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Autore: gingerspice    12/03/2013    3 recensioni
Quel capodanno Londra era fredda, ma in quel locale affollato e nebbioso era eluso il mondo esterno.
Io di quel chiasso così scomodamente poco inglese ascoltavo ben poco, ero caduta nei suoi occhi verdi e beffardi. Ma non mi dispiaceva perché sentivo le sue labbra incurvarsi in un sorriso mentre giocavano con le mie.
“Avevi ragione, Bruce era ubriaco già prima delle undici” gli costava uno sforzo immane ammettere di aver scommesso sul contrario, glielo leggevo nello sguardo.
“Mai sottovalutare un irlandese. Mi devi trenta sterline” avevo cominciato con gli occhi saettanti.
“La cosa si fa interessante, ma temo di aver perso il portafoglio, accetta pagamenti in natura?”
“La biondina alla tua destra accetterebbe volentieri da come ti guarda” proseguivo con una leggera nota di irritazione nella voce e il fedele sopracciglio alzato nella sua direzione.
Lo vedevo con la coda dell’occhio aprirsi in una smorfia che, complice l’alcool, mi pareva oltremodo compiaciuta.
“Gelosa, posh?” me lo stava sussurrando all’orecchio sinistro.
“Di uno che non sa allacciarsi la cravatta?” il mio era un sorriso derisore e innocente.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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~A chi sogna sogni che non possono essere, nonostante siano
 

SUGHERO

 

C’è il tappo di una bottiglia nella cristalliera. Un banalissimo tappo di sughero.
Eppure ogni volta che i miei occhi cadono sulla sua inutile rotondità, sembra abbia ogni singola volta il feroce coraggio di ferirmi come se fosse una scheggia appuntita, scappata da quelle ante lucide.
Distolgo lo sguardo ogni volta prima di iniziare a pensare. A pensare a lui.
 
Cinque, quattro, tre, due, uno. Tra il tintinnio dei calici, il resto di quel momento restò offuscato tra gli spari festosi del capodanno e delle labbra pressate sulle mie. Non c’era bisogno che mi voltassi per sapere chi fosse stato a girarmi il mento con le dita. Avevo riconosciuto il suo profumo.
David mi guardava con un ghigno soddisfatto, altrettanto facevo io.
“Auguri splendore”. Era solo un amico di Bruce, una di quelle conoscenze che si fanno per tramite.
Era entrato prepotentemente nella mia serata, come in quelle precedenti da settimane ormai.
E mi faceva girare in modo indecente la testa il fatto che con lui riuscivo a non essere più padrona di me stessa. Non c’erano state richieste né costrizioni, ci eravamo ritrovati a viverci nei limiti di una strana relazione. Tra di noi c’erano sguardi e sopraccigli inarcati, provocazioni e sfide, la felicità inebriante di vivere i momenti senza troppe preoccupazioni.
Era un figlio di papà. Uno di quelli che credeva di poter comprare Windsor in contanti, che scavalcava sbandierando un cognome. Uno di quelli che partiva con gli amici all’avventura, whisky e passaporti nelle borse, con il patrimonio di famiglia a fargli da garante. Uno di quelli che consumava nelle sigarette la sua noia. Perché di noia si trattava; la sua esistenza era troppo livellata anticipatamente per permettere a qualcosa di ostacolarlo, a qualcuno di porsi troppo distante per essere raggiunto.
Non aveva mai scontato durezza del rifiuto o la tempra della rinuncia.
Io non avevo voluto altro nella vita che quello che avevo conquistato a faticose bracciate.
Ma Londra per me non era casa, non era pregna di sicurezza e conforto, era la mia sfida, il sogno.
Era per quello che mi trovavo là. Quello che ero diventata era la perfetta realizzazione del macchinoso progetto della mia mente e del mio impegno.
Lui era diverso. Era strano vedere il luccichio dei suoi occhi ogni volta che mi accorgevo che provava gusto nella nostra competizione, quando si guardava attorno provocatorio non perché poi ci credesse, ma perché gli piaceva farlo credere. E io realizzavo che lui non vagava senza scopo, semplicemente nessuno gli aveva mai dato uno scopo per il quale valesse la pena corrodere l’anima.
Teneva una mano sul mio collo e l’altra pressata sulla schiena, mentre era in atto una lotta di sguardi senza vincitori né vinti. Bizzarro come tra di noi ci fosse sempre un polo reattivo, quello dominatore, che altalenava prima appartenendo a me e poi a lui.
Quel capodanno Londra era fredda, ma in quel locale affollato e nebbioso era eluso il mondo esterno.
Io di quel chiasso così scomodamente poco inglese ascoltavo ben poco, ero caduta nei suoi occhi verdi e beffardi. Ma non mi dispiaceva perché sentivo le sue labbra incurvarsi in un sorriso mentre giocavano con le mie.
“Avevi ragione, Bruce era ubriaco già prima delle undici” gli costava uno sforzo immane ammettere di aver scommesso sul contrario, glielo leggevo nello sguardo.
“Mai sottovalutare un irlandese. Mi devi trenta sterline” avevo cominciato con gli occhi saettanti.
“La cosa si fa interessante, ma temo di aver perso il portafoglio, accetta pagamenti in natura?” 
“La biondina alla tua destra accetterebbe volentieri da come ti guarda” proseguivo con una leggera nota di irritazione nella voce e il fedele sopracciglio alzato nella sua direzione.
Lo vedevo con la coda dell’occhio aprirsi in una smorfia che, complice l’alcool, mi pareva oltremodo compiaciuta.
“Gelosa, posh?” me lo stava sussurrando all’orecchio sinistro.
“Di uno che non sa allacciarsi la cravatta?” il mio era un sorriso derisore e innocente.
Eravamo davvero stretti tra la folla, tra cantanti improvvisati e bottiglie di spumante, scossi  dall’improvviso delirio alcolico di uno sprovveduto che stava dichiarando al microfono il suo eterno amore a una imbarazzatissima e sobria fidanzata.
David gli rivolgeva uno sguardo pregno di commiserazione e divertimento, prima di voltarsi verso di me e accigliarsi in una tacita espressione interrogativa, come a voler chiedere spiegazioni.
“Credo fosse una dichiarazione in piena regola, pare esista una somma forza mistica, un certo furore magnetico, alcuni lo chiamano amore” lo giustificavo distrattamente, ma sorridevo mentre ne parlavo.
“Il destino ti punta quando crede che sia vero” stava aggiungendo alla mia frase ironicamente avvicinandosi alle mie labbra. Non fece in tempo che qualcosa di duro ci colpì provvidenzialmente.
