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Autore: Erodiade    15/03/2013    11 recensioni
Certe cose richiedono tempo.
'Non dovrei essere qui.' Se lo sentiva nelle ossa e nel sangue, tuttavia il richiamo non poteva venire ignorato.
[Tom/Harry, sequel di Tourniquet, one shot]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Potter, Tom Riddle/Voldermort | Coppie: Harry/Voldemort
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Altro contesto
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Disclaimer: Harry Potter e i suoi personaggi non mi appartengono.
Introduzione: Certe cose richiedono tempo. ‘Non dovrei essere qui.’ Se lo sentiva nelle ossa e nel sangue, tuttavia il richiamo non poteva venire ignorato.
Pairing: Tom/Harry
Note/avvertimenti: slash, AU (OOC), One-shot, angst, pippe mentali, romanticume, malinconia-portami-via, angst, altre pippe mentali, blablabla.
N/A: sequel di Tourniquet, non leggibile singolarmente. Temo sia lunghino (10.758 parole) e che si tratti di un’aggiunta non indispensabile, però spiega che cosa combina Tom nei suoi viaggi, chiarisce che cavolo di problemi psico-somatici abbia e…direi basta. Lo stile è meno blabloso del mio solito perché era già abbastanza lunga senza ghirigori. Spero caldamente che l’inglese non mi abbia abbandonata e che il titolo sia corretto. Ah, spero anche che qualche coraggioso arrivi alla fine e lasci un commento, ma mi pare una pretesa sin troppo azzardata, quindi mi limito a corrompervi: se lasciate una recensione io vi mando tanto amore. Uff, scommetto che non funziona così…

 





Lay some ghosts to rest

(but these things take time, you know)
 


I can still feel you, even so far away
The great below, Nine Inch Nails





 

Venerdì 21 novembre 1986, cimitero di Little Hangleton


In passato, la villa aveva posseduto tutta l’ingiustificata arroganza propria dei Babbani altolocati. Abbandonata, continuava a dominare il villaggio dormiente dall’alto della sua collina. Non poté impedirsi un’antica ombra di compiacimento nel constatare l’aria di decadenza che emanava dai rampicanti sulla facciata e dalle tegole mancanti, né quella era la sola reazione che la casa gli suscitava.
(Ricordava sangue e arsura e paura, brividi e vertigini e calore. “Ti volevo sincero, per una volta, prima di andare.”)
Distolse velocemente l’attenzione. La vecchia residenza dei Riddle non aveva nulla a che fare con la sua venuta.
Il sole sorgeva in quel momento, intruso pallido disposto ad abbandonare un Emisfero apposta per inseguirlo. La luce gli feriva gli occhi; tuttavia non sollevò il dorso della mano a schermarsi lo sguardo. Lui voleva guardare. Voleva vedere quel villaggio insulso sepolto nel nulla della campagna inglese mentre si svegliava, forse per alzare la bacchetta contro un Babbano qualunque e prendere la mira. Questo ad almeno una parte di lui non sarebbe dispiaciuto.
Si figurava la scena: levare il braccio e puntare, con calma regale, la prima creatura che avesse superato l’uscio sicuro della propria dimora, immaginando di ricavarne una soddisfazione molto particolare, quasi palpabile. La verità era che non intendeva cedere all’impulso, ma la sua mente v’indugiava morbosa, riproponendogli l’immagine in sequenza, netta e cristallina contro la retina: era come se lo stesse già facendo. Gli succedeva qualche volta, quando era preda di un nervosismo tacito e brillante negli occhi, difficile da cogliere in superficie. Non lo voleva… Non davvero.
Vieni.
Non c’era molto da fare nell’attesa. Attendeva sempre troppo a lungo e fingendo sempre troppa calma. Detestava attendere, in realtà. Anche Nagini percepiva il suo umore; strisciava, irritata e sibilante, sul manto erboso bagnato dalla rugiada. Non sarebbe voluta tornare.
“Perché siamo qui?” soffiò infine con un guizzo della lingua bifida, scrutandolo torvamente. Sapeva perfettamente il perché; solo, trovava gusto nel provocarlo.
Non rispose. Senza accorgersene, le sue dita si erano strette attorno al manico di tasso. Vieni. Se non arrivi, li uccido. Magari, se lo avesse pensato abbastanza intensamente, avrebbe recepito il messaggio e sarebbe giunto ad impedirglielo – trovava difficile abituarsi al fatto che le loro anime e menti non fossero più connesse. Sarebbe arrivato facendo appello all’etica universale, alla morale spicciola o ai comandamenti di Albus Silente. Un guizzo divertito gli attraversò il volto, ma presto tornò a rabbuiarsi.
No, che sciocchezza. Mi direbbe solo che non sono cambiato affatto.
All’improvviso fu pervaso da un senso di stanchezza. Il viaggio si era rivelato inutile. Un infante piangeva in una culla, da qualche parte, lanciando un lamento stentoreo da creatura indifesa e abbandonata, fastidioso all’orecchio.
Inalò per un’ultima volta l’aria di Little Hangleton. Non c’era magia in quel luogo, solo il semplicismo ottuso delle menti Babbane e le costruzioni solide che erigevano per recintare le loro anguste esistenze. Però si respira la vita, pensò per un attimo. Perché sono qui?
“Non ha importanza”  mentì in risposta.
 
