Forgiven
“Non
l'ho mai conosciuto. Lo credevo, ma fu solo nel leggere il suo diario
che mi resi conto di non averlo mai conosciuto.
Ora è troppo
tardi.
E' troppo tardi per dirgli che mi ero fatto un'idea
sbagliata di lui.
Troppo tardi per dirgli che mi dispiace.”
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La tenuta non mi era mai sembrata
più silenziosa ed
abbandonata. Nella realtà dei fatti non lo era, ormai
parecchie
persone la popolavano... Ma io mi sentivo più solo che mai.
Charles
Lee era morto, le colonie erano libere ma il mio popolo era stato
mandato via.
Ero solo. Anche Achille mi aveva lasciato. Lui mi
aveva messo in guardia, mi aveva avvertito.
“Nella foga di
salvare il mondo, ragazzo, stai rischiando di distruggerlo.” Mi
aveva detto... Ed aveva ragione, solo che io ero troppo preso dalla
mia causa per dare ascolto a chiunque altro.
Mi mancava, così
come mi mancava mia madre.
Ero abbattuto, sconsolato e – il
vuoto che provavo dentro – sembrava allargarsi a macchia
d'olio per
ogni pagina che voltavo del suo diario.
Avevo passato tutta
la notte a leggere il diario di Haytham Kenway, mio
padre.
Avevo trascorso le ore più buie dentro alla stanza,
inghiottita
dalle tenebre, seduto allo scrittoio e rischiarato solo dalla fioca
luce di una candela, la cui fiammella danzava veloce e leggera,
lasciandosi trasportare aggraziata da ogni minima corrente d'aria che
incontrava.
Ero talmente preso da quella lettura e dalla voglia di
scoprire di più su di lui - comprendendo via via che non era
l'uomo
che mi ero figurato - che non mi resi conto che si era fatta
già
l'alba.
Fu solo quando chiusi il suo diario, avendo assimilato
fino all'ultima riga, che mi sentii nuovamente libero di riflettere e
pensare... E forse sarebbe stato meglio per me che quel momento non
fosse mai arrivato visto che il senso di colpa mi colpì
forte come
uno schiaffo in faccia.
Appoggiai una mano sulla copertina rigida
del manoscritto, sentendo sotto le mie dita i precisi intagli e gli
eleganti ricami della stessa.
Il mio sguardo era perso, dritto di
fronte a me, nel nulla. Avevo un peso che mi gravava sul petto, in
alcuni momenti sembrava mi rendesse difficoltoso quasi il solo
semplice respirare... Ed un peso ancora più grosso gravava
sulla mia
coscienza.
Che cosa avevo fatto..?
La sua vita
non era stata affatto facile, così come non lo era stata
neppure la
mia. Mi sembrava, in quel momento, di sentirlo vicino a me
più che
mai.
Era stato abbandonato, la vita stessa lo aveva soggiogato,
offrendogli l'illusione di quanto più bello e prezioso
potesse
esserci al mondo come il calore e l'amore di una famiglia, per poi
riprendersi tutto, lasciandolo nella più mera desolazione.
Aveva
visto morire il padre che tanto amava davanti ai
suoi occhi,
proprio come io avevo visto morire mia madre di
fronte ai
miei.
Era stato inghiottito dai sensi di colpa quando sua madre
era morta, maledicendosi per non averle dedicato più tempo,
nonostante lei lo vedesse oramai solo come un assassino.
Era
la stessa cosa per la quale mi stavo maledicendo io: avrei dovuto
dedicargli più tempo e cercare di capirlo, di leggere nei
suoi
occhi, di scorgere quel velo di tristezza ed abbandono che li
animavano... Ma ero troppo preso dalla mia convinzione che lui mi
vedesse solo come un Assassino.
Un istante dopo mi venne
chiaro cosa avrei dovuto fare: mi alzai dalla sedia e mi avviai
all'uscita. Una volta che mi ritrovai fuori dovetti portarmi una mano
di fronte al viso: la giornata era parecchio soleggiata –
nonostante il clima ormai fresco di Ottobre – e la mancanza
di
sonno aveva reso le mie pupille particolarmente sensibili a tutta
quella luce.
Mi diressi verso la stalla, sellai velocemente uno
dei cavalli e salii in groppa.
Solo pochi istanti dopo ero in
sella al mio destriero, coprendo la distanza che mi divideva da New
York, al galoppo... Probabilmente prima di arrivare a destinazione,
però, avrei fatto una breve deviazione tra i boschi.
Fermai il mio cavallo e scesi, feci passare le redini oltre
il suo collo per poi legarle alla bianca e rovinata
staccionata.
Presi i fiori che con cura avevo strappato da quelle
terre e non me ne vergognai nel pensare che li avevo scelti
scrupolosamente, uno per uno.
Alzai lo sguardo per un istante e
vidi il crocifisso in cima alla chiesa, illuminato dal sole, il quale - quest'ultimo -
di tanto in tanto spariva sotto le nuvole che si rincorrevano veloci
nel cielo limpido ed azzurro.