Stavo collegando l’accaduto con la sua affermazione di poco prima, per quanto le mie sinapsi annegate dei drink di quella serata me lo permettessero. David aveva intanto raccolto un cilindretto da terra, che ci aveva colpiti, era sicuramente scappato a qualche brindisi. Era stata una mera coincidenza, una coincidenza, avrei perfino scosso la testa se non avesse girato così tanto.
Non era il destino ad averci puntato. Era solo un tappo di sughero.

Mi volto dando le spalle a quell’inutile salottino deserto per avviarmi verso il guardaroba. Sorvolo incurante sul letto disfatto, sorridendo quasi nel vedere come ogni volta non riesco a spingermi più in là della metà da occupare, nonostante la morbidezza delle lenzuola di seta sembri sempre un canto ammaliatore.
Poggio le mai sui pomelli e spingo le due ante color crema in avanti.
L’odore del mio guardaroba è il balsamo per ogni ferita, mi invade di un vago aroma di pelle invecchiata e mi avvolge nei fruscii dei tessuti. È uno spazio lungo e illuminato da piccoli faretti, il legno delle scaffalature è quasi interamente sovrastato dal colore dei vestiti. Mi siedo nel mezzo, sul piccolo divanetto di pelle e istintivamente la mia mano cade sul fascicolo alla mia destra. Vogue.
È il book del prossimo mese, io lo porto a casa prima dell’approvazione, lo esamino per ore intere, lo studio a fondo prima di concedere il mio benestare per la pubblicazione. Sfogliare quelle pagine patinate mi infonde sicurezza, accarezzarne le stampe mi rende certa che quella sia la mia forza generatrice.
Lo prendo in mano. È pesante, come ogni numero di settembre. Ogni anno è una sfida al precedente, un’emulazione che tende sempre a valicare i limiti della perfezione.
Mi distacco da quel pensiero e inizio a setacciare tra la plastica dell’imballaggio dei capi che sono arrivati ieri. Le mie mani sono emozionate e quasi avide nello scorrere tra la carta velina dei pacchi.
Era il mondo che avevo sempre sognato da che ne abbia memoria; già da quando me ne rimanevo seduta sul letto nella mia camera con i piedi che appartenevano a una figuretta troppo piccola e acerba per toccare ancora terra, forse i miei piedi non hanno mai toccato terra.
I miei sogni glielo hanno sempre impedito.
Dopo una doccia ristorante, infilo un leggero abito plissé e calzo i tacchi.
Lo specchio riflette una figura che mi fa sorridere. I capelli che sfiorano la schiena non sembrano più nemmeno imparentati con il caschetto della mia infanzia, il mio viso è più spigoloso e adulto, la mia altezza nonostante le scarpe è decisamente migliorata. Sono l’immagine di ciò che avevo aspirato a diventare con ogni fibra del mio essere. 
I pomeriggi passati nel mio anonimato adolescenziale non avevano fatto altro che alimentare in me un’indicibile voglia di evasione, un’accettazione di sé volta solamente a riscattarsi nel futuro. Respiravo in un mondo immaginario l’aria che la realtà sembrava inquinare, pianificavo l’ascesa.
Ora davanti allo specchio sorrido alla me che è cresciuta a suon di traguardi.
Probabilmente il mio ideale di perfezione è poco conciliante con la morale o i tradizionalisti, ma questo è lo stile di vita che mi appartiene, che mi fa delirare fino a notte tarda per finire di correggere bozze senza mai sminuire l’amore per ciò che faccio, che mi fa sorridere ogni volta che calzo sandali dai tacchi alti e ascolto il loro risonante ticchettio nell’atrio del mio appartamento in King’s Street.
Direttore creativo di Vogue.
Era una destinazione che mi ero prefissa in un’età in cui non è concesso sognare in modo così definito senza improvvise virate, ma niente era mai riuscito a sembrarmi tanto allettante da farmene dissuadere.
Il campanello mi riscuote e riconquisto immediatamente uno sguardo lucido prima di aprire il portone di legno laccato.
“Il sole splende alto! Sbrigati o faremo tardi. Ho portato il caffè, unica santa invenzione dopo le spalline di Lanvin” squilla impietoso Morèt padroneggiando instancabile nella mia cucina.
Morèt Krinkelmann, mente iperattiva, giovane estimatore di couture venticinquenne. La sua frizzante presenza omosessuale si era intrufolata prepotente nella mia vita da circa sei anni. Inutile combatterla.
Mentre poggia il mio caffè macchiato sulla penisola di marmo della cucina, risvolta i polsini della sua camicia mimetic sulla giacca. Non faccio più caso alle sue visite improvvise in casa mia, soprattutto perché sono oramai diventate la rassicurante quotidianità.
Negli anni Morèt, vuole che si pronunci alla francese, ha ricalcato il ruolo di fratello, psicologo, amico sincero, una mamma chioccia, quando l’unico per i quale era regolarmente salariato e preposto era solo quello di mio assistente. Non che lo fosse mai stato, il mio reale assistente.
Si limitava ad accavallare le gambe sulla poltrona nel mio ufficio e a sopportare i miei deliri psichici, a sedere al mio fianco alla settimana della moda, a supervisionare i servizi fotografici e ad accompagnare me e Gwen nelle uscite per locali. Le sue ufficiali mansioni che implicavano organizzazioni di agende, prenotazioni di appuntamenti, centralino sono educatamente delegate a una seconda e indaffarata segretaria.
Il suo ottimismo gay mi fa innegabilmente bene alla salute.
Sorrido alla vista dei suoi capelli laccati, poi torno nel guardaroba con il caffè oramai tiepido nelle mani.
Una volta usciti di casa, perfeziono il trucco in ascensore, mentre Morèt sfoglia bramoso le pagine non ancora rilegate e ricoperte di appunti del book settembrino.
Indosso una mantellina color corallo, perché Londra seppur sia agosto non è clemente con la temperatura, implacabile nel non voler farsi oltrepassare dai raggi solari.
Nata e cresciuta a mare e poi mi ritrovo in un posto che accumula solo sette giorni di sole l’anno.
La redazione non è distante dall'appartamento e, secondo la pragmatica filosofia di Morèt, percorrere le vie del centro con i tacchi è un esercizio assolutamente salutare e confortevole.
Londra mi fa uno strano effetto nonostante sia ormai da anni che appare trionfante sul mio indirizzo, sui documenti del domicilio, sul mio biglietto da visita.
Respiro l’aria di un mondo senza confini né censure, ne vivo appagata e titubante allo stesso tempo.
Non è casa mia, né potrà mai ambire a sostituirla, ma è il mio paradiso.