Certe cose richiedono tempo.
C’era voluto del tempo perché si abituasse a convivere con la tela bianca nascosta nel suo petto senza considerarla un’entità estranea e nociva. Gli dava ancora problemi. Ogni spigolo del mondo le causava un livido, ogni spina un graffio. Non importava quanto Tom mostrasse di ciò che provava: quella contro il dolore era una guerra che non poteva vincere.
C’era voluto del tempo perché smettesse di svegliarsi ogni notte con l’impressione di essere osservato da sguardi pallidi oppure con quella, peggiore, di udirsi ridere
(si toccava il torace in cerca del vuoto, sgranando gli occhi nell’oscurità e respirando in rantoli finché non ricordava che non c’era sangue sulle lenzuola, come poteva?, e che i suoi erano solo i ricordi di una vita passata, foglie morte, che ora si stava sforzando, ci stava provando, stava cercando di sopportarlo)
ma non l’aveva mai abbandonato del tutto.
Era lucidamente consapevole della propria identità, per quanto questo non lo aiutasse; oscillava tra momenti di puro rigetto in cui Tom Orvoloson Riddle si confondeva orribilmente con la parola nessuno e altri, in cui realizzava di poter distinguere sfumature di significato che prima gli erano oscure, di potersi prefiggere obiettivi di conoscenza più elevati di quando si limitava a farsi chiamare Lord Voldemort.
Eppure, tutto ciò che vedeva attraverso occhi nuovi gli causava un fondo di disgusto inalienabile – dai sorrisi, che non erano unicamente un modo per ingraziarsi la gente; al concetto di famiglia, che non comportava solo un’utilità sociale finalizzata alla procreazione; alla sensazione stessa di desiderio
(la pelle di Harry sotto le dita e il suo sguardo che lo chiamava – desiderio – la stretta delle sue braccia attorno alla vita e il suo respiro addosso – desiderio – i sussurri sconnessi delle sue labbra e la sua espressione quando la schiena gli s’inarcava nell’orgasmo; la dolce estenuazione dell’istante esattamente successivo, quando restavano intrecciati e sonnolenti e le sue palpebre si sollevavano e il verde era pieno di – amore)
che, oltre alla carne, Tom aveva capito coinvolgere l’intera anima. Disgusto perché, qualunque cosa studiasse dalla sua recente prospettiva, Voldemort lo contraddiceva, lo scherniva, finiva per fargli rimpiangere ciò che era stato
(potente e grandioso, impassibile, oltre i limiti dell’umano, una creatura di magia e ragione allo stato puro, amorale come un dio)
e che non sarebbe mai più tornato ad essere.
Aveva persino tentato di uccidere, così da frantumare ancora una volta la sua essenza e lasciarsi alle spalle tutti gli intralci che l’umanità implicava, e c’era andato tanto vicino da vedere la morte stessa negli occhi di un Babbano.
(La morte bianca e viola, rossa e cupa, occhi verdi spalancati e spalle che fremono, carezze di sangue, un uomo che supplica dio no ti prego no farò quello che vuoi e Marchi Neri nella notte in fiamme.)
Aveva scoperto però che l’umanità era forte in lui, più forte di quanto pensasse – o forse la paura, primitiva e irrazionale.
Non si trattava dell’unica cosa ad essere forte: lui stesso lo era. Pur sentendosi vulnerabile come non mai, la sua magia era in aumento, come se dentro di sé risiedesse una fonte inesauribile di potere ignorata per anni. Studiava nuovi incantesimi e cercava di estendere il suo campo del sapere al di là delle Arti Oscure, raccogliendo informazioni sulle religioni mistiche intrecciatesi alla magia nel corso dei secoli, sulle verità trasformate in superstizioni dai Babbani e su antichi manufatti persi nella leggenda – l’anello dei Nibelunghi, la fonte della giovinezza di Gilgamesh, il Sacro Graal e la spada di Artù...
(Poteva vedere Harry coi capelli illuminati dalla fiamma delle candele mentre sfogliava libri dalle pagine di pergamena sottilissima, gli occhi che scorrevano le righe e, sentendosi osservati, andavano ad incontrare i suoi, l’angolo della bocca arricciatosi in un mezzo sorriso – lo vedeva così chiaramente che sembrava reale, lì accanto a lui, talmente vicino da poterlo toccare.)
Sondare misteri era la sua specialità e, ovunque viaggiasse, lo occupava e lo sfiniva abbandonandolo giusto alle luci dell’alba, privo di forze e con la speranza di dormire senza interruzioni sino al risveglio. Giorno dopo giorno, scopriva davanti a sé universi di possibilità che governare un paese gli avrebbe impedito di percorrere. Se una parte di sé non smise mai di rimpiangere Lord Voldemort, l’altra era lieta di poterlo abbandonare nelle retrovie.
Però non dimenticava nulla. Anche nel sonno, soprattutto nel sonno, combatteva una guerra che non poteva vincere, che non poteva neppure perdere. Si trattava di un conflitto permanente, lo logorava dall’interno come un cancro nel tentativo di purificarlo.
Aveva impiegato del tempo ad abituarsi a gestire, comprendere le proprie emozioni, ma non riusciva a farlo con la naturalezza di chi vi nasceva assieme. Certe cose richiedono tempo e ancora esisteva molto con cui – o senza il quale – era incapace di vivere. Né un ferreo autocontrollo né un’abile dissimulazione  potevano impedirgli di bloccarsi di scatto di fronte ad un lampo d’occhi verdi.
Spesso era solo la sua immaginazione.
 