Mi feci forza e finalmente, mettendo un piede
dietro l'altro, entrai nel piccolo cimitero antistante l'edificio,
camminando tra quelle lapidi ormai dimenticate da chissà
quanto
tempo. Camminavo lento, senza fretta, prendendomi il mio tempo...
Tuttavia la vergogna mi assaliva sempre di più ad ogni
passo, finché
non mi fermai, finché non fui dinnanzi a lui.
Appuntellai
un ginocchio sul terriccio morbido, inginocchiandomi. Passai una mano
sulla lapide fredda ed opaca, pulendola per quanto possibile dalla
polvere delle strade, alzata dai cavalli durante il loro passaggio,
che si andava a posare su quelle pietre quasi a voler offuscare il
ricordo dei nostri cari.
'In loving memory of Haytham
Kenway, the Grand Master
of the Knights Templar.
A brave and honorable man who sacrificed
his life for the Order.
1725 – 1781
R.I.P.'
Nel leggere quelle poche e brevi righe mi sentii quasi
uno stupido ad essermi recato lì. Non per lui, ma per me.
L'avevo
ucciso io, dopotutto.
Rimanendo nella medesima posizione allungai
le braccia ed appoggia il ricco mazzo di fiori colorati appena sotto
la lapide, la quale già sembrava assumere un tono diverso.
Rimasi
ad osservarlo per qualche istante mentre nella mia testa si
accavallavano le righe del diario, i miei sentimenti, la sua voce ed
i momenti passati insieme.
“Ciao...” Iniziai allora, con un
filo di voce. “Riesci a sentirmi, non è
così? .. Per tutto il
tragitto fino a qui non ho fatto altro che chiedermi se tu volessi
che venissi oppure no... Eppure ho letto il tuo diario, padre, e mi
sbagliavo.” Ammisi. Nel pronunciare quelle parole, finalmente, realizzai quanto in realtà
avessi
torto sul suo conto.
Ci furono lunghi istanti di stasi e di
silenzio in cui sentivo il vento scivolare tra le fronte degli
alberi, dare vita a ciò che intorno a me sembrava morto,
accarezzare
l'erba. Accarezzare me.
Per un attimo ebbi l'illusione che mio
padre volesse entrare in contatto con me attraverso la natura.
“Sai,
quando ero piccolo mi chiedevo spesso chi fosse in realtà
mio
padre... E lo chiedevo ancor più spesso a mia
madre.” A quel punto
appoggiai entrambe le mani sul terriccio, dandomi modo di mettermi
più comodo, a gambe incrociate.
“Lei non ne parlava spesso,
anzi, quasi mai.. Ma diceva che eri un principe, un uomo pieno di
coraggio e di ambizioni e che ti somigliavo molto.” L'ombra
di un
sorriso m'illuminò il viso al dolce pensiero di mia madre.
“E a
dir la verità, ripensandoci, è vero... Ho letto
le righe del tuo
diario, devi essertene accorto anche tu. Ero il frutto del vostro
amore... Il frutto proibito del vostro
amore.” Mi
corressi.
E fu così che passai la mia intera giornata: rimasi
lì,
nel cimitero antistante la chiesa, seduto accanto la lapide di mio
padre.
Parlai, parlai a lungo... Gli raccontai della mia vita,
della mia infanzia, di quando ero solo un bambino. Gli raccontai di
come vidi bruciare viva mia madre davanti ai miei occhi, ma questa
volta senza un vero e proprio rancore rivolto verso di lui.
Gli
raccontai dello strano viaggio che mi fecero fare 'Coloro che
Vennero Prima' e di come sul suo diario ne avevo letto
più
volte. Gli raccontai della tenuta, di Achille e dell'addestramento,
di quando finalmente fui pronto a diventare un Assassino... Gli
raccontai delle mie sfide, delle mie imprese e dei miei viaggi.
Forse
sembrava stupido ma non era la prima volta che lo facevo. Mi ero
ritrovato più volte di fronte la tomba dello stesso Achille
a
parlargli e a raccontargli di ciò che mi accadeva, dei miei
dubbi e
delle mie incertezze, certo che lui potesse sentirmi e che in qualche
modo mi avrebbe mandato un segnale, anche minimo, per portarmi sulla
giusta strada... Eppure ciò non era accaduto. Aveva passato
quello
che gli rimaneva della sua vita a mettermi in guardia riguardo a
ciò
che stavo facendo, tanto che forse – una volta
all'aldilà –
aveva capito che non avrebbe potuto dissuadermi, che ero una testa
calda, che avrei proseguito per le mie certezze fino alla fine... E
dunque perché ascoltarlo da morto, visto che non l'avevo
fatto
fintanto che era vivo?
Continuavo a parlare, a parlare e ancora a
parlare. La gente che passava mi osservava quasi come se fossi un
matto. E poi parlavo, parlavo e parlavo ancora: di tutto, di
qualsiasi cosa passasse per la mia testa. Forse era un po'
perché
avevo letto il suo diario che mi trovavo in dovere di parlargli di
me, forse era un po' perché mi illudevo che non fosse troppo
tardi
per conoscerci un po'... O che per lo meno lui mi conoscesse un
po'.