Mi oriento solamente per le vie del centro e delle sue immediate vicinanze, ostentando una sicurezza inopportuna per chiunque come me provenga da una cittadina che vanta meno di quindicimila abitanti e una sola piazza di paese.
Attraverso le porte a specchio del mio ufficio prima di inquadrare l’imponente pila di documenti e fotografie che affollano la scrivania laccata di bianco.
Respiro profondamente mentre lascio che un sorriso strizzi le mie labbra.
L’inchiostro posato lucido su quelle stampe rimane la mia fonte di fierezza, quella da cui attingere nei momenti in cui mi sembra non esserci altro amore nella mia vita.
Ho scelto che l’amore della mia vita fosse Vogue, è stato un patto di sangue, un connubio d’amore e tragedia dal quale, costi quel che costi, non mi sottrarrò mai.
 
Dopo due ore di lavoro sulle bozze del nuovo numero, al suono frenetico dei tacchi non perdo tempo nemmeno ad alzare lo sguardo per intercettarne la fonte.
“Rifaremo il servizio delle mongolfiere su Parigi” inizio continuando ad analizzare le fotografie, quando percepisco la sua presenza nella stanza.
“Sapevo perfettamente che quel servizio non stava procedendo bene da quando ho visto tutto quell’oro” l’altra voce mi segue armonica, come se stesse discorrendo sulla temperatura di quella mattina, anche lei senza perdersi un banali soliloqui di cerimonie.
Gwen, si accomoda dall’altro lato della scrivania, allargando le braccia sui braccioli della poltrona, in una posa di sincera sfinitezza.
“Avevo deciso settecento francese sullo sfondo e loro ci hanno piazzato quinquiglierie barocche. Questa volta ho affidato la supervisione del servizio fotografico ad Anne, abbiamo fretta nel rifarlo” mi sfogo mentre metto finalmente da parte tutti i ritagli che sovrastano il piano in vetro della scrivania.
Lei mi asseconda con uno sguardo consapevole, mentre posiziona davanti a noi i contenitori di plastica trasparente del pranzo.
Gwen Hemingway, redattore senior, stimata giornalista di street fashion e mia indiscussa migliore amica.
Siamo entrate nello staff come stagiste lo stesso anno. Quando io cominciai, a giugno, lei aveva già due mesi di esperienza alle spalle e una elettrica energia a contagiarmi. Le nostre giornate si consolavano con le targhette appese al petto che attestavano la nostra legale presenza in quel posto, non che qualcuno a quel tempo ci facesse poi così caso. Abbiamo legato tra le macchine fotocopiatrici e le corse sui tacchi per portare il caffè caldo alle riunioni degli inserzionisti.
Ci siamo fatte strada con svilenti giornate di lavoro senza limiti di orario, con dedizione e il talento di entrambe che con il trascorrere del tempo iniziava ad essere notato dai piani alti.
Ora i piani echeggiano delle nostre presenze.
Ad accomunarci a quelle due ambiziose ragazze restano ormai testimoni i tacchi a spillo che, come sfilavamo dai piedi nascosti sotto la scrivania durante le pause rubate addentando caloriche ciambelle, continuiamo a fare ora. Nei nostri atteggiamenti inusuali per l’affettata redazione, consumiamo il pranzo insieme ogni giorno tra confessioni e chiacchiere.
“Thomas ieri sera si è fatto vivo” esordisce come se si stesse improvvisamente liberando di un insostenibile peso. Faccio finta di non aver notato il suo atteggiamento sfuggente al pronunciare il suo nome e continuo a infilzare il contorno di verdure con la forchetta, senza la minima intenzione di ingerirle.
“Buon per lui, si è garantito un’entrata d’effetto” mi nascondo dietro una maschera d’indifferenza alle sue parole, per sondare le sue emozioni. Evita accuratamente il mio sguardo e schiude le labbra nel tentativo di continuare.
“Ho fatto bene?” arriva dritta al punto dopo l’iniziale esitazione. Non è necessario informarmi del fatto che abbia passato da lei la notte, perché lo leggo chiaramente nella sua espressione. Tra di noi a volte ci poniamo domande tralasciando il resoconto dell’accaduto, sicure che l’altra in un modo o nel’altro l’abbia già compreso. Io e Gwen procediamo sui binari di un’amicizia che fa economia di parole, non perché non ce ne siano, ma perché sarebbero solo pleonastiche.
Le sorrido semplicemente in risposta, sciogliendo tutti i muscoli che avevo costretto in quell’innaturale indifferenza. Volevo solamente ponderare la sua reazione, godermi il sano spettacolo della tua migliore amica affetta da paturnie d’amore, prima di smascherare il mio compiacimento.
Lei sbuffa una risata “Sapevo che tifavi per lui, ma ti ricordo che sto uscendo con Jim”.
Distolgo la mia attenzione dal boccone di carne per alzare un sopracciglio nella sua direzione.
“Non ricordo che tu ti sia mai fatta troppi problemi a troncare un rapporto con qualcuno” insisto.
“È che Thomas non è un terreno rassicurante, con lui non ho più certezze” ammette con quel luccichio nell’iride chiara, timoroso e impavido al tempo stesso.
“Francamente se Jim invece ti ispira certezze, ti ritroverai tra vent’anni in una villetta nella campagna dello Yorkshire a sperimentare ricette di pudding e accarezzare i tuoi sei gatti nell’attesa che tuo marito torni da lavoro” esordisce la mia sadica schiettezza.
Gwen si limita a reagire con un verso schifato e un’espressione di orrore.
“E poi Jim è un nome da sfigato, così proletario e rozzo. Thomas non ha perfino un secondo nome?” chiedo “Che cosa magistralmente inglese!” concludo estasiata.
Sono certa che Gwen non si aspettasse altro da me che l’approvazione, un lasciapassare a ciò che in realtà sentiva nel proprio cuore; ma a volte è necessario sentirsi dire che si sta percorrendo la giusta via per lasciare che questa sia vissuta senza esitazioni.
“Grazie” mi rivolge uno sguardo complice e riconoscente.
“È quello che pensi tu in realtà, mi sono solamente divertita a dar voce alla tua coscienza. Calzo le abbaglianti vesti di cupido a favore del vero amore. Potrebbe essere un’idea per il numero di febbraio: un vendicativo cupido vestito dalle piume di Dior” rido appagata dalla mia trovata.
“Non puoi lasciarlo andare: siete fatti l’uno per l’altra” la rassicuro poi mentre gioco con la plastica delle posate. Lei mi sorride soddisfatta dell’incoraggiamento.