Sabato 21 novembre 1987, cimitero di Little Hangleton


Il camposanto riposava tra le brume dell’alba. Sulla lapide di Tom Riddle Senior era cresciuto uno strato di muschio il cui odore impregnava l’aria umida, e rade gocce di pioggia picchiettavano il mantello da viaggio in prossimità delle spalle.
“Sei una creatura ostinata” commentò Nagini rassegnata.
“Hai scelto tu di seguirmi.”
“Perché non sei debole; non nella maniera che temevo.”
Nel silenzio, risuonò un cupo rombo di tuono in grado di scuotere il ventre del cielo. Le nubi parevano entità dotate di vita propria; si muovevano in cerchio come streghe al Sabba, pronte a dare il meglio di sé scatenando tempesta.
“Non verrà” affermò, un sibilo diverso dal precedente, quasi dolce. “Non lo ha mai fatto.”
Tom si disse che l’aria, quella volta, sapeva di fango e decomposizione. C’era sempre qualcosa della morte nei temporali, un’avvisaglia crudele.
“È anche lui una creatura ostinata.”
La voce sfumò un poco sull’ultima parola. In fondo, pensava che Harry avesse ragione.
 

Domenica 17 luglio 1988, Godric’s Hollow

 
Non dovrei essere qui. È presto, troppo presto.
Un presentimento nebbioso accompagnato dal desiderio di avvicinarsi ancora. Lentamente, come se si trovasse lì per caso. Qualcosa lo spinse verso il cimitero, qualcosa che lo voleva lontano dalla casa e che lo portava a studiare l’incisione sottile sulla lapide candida come non aveva mai guardato la scritta su quella di suo padre. La trovò subito. Un cimitero enorme, e lui la trovò subito:
James Potter, nato il 27 marzo 1960, morto il 31 ottobre 1981.
Non dovrei essere qui.
Se lo sentiva nelle ossa e nel sangue, tuttavia il richiamo non poteva venire ignorato. Si lasciò alle spalle i morti e procedette invisibile sino alla casa. La ricordava. La magia cantava nelle sue vene, la percepiva infinita dentro di sé, eppure non gli permetteva di attraversare il vialetto. Anche se nessuno poteva vederlo, c’era un confine invalicabile che separava lui da chiunque si trovasse in quell’abitazione, un limite autoimposto, un’istanza assoluta.
La tua morale scricciola non è altro che codardia, mormorava Voldemort nella sua testa.
I pensieri erano frammentati e assillanti. Sapeva che non aveva cambiato dimora. Sapeva che era rimasto. Con la madre, quella donna. Con il suo Ordine. Lui. Oltre quella soglia, in quell’istante, addormentato o forse già sveglio. Ma Tom non poteva proseguire.
Sei davanti alla casa di un uomo che hai ucciso, sperando d’incontrare un amante che ti ha lasciato. Tutto ciò è patetico, Riddle.
E poi, rimanendo immobile, scorse la porta aprirsi di uno spiraglio e qualcuno fare capolino. Un bambino. Teneva in mano una scopa da adulto e si guardava attorno incerto e sospettoso: stava disubbidendo ad una regola. La cosa che lo fece indugiare su di lui furono i capelli, il colore della fiamma viva; poi Tom si sentì trapassare dal suo sguardo e interruppe di colpo il respiro.
La mente si paralizzò. Suo figlio, ha avuto un figlio – no, impossibile. Si tratta del figlio della Mudblood. L’ha avuto risposandosi. Forse. Una volta aveva detto che il più profondo desiderio di Harry doveva essere quello di sposare una donna dai capelli rossi. Harry corrispondeva alla sua idea di padre e marito. Ci aveva pensato in altre occasioni – lui che accudiva un neonato, che baciava le labbra protese di sua moglie…
Non dovrei essere qui.
Dal basso provenne un rumore soffocato.
