamente lo facevo pochissimo e le poche volte che capitava l'argomento mi innervosiva sempre fin troppo.
Kameron sbuffò, prendendo improvvisamente – e senza alcuna ragione apparente – a cercare chissà cosa nel suo astuccio. “Ma sono anche amico tuo”.
“Questo è vero, ed è il motivo per cui non capisco perché tu non voglia ammettere di avere una cotta per Aggie”.
“Senti chi parla, tu non lo ammettevi nemmeno a te stessa”.
Mi abbandonai contro lo schienale della sedia, esasperata. “Senti, hai finito di girare il coltello nella piaga?”. Perché doveva continuare a ricordarmelo? Stavamo parlando di lui e Agatha, non di me e... quell'altro.
“Certo” rispose, ridacchiando. “Oh, ecco!” esclamò, trionfante, estraendo qualcosa dalla bustina e stringendola poi nel pugno.
“Il tuo cervello?” mi informai, con una smorfia infastidita. Perché cercavo di parlare con lui, se lui era impegnato nella sua personale caccia al tesoro?
Kameron mi fece una linguaccia, poi mi mostrò una monetina da qualche centesimo con un sorriso sornione e orgoglioso. Nemmeno avesse trovato uno Zellino di bronzo, insomma. Prima che potessi esprimere in qualche modo il mio sconcerto nei confronti del suo assurdo entusiasmo, lui cominciò a giochicchiare con la monetina, tutto contento. La lanciava in aria e poi la riacciuffava, poi ripeteva il gesto. Continuò con quel procedimento per almeno due minuti, conclusi i quali io optai per rivolgere la mia attenzione agli ultimi esercizi appena svolti, senza parole.
Poi però ecco che...
“GUARDA, PAN!” strillò Kameron, come se avesse appena scoperto una meravigliosa verità.
Alzai lo sguardo per incontrare il suo, allegro, mentre si passava le enormi mani tra i capelli. “Hai i pidocchi?” domandai, sarcastica.
Lui rise. “Scema” mi etichettò. “Guarda”.
E lo guardai. Lo osservai prendere in mano la sua amata monetina, lanciarla in aria per l'ennesima volta e colpirla con la testa, dove sparì in mezzo alla sua non troppo fluente chioma castana. Poi scrollò energicamente il capo, lanciandola dall'altra parte della stanza. Quando sentì il rumore del metallo che cadeva sul pavimento, scoppiò a ridere di gusto, come se avesse fatto la cosa più divertente del mondo. “Hai visto?”.
Ero così sconcertata dall'assurdità di quella scena, che non potei non scoppiare a ridere con lui, tanto da farmi venire le lacrime agli occhi e il mal di pancia. Perché la sua risata era sempre stata un vortice che mi trascinava nei suoi abissi e la situazione non era affatto cambiata. Col senno di poi, posso assicurarvi che non sarebbe mai cambiata.