“Hai ragione. Sarebbe da stupidi lasciarsi scivolare dalle mani il vero amore” esclama sovrappensiero mentre raccatta i tovaglioli sporchi, oramai finito il nostro pranzo.
Il sangue mi gela ma non smette di scorrere, al contrario trasmette perfido con il suo flusso il freddo in tutto il corpo, distolgo prontamente lo sguardo.
Gwen, immediatamente connesso il significato della sua affermazione, stringe le labbra sfiorandomi una mano.
“Scusa, non intendevo” inizia scuotendo la testa.
“Non c’è problema” non le faccio terminare la frase. Detesto queste situazioni, detesto come ogni volta i miei migliori amici camminino in punta di piedi per paura di ferirmi, detesto quegli sguardi preoccupati perché mi rendono unicamente conscia della mia debolezza.
Le sorrido dissimulando per poi scrollare le spalle e intavolare un’animata discussione sulla grande ascesa di Marc Jacobs nelle collezioni invernali.
 
Ripercorro la strada verso casa con il bicchiere del mio cappuccino pomeridiano nelle mani, certi tratti italiani sono indelebili. Sento i miei piedi implorare clemenza mentre sferzano rapidi sull’asfalto grigio scuro, non perché siano poi legittimamente provati dagli speroni che mi conficcano il tallone da tutta la mattina, ma per la loro stessa indecisione.
Vagano senza una meta prefissa, padroni del corpo che non muove obiezioni.
Vagano tra gli imponenti incroci del centro, facendosi largo in maniera svogliata tra la folla che imbizzarrisce Londra nell’ora in cui il personale smonta dagli uffici.
Vagano attraverso il St. James Park, strisciando tra i fili d’erba umidi, facendomi provare uno strano estraniamento dalla realtà, uno trasporto poetico e malinconico nel percepire gli ispidi ciuffi d’erba solleticarmi le caviglie.
Percorro i viottoli del parco, imboccando la strada di casa, gettando meccanicamente il fondo del mio cappuccino nel cassonetto all’angolo.
Non mi sento turbata dall’affermazione di Gwen, no; ma è istintivo e involontario per chi commette un errore ripercorrere con una perfida vena masochista i propri passi.
Potrò non essere felice, ma sono realizzata.
 
Fissavo con orrore quel bastoncino.
Immaginavo con orrore le indubbie conseguenze che quel mero stecchino di plastica grezza implicava.
Lui, nella sua beata inconsapevolezza, mi distruggeva in un attimo il prezioso lavoro di precisione curato negli anni con una sola, effimera, tagliente parola: positivo.
Lanciarlo contro lo specchio del bagno fu l’immediata conseguenza.
Mi rifiutavo categoricamente di poter accettare la presenza di un’altra esistenza dentro di me, quando già mi era difficile gestire la mia stessa vita.
Avevo tutto, avevo finalmente raggiunto l’idillico combaciamento tra il mio cuore e la mia mente.
Avevo David. Lo avevo davvero, mio da ben un anno e quattro mesi, a coltivare quello strano rapporto atomico che ci legava come due poli di segno opposto.
Avevo le tessere del domino tutte al posto giusto, aspettando solamente che un soffio facesse cadere la prima per poi scatenare la disastrosa reazione a catena; perché avrei dovuto aspettarmi che nulla di troppo abbagliante può durare talmente a lungo da non vederne mai il bagliore affievolirsi e spegnersi.
Una gravidanza non mutava semplicemente i miei progetti, stravolgeva la mia vita.
Quando i sensi di colpa iniziavano ad assalirmi percepite le mie intenzioni, cercavo di fare forza su me stessa per rinfrescare alla memoria tutti i traguardi ancora da raggiungere, tutti i mondi ancora da scoprire, tutte le possibilità ancora da cogliere. Non ero semplicemente pronta a rinunciare a me stessa.
David aveva impiegato poco a intercettare la causa della mia confusione.
Teneva in mano quel bastoncino come se non se ne sentisse minacciato. E la cosa mi irritava.
Fissava il suo sguardo verdastro nel mio in modo talmente intenso e fiducioso, che era impossibile sostenerlo. E mi sentivo infima e sporca nel non leggere in quella novità alcunché di positivo.
Aveva impiegato poco perfino nell’intercettare le mie intenzioni.
“Non puoi” se ne era uscito ovvio.
Io l’avevo guardato con gli occhi gonfi, conscia del fatto che quella era la faglia che avrebbe scatenato il terremoto. Avevo ingoiato a vuoto sentendo la gola intasata, perché avevo riconosciuto fin troppo bene il punto di non ritorno, la piega che avrebbe preso la nostra conversazione; una conversazione che avrebbe portato a galla le nostre idee diametralmente opposte, i nostri caratteri troppo diversi.
Lui aveva riso di una risata  amara e consapevole.
“Non può accadere adesso. Siamo giovani, il mio lavoro non si può conciliare con nulla in questo momento” tento di giustificarmi.
“Possiamo farcela” asserisce sicuro.
Io vedevo nero, vedevo un vicolo cieco, o meglio non vedevo affatto. La mia mente era annebbiata.
“No, non possiamo. Sai bene che il mio ambiente è una scalata al vertice, non potrò mai arrivare se non do il massimo, se non sono disponibile tutto il tempo, dedita più che ad ogni altra cosa” scoppio respirando affannosamente e sentendo gli occhi pizzicare.
“Già, dedita più che ad ogni altra cosa, a chiunque altro, a me, a lui” termina indicandomi il ventre.
Non poteva permettersi la facilità di incolpare il mio raziocinio.
“Non puoi chiedermi di rinunciare a tutto quello che ho guadagnato fino ad ora. Perché avere questo bambino significherebbe questo a conti fatti, David. Non puoi additarmi e guardarmi in questo modo solo perché ho finalmente imparato a preporre me stessa e il mio bene dopo un’intera esistenza passata ad occultare i miei desideri” le lacrime erano uscite definitivamente.
“Non mi pare che io sia stato incluso nei tuoi progetti a quanto sento” David respirava profondamente, come se si stesse trattenendo dal reagire.
“Tu non lo sai cosa significa non contare nulla, nascere in un paese in cui tutti sanno chi sei e nessuno ti conosce, non sai cosa significa lottare per poter vivere una realtà diversa. Non hai mai provato il sacrificio delle sconfitte e il dolore del rimettersi in piedi perché non c’è altro modo per realizzare i tuoi sogni. Sono cresciuta in una camera che si è consumata insieme a me nell’amore per Vogue. Ho vissuto un’adolescenza in cattività in un posto che mi stava stretto. E quando finalmente me ne sono liberata, ho dovuto studiare e lavorare sodo per ottenere risultati di alti livelli. Tu non lo sai cosa significa partire dall’essere nessuno e riuscire ad arrivare dove sono io con le tue forze. Significa aver versato tante lacrime, aver passato tante notti insonni, aver temprato le tue ossa con rifiuti e delusioni. Il massimo rifiuto che tu abbia mai dovuto subire è probabilmente il barista che non ti riempie il bicchiere di alcol perché ti vede troppo ubriaco sul suo bancone, o una ragazza che ti rifiuta l’accesso alle sue mutandine. Per cui non venirmi a fare la morale” ero scoppiata.