Focalizzò lo sguardo al di là del cancelletto. Il ragazzino aveva continuato a fissare nella sua direzione e ora lo guardava a bocca semiaperta: riusciva a distinguerlo. Tom realizzò di aver sciolto l’incantesimo di Dissimulazione involontariamente – troppe emozioni insieme lo confondevano. Rimasero fermi entrambi, un cacciatore in tensione e la piccola preda colta sul fatto che non riesce ad evitare la sorpresa ed il timore.
Poi Tom si pose un dito sulle labbra, intimando il silenzio. Il ragazzino, che doveva avere sui sei anni, non pareva più tanto ansioso di varcare la soglia. Stringeva con forza il manico di scopa troppo lungo per lui e si appoggiava allo stipite, come se alla prima avvisaglia di pericolo avesse avuto intenzione di voltarsi e scappare in casa. Eppure non era tanto impaurito; più curioso. Era la curiosità verso quello sconosciuto ammantato di nero ad inchiodarlo lì.
“Chi sei?” chiese.
“Nessuno.” Si domandò come dovesse suonare la sua voce. La usava molto di rado.
Assunse un’espressione scettica, scuotendo il capo. “Impossibile.”
Tom ignorò il commento e non distolse l’attenzione da lui. “Qual è il tuo nome, bambino?”
“Eric.” Lo vide stringersi un po’ di più contro la porta. “Ma non ti seguo se anche me lo chiedi.”
“Non te lo chiederò” assicurò il mago in un sussurro.
Parve tranquillizzato, ma ciò non fece che incrementare i segnali d’interesse sul suo viso. “Stai facendo un viaggio? Non ti ho mai visto qui.”
“Io sono sempre in viaggio.”
“Oh!” esclamò meravigliato. “Anch’io da grande voglio viaggiare. Mio zio ha detto che poi mi porta in giro volando sulla moto.”
“Tuo zio?”
“Zio Tartufo.”
“Zio Tartufo” ripeté Tom atono.
“E anche zio Remus. E zio Harry.” Pronunciandolo, cercò di nascondersi la scopa dietro la schiena.
Riddle inspirò l’infantile senso di colpa assieme all’aria. “Quella è di… Harry?” domandò, sfilando la mano dalla veste per indicare l’oggetto. Una parte di lui desiderava toccare il legno e le fronde della coda, ravvisare tracce di lui in una scheggia fuori posto o in un rametto storto, l’altra aspirava alla pace polverosa dei suoi libri o agli antri d’oro e lapislazzuli delle Piramidi che aveva visitato.
Eric si morse il labbro, corrugando la fronte. Annuì una volta sola.
“L’hai sottratta senza il suo consenso.”
Il bambino continuò a guardarlo vacuamente.
“L’hai…presa senza che lui fosse d’accordo” riformulò.
Stavolta deglutì, ma non demorse: “Beh, mi ha dato il permesso di giocarci altre volte.”
“Non l’ha fatto.”
Eric sussultò per la forza con cui era stata pronunciata la frase. Tom si rese conto di dover risultare vagamente minaccioso così torvo e immobile, stagliato contro l’aurora di un giorno estivo. Eppure non era mai stata sua intenzione spaventare il fratellastro di Harry. Era solo un bambino, e non era per lui che si trovava lì. Una volta sono venuto qui per uccidere un bambino più piccolo di questo, rammentò ad un tratto. Non fu un bel pensiero.
“Intendevo dire” ritrattò Tom cercando di sembrare affabile, o almeno normale, “che tuo zio non può averti dato quel permesso. Se te l’avesse fornito, non usciresti all’alba per volare di nascosto.”
Stava per aggiungere che non sembrava un manico adatto alla sua età, ma si ricordò di quanto gli avesse dato fastidio, da giovane, sentirsi ripetere ciò che era adatto o meno a lui. I ragazzini trasgrediscono le proibizioni per natura e si credono immortali. Sempre.
“Hai mai volato da solo prima d’ora? La verità.”
Eric fece una smorfia strana e si dondolò sui piedi. “Io…”
“Non hai mai volato prima e vuoi provare proprio quando nessuno può vederti?” Pensò vagamente al mito di Icaro e proseguì: “Conoscevo ragazzini che persero il controllo della scopa. Arrivando molto in alto, i manici presero fuoco a contatto col sole e i loro polmoni collassarono – significa che, in mancanza d’ossigeno, rattrappirono all’improvviso, accartocciandosi come fogli di pergamena.” Mimò il gesto chiudendo la mano a pugno.