“A Kameron piace Ag-”.
“CHIUDI IL BECCO!”.
“...Aggiustare le marmitte delle macchine. Lo sapevi, Lily?”.
Kameron mi guardò male, poi sospirò, mentre si guardava attorno per verificare che nessuno stesse ascoltando la conversazione.
Altro giorno, altra pausa pranzo, stesso argomento: Kam e la sua cotta per Aggie. Con l'arrivo dell'inverno, avevamo optato per smettere di accamparci all'aria aperta, per cui il nostro pranzo si svolgeva ora sulle scale interne dell'ultimo piano – quelle che portavano sul tetto e quindi inutilizzate. I gradini non erano esattamente comodi, ma la temperatura dentro la scuola, per lo meno, non rasentava lo zero. Probabilmente non era veramente così freddo, ma Kameron non aveva saputo resistere al mio sfoggio della mia passione per il lagnarmi, così avevamo trovato una postazione alternativa.
“Certo, è una passione insolita” commentò Emily divertita. Riuscivo quasi a figurarmela, raggomitolata sulla tazza del gabinetto nel bagno delle ragazze, ad alzare i piedi per non farsi vedere dall'esterno ogni volta che sentiva qualcuno avvicinarsi.
“Vero?” risi, voltandomi per sorridere raggiante a Kameron. “Dicci, Kam, quando hai scoperto questa tua vocazione?”.
Lui si grattò una guancia. “Mah, non saprei. Temo di averlo saputo solo ora” rispose. Aveva il volto arrossato per l'imbarazzo causatogli dalla mia quasi-rivelazione pronunciata a voce troppo alta; aveva un'aria tremendamente tenera, così impacciato e a disagio com'era.
“Oh, avanti Kam!” lo spronai, dandogli di gomito. “Con noi non hai bisogno di fare il timidone!”.
“Non sto facendo il timido!”.
“Già” la voce di Emily, leggermente distorta dal vivavoce, confermò la mia versione. “Inoltre questa è una conversazione che abbiamo già avuto per quanto riguarda Pan, è giusto essere equi: ora è il tuo turno” proclamò, pragmatica e convincente come solo lei sapeva essere. Io annuii vigorosamente, soddisfatta del fatto che le cose stessero andando come volevo io, una volta tanto. “Esatto!” dissi, quando mi ricordai che lei non poteva vedere il mio gesto.
“E quando sarebbe il tuo turno, Emily?”.
Ci fu un attimo di silenzio, nel quale probabilmente lei aveva boccheggiato la sua improbabile scusa senza riuscire a pronunciarla. “Questa domanda non è assolutamente pertinente! Stiamo parlando di te ora” riuscì a dire infine, in tono leggermente più acuto del solito. Forse era persino arrossita.
“Già. In ogni caso, Kam, se vuoi passo parlarti io di quanto Matt sia carino, disponibile, dei suoi meravigliosi gusti musicali, dei suoi...”.
“Dacci un taglio!” mi zittì Emily brusca. “Sei troppo di buon umore oggi. Si può sapere cosa ti prende? Non puoi mica farti sempre gli affari degli altri” mi rimproverò, in un tono che di serio aveva ben poco, nonostante cercasse ostentatamente di esserlo.
Kameron sorrise trionfante: ora la mia migliore amica traditrice sembrava essersi schierata dalla sua parte. “Sai cosa ti dico, Emily?”.
“Cosa?” domandammo in coro io e lei.
“Che ora io e te ci facciamo quattro chiacchiere!” proclamò Kam. Prima che potessi rendermi conto di cosa quella frase volesse dire, lui mi aveva già rubato il telefono dalle mani e, tolto il vivavoce, si stava allontanando per parlare in tutta tranquillità con la mia migliore amica traditrice. Anzi erano due migliori amici traditori. “Ehi!” protestai a voce alta, il mio panino imbottito stretto in una mano e l'espressione ebete di chi era stato brutalmente gabbato.
“Se suona la campana porti la mia roba in classe?”.
Oh, ma certo. Ci mancava solo che facessi il facchino per conto suo, mentre sperperava le mie ricariche telefoniche per parlare con Emily. “Puoi scordartelo! E ridammi subito quel telef-”, mi zittì rumorosamente con uno “Shhhht!”, poi scosse il capo: “Non lo sai che non si disturba la gente al telefono?”.
Incrociai le braccia con stizza, incredula. Stava succedendo davvero? Era assurdo! Non sapevo se ridere o mandarlo a quel paese. In mancanza di un'idea precisa sul da farsi, optai per un “Ma perché non te ne vai al diavolo?”.
“Appena riaggancio!” mi assicurò, per poi scoppiare a ridere.
A nulla valsero i miei tentativi di arrampicarmi sulla sua schiena per riprendere ciò che mi spettava e tanto meno quelli di origliare la conversazione. Quei due continuavano a confabulare di chissà cosa alle mie spalle, sapendo benissimo di starmi facendo impazzire e se la ridevano beatamente alla faccia mia – questo era chiaro, anche grazie alle continue prese in giro di Kameron.
Il lato positivo di tutto ciò era che Emily aveva ragione: ero davvero di buon umore quel giorno. Forse perché alla mattina, grazie a Merlino, non avevo affatto incrociato Dean per casa, forse perché la consapevolezza che tra Kameron e Aggie ci potesse essere del tenero mi piaceva più del dovuto – a pensarci, sarebbero potuti essere davvero una bella coppia -, o forse semplicemente perché la sindrome premestruale era ancora lontana, come avevo piacevolmente scoperto quel giorno consultando il diario scolastico durante l'ora di storia.
Nonostante ogni tanto la faccenda “Dean” ancora mi bruciasse – e parecchio –, in quel momento capii che non avevo affatto bisogno di lui per essere felice; non avevo bisogno del suo affetto, della sua considerazione, di parlarci o anche solo di vederlo. Forse la delusione e la violazione della privacy subite erano il giusto punto di partenza per chiudere Carol in un cassetto e dimenticarmi della sua esistenza. Una cosa era già stata decisa: Dean sarebbe stato chiuso fuori dalla mia vita; coinquilini o meno, nessuno poteva obbligarmi ad avere a che fare con lui più dello stretto necessario.
“Cosa?” Kameron si fermò in mezzo al corridoio e mi rivolse un'occhiata sorpresa.
“Che c'è?” domandai, incuriosita dalla sua espressione.
Lui in tutta risposta mi porse il telefono e si ficcò le mani nelle tasche dei jeans. Mi accigliai, senza capire cosa stesse accadendo.
“Emily?”.
“Mi sono appena ricordata una cosa. Tuo padre mi ha detto di riferirtelo, ma con la storia di Agatha mi è passata di mente e...”.
“Cosa succede?”.
“I tuoi vorrebbero che tornassi a casa per le vacanze di Natale. Che ne dici?”.
Sgranai gli occhi, presa in contropiede da quell'improvvisa rivelazione. “Ah” fu la mia unica risposta. 