E ora stavo lacrimando senza ritegno perché il mio senso di egoismo mi stava corrodendo dall’interno.
David si era limitato ad annuire aspramente, senza mai smettere di trafiggermi con lo sguardo.
“Già, la parte del ragazzino viziato a quanto pare secondo te non mi si è mai scucita di dosso” il suo tono è pungente e deluso.
“Ad ogni modo se credi che sia una decisione unilaterale prendila da sola. L’hai già fatto, a dire la verità” continua “E so che l’idea di noi come famiglia sarebbe apparsa un po’ bizzarra, ma credo sia stato meglio svelare adesso il fatto che nulla potrà mai occupare un posto più importante della tua dannata ambizione, me compreso”.
Avevo ingoiato sperando  si strozzarmi con la mia stessa saliva, perché avevo recepito l’antifona.
Quella era la fine. E io non potevo far altro che accettare di aver distrutto il nostro rapporto con le mie stesse mani, con gli occhi pieni di lacrime e il cuore pieno di una traboccante voglia di strillare.
Ma non potevo pentirmene perché quella ero io, quello era ciò che pensavo e quello era ciò che era giusto per me.
Fu solo quando uscì dal mio appartamento e realizzai che non sarebbe più tornato che mi accasciai definitivamente a terra piangendo, addossata alla parete.
E giusto un attimo dopo, immaginandolo estraneo alla mia vita, mi ero ritrovata improvvisamente a mettere in discussione grazie a un sadico tempismo tutte le certezze per le quali mi ero appena battuta.
 
La sera del quattordici di settembre di ogni anno le porte della Banqueting House di Londra  si aprono per accogliere un tripudio di sete sgargianti e ostentazioni morbose.
Nasce come galà di beneficienza della casa editrice, per estendersi poi ad azionisti e imprenditori,  allargandosi per osmosi all’alta società londinese, mai impreparata nell’esibire la propria alterigia.
È l’evento di punta del calendario editoriale, pressato dall’ingombrante presenza degli inserzionisti e della stampa, mirato a celebrare le idi della primavera della moda: il numero di settembre.
Rimango con gli occhi chiusi mentre sento il movimento di un polso che muove la  spazzola, percorrendo più volte la lunghezza delle ciocche esposte al calore dell’asciugacapelli.
Non che sia il massimo della delicatezza, ma ho sempre trovato irresistibilmente piacevole qualsiasi sollecitazione al mio cuoio capelluto.
Riapro le palpebre controvoglia, affacciandomi al panorama della stanza dopo la colonizzazione del mio appartamento da parte di Morèt: il pavimento è tristemente svanito sotto il fitto tappeto di stoffe e attrezzature a sua detta indispensabili, cosmetici e prodotti per capelli hanno invaso ogni angolo rimpiazzando bellamente i miei soprammobili, e un terzo della collezione di scarpe di Gwen è schierata come una legione d’esercito sul piano da lavoro della cucina, mentre la suddetta proprietaria valuta quale paio calzare per la serata.
Mi volto verso il mio riflesso nello specchio, rinunciando a trovare una soluzione al dilemma di Gwen.
La ragazza di cui non mi sono dilungata a sapere il nome sta perfezionando le onde precise della capigliatura che ha appena ultimato sotto l’inflessibile ed esigente cipiglio di Morèt.
Le rivolgo un sorriso riconoscente, parte per la morbida e sofisticata piega che ha appena terminato, parte per l’infinita pazienza nel resistere alle pressioni enfatizzate e omosessuali del mio assistente.
Quando anche l’altro giovane ha completato il trucco, i due si congedano dopo un pomeriggio di lavoro d’immagine, lasciando me, Gwen e Morèt pronti ad indossare i nostri outfit.
Percepisco l’aria tesa tra di noi quasi fosse una presenza materiale, la trovo pesante e insolita.
Intercetto sguardi criptici e partecipi tra di loro mentre il silenzio risuona dell’eco dei nostri pensieri.
Indosso il lungo e morbido abito color ghiaccio categoricamente prescelto dall’una e vagliato dall’altro.
Gwen si sporge a metà busto dalle ante del guardaroba per osservarmi valutativa prima di aprirsi in un sorriso compiaciuto. Morèt ci raggiunge porgendoci due bicchieri di scotch e conservando il terzo per sé. Afferro il mio aggrottando le sopracciglia per un gesto tanto incomprensibile in quell’esatto momento ma, non ricevendo alcuna spiegazione alla mia perplessità, lo bevo d’un fiato dopo un brindisi silenzioso.
Riesco vagamente a  percepire il corso di una conversazione dibattuta tra i loro sguardi e dei pesanti sospiri prima di indossare i soprabiti e uscire di casa, senza addentrarmi nel chiedere chiarimenti.
Una volta oltrepassate le possenti porte della Banqueting House, vengo inghiottita dal chiacchiericcio sommesso e dal tintinnio dei calici elegantemente sorseggiati.
Cosciente del fatto che consumerò la serata nello stringere mani, ricevere lodi e complimentare a mia volta o intrattenere conversazioni di precaria utilità, mi aggrappo sconsolata al braccio di Gwen avvolto nel drappeggio del vestito porpora, percependo nella sua stretta una tacita e divertita comprensione.
Percepisco la pressione dei quindici centimetri di tacco spingere sui talloni mentre converso nel bel mezzo della sala con un certo James, inserzionista di un’azienda orafa francese.
Margarethe, il mio redattore capo, mi lancia sguardi d’approvazione a qualche metro da me e dal mio interlocutore, probabilmente soddisfatta che mi stia intrattenendo in una conversazione con lo scopo ultimo di adescare nuove inserzioni nelle pagine pubblicitarie della rivista.
Sorrido a James in risposta al suo fallimentare tentativo di ironizzare sul parrucchino della Wintour, mentre mi volto col il busto per afferrare un altro calice di spumante dal vassoio.
La mia pupilla ha un tremito nel momento esatto in cui lo sguardo cade su una figura di spalle.