Il bambino spalancò gli occhi, premendosi un palmo all’altezza dei polmoni, forse immaginando che potessero accartocciarsi da un momento all’altro.
“Desideri ancora volare senza supervisione?”
Eric scosse il capo, facendo ondeggiare i riccioli fulvi. Poi sgranò gli occhi ancora di più, e quasi la scopa non gli cadde nella fretta d’indicare qualcosa che pareva trovarsi ai piedi di Tom.
“Lo posso mangiare?” provenne il sibilo anelante di Nagini, che l’aveva seguito con comodo e ora gli si stava avvolgendo attorno alle spalle, le pupille fisse al possibile spuntino.
“Non è cibo, mia cara.” Riddle le permise comunque di farsi spazio sulla propria schiena.
Mentre il rettile dava in un suono amareggiato, Eric esclamò: “Ma è un serpente enorme!”
“Abbassa la voce, bambino.” Un’occhiata alla casa mise a tacere le sue preoccupazioni. “Si tratta di una ‘lei’, ed è Nagini della famiglia dei Naga, non un serpente qualsiasi.”
“È ignorante” valutò la diretta interessata. “Non sarebbe una gran perdita per la sua specie se lo divorassi.”
“Smettila, Nagini” intimò Tom bruscamente.
Il rettile emise uno schiocco di disapprovazione, ma non insistette.
“Posso accarezzarla?” Eric aveva compiuto qualche passo nella loro direzione tra l’eccitazione e il timore; ora a separarli vi era solo il cancelletto. Tendeva la sinistra come se si trattasse di dare due buffetti ad un cucciolo di labrador.
Gli occhi di Nagini sembravano due schegge d’ambra. “Arrischiati, piccolo mago…”
“Meglio di no” gli rispose Tom. “Non è un animale domestico.”
“Tu però ce l’hai in braccio” replicò il ragazzino ragionevole.
“Io la conosco da tempo e so parlare la sua lingua. È la mia compagna di viaggio.”
“Oh! Che poteri ha? Mangia gli altri animali?”
“Il suo veleno è letale, agisce in pochi secondi. Intrappola le prede nelle sue spire prima di…”
In quel preciso momento, la serpe mostrò le zanne affilate in tutto il loro letale splendore, dunque le serrò di scatto.
“Wow” esalò Eric colpito, come se girare il mondo in compagnia di giganteschi Naga velenosi fosse il suo ideale di vita perfetta.
Tom annuì, chiedendosi perché si stesse intrattenendo con un seienne. Poi, d’impulso: “Come stanno i tuoi…famigliari?”
“Mamma sta bene. E anche gli zii e i nonni.” Di nuovo quella scintilla di curiosità nel verde. “Perché, li conosci?”
Non ha parlato del padre. Fu allora che comprese chi fosse effettivamente quel bambino. Il fratello di Harry, non il fratellastro. Il figlio di James Potter. Rabbrividì e, per la prima volta, distolse lo sguardo dal suo, indietreggiando. Non dovrei essere qui non dovrei essere qui non dovrei ess— Sentiva di star perdendo il controllo, doveva allontanarsi prima che… “No.”
“Sai che è maleducazione andarsene senza salutare?” lo fermò Eric Potter con tono piccato, vedendolo voltarsi così all’improvviso.
Tom s’irrigidì, sforzandosi di controllare il respiro – non adesso, maledizione – e si volse a mezzobusto, incontrando gli occhi del bambino come se potesse scottarsi. Somigliava a Harry con quell’espressione di vaga accusa per il mancato saluto; gli somigliava anche nella forma del labbro superiore, degli zigomi.
“Mi dispiace” gli disse piano. La voce vibrò appena, assumendo profondità. Rilasciò il fiato con cautela. Era sincero. Eric Potter non poteva capire, ma lui era sincero.
Quale patetico guscio d’uomo sei diventato, Tom Orvoloson…
S’incamminò da dov’era venuto, di nuovo invisibile al mondo e turbato nell’intimo. Un altro taglio sulla sua tela.