Lentamente cominciai ad accorgermi di quanto si era fatto
tardi dal calo della temperatura e dal cielo che diveniva sempre
più
scuro, non solo per il sopraggiungere del crepuscolo ma anche per le
nuvole minacciose di pioggia.
Sospirai contrariato, comprendendo
che forse era ora di fare ritorno alla tenuta. Mi posi nuovamente
sulle ginocchia mentre cominciai a sentire le raffiche di vento
più
forti muovere con violenza i rami degli alberi mentre l'erba
– alta
ed incolta – ne seguiva la direzione.
Lessi nuovamente ciò che
v'era scritto sulla lapide, silenziosamente. Mi resi conto di come
uno per uno avessi fatto fuori tutte le persone intorno ad Haytham e
di come il suo ricordo fosse destinato a scomparire se non lo avessi
tenuto in vita almeno io.
A quel pensiero una reale e totale
sensazione di sconforto, misto a senso di colpa, mi investì.
Strinsi
i denti mentre sentii le sopracciglia incurvarsi e far assumere al
mio volto una sincera espressione di dolore.
Le prime goccioline
di pioggia cominciarono a cadere dal cielo scuro, sopra il mio
cappuccio bianco, tirato sul capo.
Mi morsi il labbro con forza,
quasi a farmi male, cercando di dominare quel vortice di emozioni che
si facevano strada via via sempre più impetuose nel mio
petto... Ma
non vi riuscii, e due lacrime solcarono le mie guance. Le prime di
una lunga serie.
“.. Mi dispiace..” Sussurrai a quel punto,
aprendomi forse per la prima volta – realmente –
dopo tutto il
giorno passato lì. “.. Mi dispiace davvero..
Scusami.”
Sentii
la mia voce afflitta. Ero distrutto, ecco cos'ero... E lo avevo fatto
da solo, mi ero distrutto con le mie mani. Avevo rovinato tutto, io,
solamente io, per continuare secondo le mie certezze. Avevo fallito.
Avevo perso la mia famiglia.. Achille, senza dargli mai ascolto, mio
padre, la mia terra.
“.. V-vorrei solo stringerti adesso..”
Dissi con la voce rotta dai lievi singhiozzi che cercavo di reprimere
e le copiose lacrime che mi rigavano le guance. Strinsi gli occhi ed
abbassai il capo.
“.. Mi dispiace così tanto, padre...”
Aggiunsi in un sibilo. Portai le mani nel terriccio ormai bagnato,
facendomi spazio in esso con le dita e stringendo poi i pugni, quasi
a voler creare un contatto con lui. Sì trovava
lì, poco distante,
sotto di me... Eppure la distanza che ci divideva sembrava
infinita.
Non seppi perché, ma davanti a lui riuscii a
sciogliermi. Ciò che non ero riuscito a fare per anni,
ciò che non
ero riuscito a fare da quanto le mie disgrazie ebbero inizio, riuscii
ad esternarlo solo di fronte a lui.
Per un attimo mi sentii come
un bambino: impotente, debole ed indifeso, in cerca solo di un po' di
conforto, di un po' di aiuto. Finalmente, per una volta, riuscii ad
esternare quella baraonda di dubbi, incertezze e delusioni che ero e
che provavo, sin da quando ero solo un bambino, sin da quando avevo
imparato a stringere i denti e a passarci sopra.
“.. Vorrei solo
stringerti forte a me, adesso..” Ripetei, distrutto dal
dolore.
Rimasi lì, assieme a lui, per
un tempo indefinito, fintanto che i sensi di colpa non si sarebbero
attenuati, fintanto che avrei avuto lacrime da versare.
Angolo Autrice:
Yeeee! Viva le fyccine molto felici e piene di vitalità della Evelyn!
Yup, lulz!
Ok, seriamente... Un po' di tempo fa mi era venuto in mente, non ricordo scaturita da che cosa e così un paio di giorni fa iniziai a scriverla.
Spero di aver reso bene il finale, perché deve apparire un Connor distrutto ed impotente, un bambino indifeso di fronte all'enormità della vita e di fronte alle conseguenze delle sue azioni, che trova sfogo ai suoi sentimenti solamente di fronte al padre defunto.
Ho letto Forsaken, il libro/diario di Haytham Kenway.. Non l'ho finito del tutto ma ci sono quasi.
Inizialmente avrei voluto infilarci delle cose in più del libro, dei riferimenti, ma poi mi sono astenuta per chi magari non l'ha letto e mi son limitata al padre, alla madre e cose così.
Tra i personaggi della storia ci ho messo pure Haythm, sì, perché se anche non fisicamente ma lui c'è.
Ah e questa l'ho messa nella serie, insieme alle altre due fyccine che ho scritto dedicate a loro.
(QUI il link per The Flame of Hope e QUI il link per The Last Thoughts of a Templar... And a Son in caso ve le foste perse e aveste voglia di leggerle).
E nulla, credo sia tutto, spero che la fyccina sia di vostro gradimento e... A voi la parola!
Alla prossima!