Afferro il bicchiere con un gesto da automa mentre la mia mente elabora ad una velocità che non è normalmente consentita; sento le sinapsi bruciare per lo sforzo e le mani paralizzate, incatenate allo stelo del calice come se volessero aggrapparvisi.
Nel momento in cui ho il coraggio di mettere a fuoco nuovamente l’angolo verso il quale mi ero inconsciamente voltata, mi fermo a percorrere con lo sguardo quelle braccia, quelle spalle, quel collo, quei capelli, sentendo un urgente bisogno di sedermi e respirare.
James di fronte a me, seppur avesse continuato nella sua conversazione unilaterale durante il mio crollo emozionale, deve essersi accorto del mio turbamento perché si interrompe accennando al mio pallore e agli occhi vacui. Scuoto velocemente il capo scrollandomi di dosso quell’insano ma inequivocabile presentimento.
Non può essere Lui. Non lo vedo da anni ormai, nonostante il centro trafficato di Londra sia piuttosto prevedibile e conosciuto in alcuni orari. Ammetto di aver prestato orecchio ogni volta che il suo nome rimbalzava sulla bocca di qualcuno: involontariamente volevo sapere, era un bisogno impellente, quasi masochista. Ho sentito voci su un suo spostamento in oriente per estendere le basi commerciali dell’azienda di famiglia, storie su una sua ribelle permanenza oltreoceano, chi lo voleva a viaggiare per il mondo con qualche amico, chi dislocato in un’altra metropoli inglese.
Non può essere qui. Anche se, a mente lucida, ammesso che la mia possa mai esserlo in questa situazione, non esiste un motivo per il quale un rampollo di una società immobiliare inglese non avesse dovuto presentarsi a una serata di gala.
Riflettendo, mi perdo a fissare l’imboccatura ormai appannata del mio bicchiere a forza di respirarci dentro. Mentre tento disperatamente di convincermi che sia una banale illusione della mia vista, qualcosa di indefinibile dentro di me urla disperata quanto desideri in realtà che non lo sia.
Non può farmi questo. Si gira continuando a conversare con l’uomo alla sua destra: è il suo profilo, ancora più accecante e bello di come la mia mente ne avesse preservato il ricordo. Non avrebbe potuto nemmeno vagamente supporre sulla mia presenza: sapeva che sarei stata qui, non è da mettere in dubbio; ma non riesco a spiegarmi la sua partecipazione stasera, non dopo sei anni, non per farmi vacillare ancora. Preferisco voltarmi e iniziare a camminare quando percepisco che sta per voltarsi completamente nella mia direzione.
Codarda. Lo so.
Avverto di tutta la confusione della sala in festa solo rumori ovattati, come lontani; distinguo nitidamente il solo suono scandito dei tacchi di Gwen seguirmi apprensivi dopo aver intercettato la mia fuga.
Sbatto sonoramente la porta dei bagni provvidenzialmente semideserti e mi trattengo dallo sciacquare il viso con dell’acqua fredda: essere presentabile non è una prerogativa da posporre a qualsiasi incidente.
Lo specchio riflette l’immagine di Gwen alle mie spalle, supportata in una manciata di minuti da quella di un Morèt estremamente affannato: entrambi si rintanano in sguardi compassionevoli e allertati, restii a concedersi un gesto o una parola azzardata.
Ancora una volta sento le tempie pulsare dalla la rabbia per loro reazioni: intendendo essere supportavi, generano invece un’inconsapevole violenza sulla mia determinazione; la loro paura di farmi crollare non fa altro che evidenziare in maniera accecante ai miei occhi quanto tutto questo riesca a rendermi fragile, quanto lui possa rendermi debole.
“Lo sapevate, non è vero?” non esito.
Non mi volto, preferisco chiedere alla loro immagine riflessa davanti a me. Alla mia domanda Morèt abbassa lo sguardo colpevole mentre Gwen sostiene il suo saldo e determinato, tanto da farmi leggere in esso un assoluto compiacimento per come si sia svolta la faccenda.
“Se te lo avessi detto prima non saresti venuta” mi spiega con molta calma. Riconosco il fatto che abbia una ragione inoppugnabile e mi meraviglio anzi quanto tempo abbia pazientemente aspettato prima di appagare la sua coscienza e combinare strategicamente un nostro incontro.
“Da quanto David è in città?” la incalzo nel mio interrogatorio.
Pronunciare il suo nome è quasi esorcizzante, come aprire le ante sbarrate di un vecchio armadio polveroso e farvi riprendere luce e aria, come scucire una sutura  troppo stretta. È stato taciuto così a lungo da farmi credere che mai sarei riuscita a incanalare l’aria per pronunciarlo ancora.
“È tornato da tre mesi” continua inflessibile.
Immediatamente leggo nel suo comportamento tutta una gamma si spinte e incitazioni sulle quali non mi ero mai soffermata. Ricompongo i pezzi del puzzle fino a rendermi conto di quanto la mia migliore amica non sia solo un conforto, ma un supporto. Gwen probabilmente non ha mai cercato di proteggermi dagli urti di questa faccenda, ha lottato silenziosamente per farmela affrontare di petto.
Improvvisamente vorrei urlarle la mia riconoscenza e il mio affetto, ma sono ancora troppo scossa dalla visione di qualche minuto prima.
Devo tornare nella sala: ne sono perfettamente consapevole. Eppure i cinturini delle scarpe stretti attorno alle mie caviglie sembrano piombo, i miei piedi -o forse la mia mente- non hanno il miserabile coraggio di scollarsi dal marmo del pavimento per incamminarsi nuovamente verso il salone incriminato.
Forse merito del tacito incoraggiamento di Gwen, forse per la mano di Morèt poggiata delicatamente sulla mia spalla scoperta, forse complice  tutto l’alcool di quella serata da dimenticare, non trovo un barlume di determinazione per affrontarlo: me lo fabbrico.
Incedo a passi precisi verso la sala ostentando una finta e inappropriata sicurezza; lo spacco dell’abito si muove a ogni mio passo scoprendo le gambe mentre io respiro profondamente senza far trasparire la benché minima inquietudine.
Il mio sguardo vaga guardingo e vigile da un angolo all’altro, così da non essere mai colto spaesato o sorpreso, poi si rassicura nel momento in cui pare non scorgerlo nelle vicinanze. Nel momento in cui distendo le sopracciglia corrugate per la concentrazione, sento la pressione di una mano sulle scapole farmi girale lentamente.
Richard Woolkra, un ometto sulla settantina, mi guarda sorridente dal suo metro e sessanta.
“Mia cara, finalmente ti ho travata; volevo presentarti ad alcune persone” afferma poi con un’aria soddisfatta e beata, conducendomi qualche altro passo verso le vetrate lucide delle balconate.