*


Nel giardino investito dal sole risuonò una risata simile ad un latrato.
“L’hai mancata di nuovo!”
“Sei tu che lanci a caso” rimbeccò Harry con un grugnito mentre correva a riprendere la Pluffa per la quinta volta in un’ora. Quand’era annoiato, Padfoot aveva l’abitudine di divertirsi in modalità tutte una più ridicola dell’altra, compresa fare il buffone mentre giocava a palla con Eric. Se c’era di mezzo il bambino, poi, ridiventava un po’ bambino anche lui. “Mira al mio petto, non agli alberi.”
Sirius lo ignorò, stampandosi un ghigno sul volto abbronzato. “La vecchiaia, uh? Il colpo della strega. Non è così che dicono i Babbani?”
“Zio Harry non è vecchio!” intervenne con foga una voce infantile. Chi aveva parlato possedeva una fiammata di capelli rossi marca Evans, gote ardenti per la corsa e pantaloni sporchi d’erba in prossimità delle ginocchia; sul viso paffuto, gli occhi verdi erano spalancati in un’espressione decisamente contrariata.
Harry ridacchiò e gli spedì la Pluffa, che quello afferrò tutto contento. “Ho un Magiavvocato difensore.”
Sirius scosse la testa. “Dipende che cosa intende Eric per ‘vecchio’. Chi è che secondo te è vecchio?”
“Uno con la barba lunga.” Eric si prese il mento tra pollice e indice e indicò il terreno, simulando una rigogliosa lanugine silentiana. “Continuiamo a giocare?”
“Ecco, vedi?” commentò Harry dignitosamente. “Non sono vecchio. Sei tu che lanci di me—malissimo.”
Eric si esaltò come se avesse visto un drago sputare fuoco davanti a casa. “Stavi per dire ‘cacca’!”
Il presunto zio si guardò intorno in cerca di una chioma di capelli rossi ben diversa da quella del piccolo. “Aehm. Sarà meglio che tua madre non ti senta.”
“Ops!” Eric sembrò trovarlo molto divertente, perché iniziò a spanciarsi dal ridere.
Harry ne fu un po’ contagiato e rimase a fissarlo per qualche secondo, poi si riscosse. “Continuate voi un attimo mentre vado a bermi un succo di zucca?”
“Ma dovevamo fare i goal tutti e tre insieme!”
“Dopo li facciamo.”
“No no, anzi.” Il ragazzino fu preso da un’idea fulminea e s’impettì, assumendo un’arietta scaltra. “Allora facciamo che mi porti a fare un giro sulla scopa. Tu ed io. Però non andiamo troppo in alto…”
“Furbacchione” sogghignò Harry, avvicinandosi con una falcata e scompigliandogli la zazzera.
“…perché sennò i polmoni si…” Corrugò la fronte nello sforzo di ricordare “…appallottolano.”
“E questa chi te l’ha detta?” Sirius faceva rimbalzare la Pluffa sul prato con aria indolente.