In der Ecke - Nell'angolo:

Dio, quanto mi riesce difficile avercela con Kameron. D: Ho odiato Pan, tantissimo, all'inizio di questo capitolo.
In caso qualcuno se lo fosse dimenticato (il che è molto probabili, visti i miei tempi di aggiornamento), Carol è la cotta di Pan per Dean, recentemente evolutasi con consapevolezza in “innamoramento”. XD È tipo un pokèmon: ha un nome piuttosto ridicolo, si evolve, vive chiusa in uno posticino angusto e quando ne esce è tutta energica e pronta a spaccare tutto. Ha pure un verso, fa “Carocarocarocarocaro!”. O magari fa “Va' al diavolo Dean, va' al diavolo Dean”, sono indecisa.
Okay, ho finito di delirare.
Il capitolo non è dei migliori e l'ho scritto a pezzi durante i quali è trascorso un arco di tempo di... settimane? Almeno. Spero che nonostante questo il tutto sia un minimo coerente.
Per lo meno, però, credo ci sia qualche risposta alle vostre domande, alle vostre supposizioni riguardo il modo in cui Dean è venuto a conoscenza dei sentimenti di Pan nei suoi confronti (la cosa buffa è che il litigio alla festa del raccolto e il fatto che Dean andasse a leggere il diario di Pan erano stati pianificati mesi e mesi fa. Successivamente ad aver messo a punto questa bastardata, mi è più o meno successa la stessa cosa – chi mi conosce sa a cosa e chi mi riferisco. Assurdo vero?).
Ma soprattutto, gente, qui c'è un po' di quelle che, come Mary_ l'ha chiamato per prima, si può definire AGGERON. :3 È un accenno minimo, ma almeno sappiamo che Kameron sa dell'esistenza di Aggie (cavolo se lo sa!) e che le supposizioni di Robin non erano affatto infondate – sono addirittura riuscite ad accendere il cervello di Pan!
 
Ora passiamo alle cose serie.
Sono imperdonabile. E, sì, parlo anche del ritardo con cui aggiorno, ma soprattutto del fatto che non trovo più il tempo per rispondere alle vostre recensioni. Mi dispiace immensamente, perché io adora ogni singola parola da voi lasciatami, mi fate sorridere, mi fate sentire per un attimo orgogliosa di me e di questa storia. E mi sono affezionata un po' ad ognuna di voi, senza alcuna eccezione. Ho sempre pensato che il rapporto tra autore e lettore fosse la parte più bella dello stare su EFP, ma così facendo lo sto distruggendo. Mi sento terribilmente in colpa per questo. Per quanto possa valere, vi raccomando di contattarmi per qualunque cosa su Ask.fm (Yvaine0Mich), twitter (@yvaine0mich) o facebook (Per la barba di Merlino, Pan! - Yvaine Efp), visto che se la relazione tra me e voi non è ancora sparita del tutto, è solo grazie a quei social network. Per qualunque domanda irrisolta, vi invito a scrivermi senza farvi alcun problema: non mangio nessuno, anzi, a detta di qualcuno sono carina e coccolosa – poi non so esattamente su che basi lo sostenga, ma okay.
Voglio comunque ringraziare una per una tutte le ragazze che hanno speso le loro belle parole per me, sapendo che questa pigra idiota ritardataria probabilmente non avrebbe risposto loro.
Grazie a Larry forevah, MN125 (Ciaaaao, compagna di banco! :poop:), Enigmasenzarisposta, Flamel_ (grazie di tutto! :3), Nipotina, shesrainbow, Ginny_99 e infine la nostra Mary_.
Grazie, grazie, grazie, grazie! :D
Grazie a tutti voi per essere arrivati fin qui. :)
  
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