Woolkra, l’ormai storico presidente del canale televisivo britannico, mi indica con il suo bastone intarsiato delle sagome alla sua destra, invitandomi a raggiungerle al suo fianco.
“Una delle società immobiliari più antiche dell’Inghilterra ho supposto potesse procurarvi delle location esclusive per i prossimi servizi, cara” si giustifica soddisfatto al mio orecchio mentre cammina arzillo.
Io deglutisco sonoramente. Nonostante apprezzi profondamente i suo volersi adoperare per il bene dell’editoria, in questo esatto momento desidererei unicamente virare dalla parte opposta e ignorare maleducatamente il suo garbato interesse. Invece proseguo.
Riconosco la schiena dritta e le mani che stringono rilassate un bicchiere di gin tonico e, nonostante non sia oramai una sorpresa, il mio stomaco non smette di contorcersi dolorosamente. Avanzo.
È come un calvario: percorrere un senso unico di cui si conosce fin troppo bene la meta.
Un piede simmetricamente avanza davanti all’altro, consapevole dell’inevitabilità di questo incontro.
Mi riprometto mentalmente che qualsiasi reazione, sia anche la più devastatrice, rimarrà celata nella mia cassa toracica: dal mio viso non trasparirà alcuna emozione che non sia cortese indifferenza.
“Mi permetto di presentarti Edward, amministratore delegato, e la sua amabile consorte Annabeth; mentre loro sono David, direttore esecutivo, e Amber” termina Woolkra totalmente inconsapevole delle dolenti sferzate che le sue innocenti presentazioni stanno provocando al mio interno.
Respiro regolarmente mentre regalo un cordiale sorriso a tutti e quattro. Poi trovo inevitabile e masochista far cadere lo sguardo sulla mano di questa suddetta Amber, nome volgare, sgradevolmente arpionata al braccio di David. Mi incanto per qualche secondo serrando la mascella.
Non sono talmente sciocca e illusa da credere che in tutto questo tempo Lui non sia tornato alle vecchie abitudini, che non abbia accolto tra le lenzuola qualcun’altra, che non si sia ricostruito un harem personale, solo mi ero bellamente rifiutata di rifletterci anche per un solo istante.
David allunga la mano verso di me, attendendo che io gliela stringa. Mi guarda con una strafottente punta di divertimento, con un luccichio provocatorio a illuminargli le iridi verdi, e immediatamente è come se il tempo si annullasse, come se non fosse passato nemmeno un giorno da quando mi perdevo in quegli occhi. Mi limito a stringere la sua mano e a sopportare impassibile tutte le scariche che quel contatto ha scatenato sulla mia pelle. È una sofferenza consapevole e bramata.
I nostri occhi creano un contatto esclusivo, talmente teso da essere quasi palpabile.
Non appena riacquisto il controllo della mia mente sciolgo il contatto tra le nostre mani e distolgo prontamente lo sguardo; non ho bisogno di rialzarlo per poter percepire il piccolo ghigno che si è fatto spazio sulle sue labbra, vittorioso che sia stata io a cedere per prima: riesco a immaginarlo.
Deglutisco sentendo la mia stessa saliva bruciare all’interno della gola secca e ruvida, quasi fosse scorticata. Ad essere sinceri mi sento scorticata in ogni parte del corpo, graffiata fino alle pareti del cranio, scalfita nelle ossa e lacerata in ogni misero tessuto che mi compone.
Woolkra intavola una conversazione della quale afferro distrattamente qualche frase, partecipandovi unicamente a monosillabi. Sono intenta a riacquistare la mia sicurezza e arroganza, riaffiorano in me le parti più spigolose e combattive del mio carattere, l’alterigia assopita che mi rendeva viva.
Inutile negarlo: Lui era andato via saccheggiando quella parte di me che più mi apparteneva, quella forte e provocatoria, quella con la quale era in competizione. Lui mi rendeva impertinente e vivace.
Ma avevo scelto l’haute couture e adesso dovevo farmela bastare.
Vengo risvegliata dal mio stato abulico dall’intervento provvidenziale di Morèt, che reclama la necessità della mia presenza alla contrattazione con un pubblicitario estero.
Riconosco dall’inclinazione della sua voce che si tratta di un pretesto per salvarmi da quell’insostenibile situazione. Mi dileguo con un sorriso di circostanza ai coniugi e a Woolkra, uno freddo e calcolato a David, uno finto e carico d’odio ad Amber.
Dopo aver afferrato un altro calice da uno dei tanti vassoi distribuiti per il grande salone, oltrepasso le imponenti ante delle vetrate per affacciare sulla grande balconata. La temperatura di metà settembre è troppo rigida per invogliare i sir a fumare all’aperto i propri sigari o per permettere alle imbellettate signore di trascorrere la serata al di fuori della sala riscaldata.
Mi ritrovo sola a respirare profondamente l’aria umidiccia e pungente, posando saldamente i palmi delle mani sulle balaustre marmoree e gelide. Una leggera brezza muove il soffice vestito, scoprendo del tutto le gambe mentre io mi ritrovo a bearmi di quel contatto rigenerante e catartico.
La temperatura della sera lambisce la mia pelle scoperta, restituendomi la sensazione di essere punta da migliaia di aghi sottili, senza riuscire a sottrarmi a questa piacevole tortura. Resto immobile a fissare il giardino curato e buio al di sotto della balconata, lasciando i capelli muoversi seguendo i disegni dell’aria e la mia mente vagare.
“È freddo per stare fuori con un vestito di chiffon” la voce alle mie spalle mi raggela più di quanto l’aria non abbia già fatto. Mi volto con estrema lentezza, tormentosamente cosciente della sua fonte.
David è dietro di me, probabilmente da molto prima che me accorgessi. Appoggiato alla parete in pietra, mani nelle tasche, noncurante e disinvolto, pago e cosciente dell’effetto che mi sta provocando.
Si accende una sigaretta con trascurata rilassatezza.
“È anche tardi per ripresentarsi nelle vite degli altri” gli rispondo a tono, incatenando lo sguardo al suo.
Ghigna divertito e non riesco a frenare la mia mente dal pensare che sia irresistibilmente attraente.
Il verde dei suoi occhi è quasi accecante mentre vaga su di me. E per un attimo voglio illudermi che i brividi che mi pervadono siano dovuti al freddo.
Poi mi accorgo che mentire a me stessa è come spazzare la polvere sotto un tappeto.
“Sembri sorpresa di vedermi” mi stuzzica.
“In effetti hai sempre avuto un gran tempismo. Cos’è? Ti mancava Londra?” gli rivelo sarcastica sbuffando un sorrisetto amaro. Distolgo però lo sguardo da quei picconi verdognoli che mi stanno scavando, per posarlo sul giardino oltre le imponenti balaustre.