“Il mago alto. Il sole brucia le scope e se vai troppo su i polmoni si appallottolano come pezzi di carta.”
Padfoot e Harry si scambiarono un sorriso: Eric possedeva una fervida fantasia.
“Il mago alto sarebbe un esperto di volo?” chiese Harry partecipe.
“No. Gira il mondo insieme a un serpente enorme, con dei denti lunghissimi. Velenoso. Una serpentessa, anzi” raccontò il piccolo con entusiasmo. “Assomiglia un po’ a un vampiro – il mago, non il serpente – però stava al sole quando l’ho incontrato. Tu l’hai mai visto un vampiro, zio Sirius?”
“Come no. Io con una vampira mi ci sono anche fidanzato.”
“Non è vero.”
“Sì che è vero. Puoi uscirci solo di notte e devi stare attento a non mangiare aglio, ma tutto sommato non sono male finché non tentano di prosciugarti. Quando andrai a Hogwarts vedrai, ce n’è uno. Insegna Pozioni e vive in un gelido loculo nelle viscere del castello…se sbagli all’esame, diventi il suo pasto…”
“Non è vero” ripeté Eric dimentico della Pluffa, avvicinandosi a Harry. “È vero?” gli bisbigliò ansioso.
“No” lo rassicurò l’uomo. “Lo conosco anch’io, e non è un vampiro. Ma dimmi…” Esitò. “Quel mago alto, dove l’hai conosciuto?”
“Stamattina era davanti a casa nostra con la sua serpentessa. Lei è la sua compagna di viaggio. Volevo accarezzarla, ma ha detto di no.” Gli lanciò un’occhiata piena d’aspettativa. “Mi credi?”
Harry continuò a guardarlo avvertendo una sensazione singolare crescergli nello stomaco. Inquietudine. Il suo fratellino inventava spesso storie riguardo a mirabolanti incontri con chimere, Giganti e unicorni, oppure si divertiva a narrare dei suoi giochi con Neville Longbottom e Ron Weasley, il figlio di Arthur e Molly, i quali spesso comprendevano trotterellare dietro a quegli uragani dei gemelli che, con la scusa del baby-sitting ai più piccoli, potevano utilizzarli come cavie da laboratorio o come complici da incolpare in caso di necessità. Lily era abituata a vedersi comparire davanti due bambini dalle chiome rossicce con qualche antenna che spuntava dalla fronte o due denti in meno nell’ampio sorriso. Eppure, quello in particolare non somigliava ad un parto della fantasia: di sconosciuti pallidi con serpenti giganti al seguito che avrebbero potuto sostare davanti a casa Potter, Harry ne conosceva realmente uno.
“Sì che ti credo. Ti credo…”
Passò un’altra volta la mano tra i capelli di Eric, gli occhi velati e distratti. E che cosa me ne faccio di quest’informazione, adesso?
 