Fisso i fiori infreddoliti nella penombra.
“Mi mancavi tu, a dire la verità” continua con un tono che ha perso tutta la spavalderia e la provocazione di qualche attimo prima. Mi volto velocemente nella sua direzione, come scossa da una scarica elettrica. Quelle parole, quasi un sussurro, riecheggiano vorticosamente tra le pareti della mia mente, pregne al tempo stesso della punta di audacia e irriverenza con cui sono state pronunciate, proprie del proprietario.
Lo vedo attendere impaziente una mia reazione nonostante cerchi di non darlo a vedere.
Qualcosa gli illumina le pupille, un luccichio straziato e combattivo. Poi mi ridesto, ostinata più di lui.
“Sei riuscito a sopravvivere egregiamente anche in mia assenza, vedo” tento di ripararmi.
Butta la sigaretta veloce per poi infilare le mani nelle tasche del completo blu scuro; lo vedo alzare gli occhi al cielo mentre le sue labbra si increspano in un risolino consapevole, cinico calcolatore.
“Non mi manchi come l’aria, posh, non sei indispensabile alla mia sopravvivenza, potrei tirare avanti senza. Il problema è che mi manchi come manca il sole: niente ti impedisce di vivere lo stesso, ma ti senti spento, senza vitalità, propositi o ispirazione. Semplice” conclude con assoluta sicurezza.
Mentre il mio sguardo non medita nemmeno sulla possibilità di separarsi dal suo, sento la pressione sanguigna pulsare nei polsi e il benessere invadere il mio corpo come frutto di una violenta implosione.
I miei talloni non sono più così doloranti e il freddo aguzzo non è più così spiacevole; o almeno le mie deformazioni emotive al momento non mi consentono di percepirli.
Sentirmi apostrofata con quel vecchio nomignolo mi ha fatto sussultare impercettibilmente.
Pensare che sia bello mi renderebbe irrimediabilmente una sedicenne preda degli ormoni, ma è un dato di fatto innegabile. Il castano chiaro dei suoi capelli spettinati è illuminato dalla luce del plenilunio, così come la perfetta squadratura della sua mascella. Avanzo come guidata da un’atavica forza verso di lui, senza mai interrompere quel pericoloso gioco di sguardi.
“Semplice” ripeto fermandomi a qualche passo di distanza da Lui “Lo trova semplice anche la tua ragazza Amber in sala?” continuo con una sfumatura accusatoria e indisponente nella voce.
“Sai perfettamente che non è la mia ragazza” risponde senza scomporsi.
“Vero. È la ragazza per stanotte” butto con un aspro sospiro.
“Vuoi che lo sia?” mi sfida con la voce e con lo sguardo, avanzando un passo nella mia direzione.
“A me cosa cambierebbe?” fingo magistralmente indifferenza.
“Continuerai a rispondere alle  mie domande con altre domande per tutta la vita?” avanza di un altro passo mentre il sorrisetto si apre inarcandosi verso un lato, ancora incredibilmente divertito.
I suoi occhi luccicano di un bagliore in bilico tra passato e futuro, memoria e speranza, ricordi e progetti.
“Cosa ti fa credere che noi due trascorreremo tutta la vita insieme?” chiedo nuovamente; mi accorgo inerme di rifarlo unicamente per scorgere ancora quel ghigno complice sulle sue labbra.
“Il fatto che non sarei tornato se non fossi stato fottutamente innamorato di te” continua secco e preciso, compiaciuto nell’avermi immobilizzata, troppo sconvolta per proferire parola o recuperare una parvenza dignitosa.
Percepisco i palmi delle mani prudere in maniera indicibile e le falangi come arrugginite mentre stringo i pugni imponendomi autocontrollo. Il cuore ha preso a pompare sangue a una velocità azzardata, tanto da farmelo echeggiare nelle vene rimbombanti dei polsi. Lo stomaco sembra una clessidra: una minuscola giuntura al centro che blocca il lento passaggio delle mie sovraffollate emozioni.
Deve essergli costata molto una dichiarazione così esplicita, rifletto.
La brezza settembrina mi riscuote lambendomi violenta la pelle, mentre mi scrollo da dosso questo stato marmoreo; non riesco a stimare quanto tempo sia stata a riflettere sulle sue parole, ma non appena mi volto nuovamente verso di Lui, leggo nelle sue iridi una determinazione quasi superba, un’attesa pregna di speranza, un desiderio mai assopito.
Realizzo che ogni sfumatura d’emozione che trasmette non è altro che il riflesso osmotico delle mie, quanto siamo irrimediabilmente complementari ed essenziali.
Le sue mani d’improvviso mi cingono la vita, impazienti e sicure, attirandomi perentorie a sé.
Ma non ho la più remota intenzione di fermarlo.
Risalgo il profilo del suo collo con le dita, serrandole attorno ai capelli corti sulla nuca.
“Sei così schifosamente indispensabile” sussurro fintamente adirata, prima che Lui sogghigni soddisfatto e mi baci finalmente.
È un contatto talmente bramato e intenso che sembra bruciare, di un calore piacevole e appagante.
Ogni timore, rancore, incertezza non ha più spazio e non ha più tempo, sconfitti davanti all’evidenza di un sentimento invalicabile. Non appena mi separo da Lui, anneghiamo nuovamente in una tormentosa conversazione fatta di sguardi, di mute domande ed esplicite comunicazioni.
David torna ad osservarmi per poi aprirsi in un’espressione maliziosa che, dopo l’eccesso di brutale sentimentalismo, indubbiamente più gli si addice.
“Bel vestito” afferma indicandomi con un veloce accenno del mento, senza smontare quel seducente sorriso carico di allusioni.
“Bel lavoro” rispondo allora immediata, riferendomi all’incarico annunciato durante le presentazioni, senza interrompere la collisione delle nostre pupille.
Riesco a percepire i nostri cuori appagati per la nostra competizione sempre accesa e le sfide nel non concederci mai una vicendevole soddisfazione.
Sorrido del nostro cozzante orgoglio, baciandolo ancora. E ancora.
La convenzionalità non è affar nostro.




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Misero antro in cui rimurgino su questo scritto:
chiamarlo "Angolo della scrittrice" era seriamente troppo. è una storia uscita di getto, sognando un po' ad occhi aperti e delirando in modo preoccupante.
fatemi solamente sapere un parere, una critica, un apprezzamento, una raccomandazione alla clinica spichiatrica vicino casa vostra... tutto è ben accetto!
M.
  
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