Lunedì 18 luglio 1988, Little Hangleton

 
Quel luogo gli metteva i brividi. Solo osservando la vecchia villa sentiva la fronte scottare e una vampata di dolore risalire dal fianco al petto, incastrandogli un gemito in gola. Ma era l’unico posto che gli venisse in mente in cui Tom potesse risiedere.
È tornato. L’idea continuava ad incutergli soprattutto sorpresa. Nel corso degli anni aveva pensato a Tom, qualche volta – meno del previsto, e sempre con una sorta di soffusa speranza che trovasse un suo posto nel mondo senza dover immergere le braccia nel sangue sino ai gomiti. Eppure non aveva mai avvertito il reale, lancinante desiderio di rivederlo. Non aveva sprecato molti pensieri verso quel ‘giorno’ ipotetico in cui sarebbe tornato. Harry aveva vissuto; non che si fosse dimenticato di Tom, ma aveva ricostruito così tanto da essersi lasciato alle spalle il resto. Esisteva una linea netta tra il caos e le mille contraddizioni del prima con Tom e la pace assolata del dopo senza di lui. Certo vi erano stati incomprensioni e litigi, momenti duri e periodi poco rosei anche nel dopo, ma a paragone di una guerra…
“È tornato” sussurrò, cercando d’infondere nelle parole il calore della trepidazione – ma era stato proprio lui a lasciarlo, e la voce uscì venata di sola amarezza.
 
Il villaggio era piccolo, uno di quei luoghi in cui, camminando, si viene additati a vista come forestieri. Non c’era molto, a parte L’Impiccato e pochi negozi di alimentari lungo la via principale. Si arrese ad addentrarsi nel camposanto, da cui si aveva una vista panoramica sia del gruppo di casette nella valle sia della dimora dei Riddle sulla collina.
Girovagò tra le lapidi fino a trovare quella che cercava ed emise un sospiro profondo. Tom Riddle non era stato un uomo fortunato in amore… Scrostò il muschio e lesse l’incisione, le date di nascita e morte. Aveva proprio l’aria di una tomba signorile, abbracciata com’era da un angelo, i lineamenti delicati e i capelli scolpiti in onde dall’apparenza morbida, gli occhi privi di pupilla che lo guardavano senza vedere. Mostrava un sorriso appena abbozzato, dolce e distante.
“Sei qui.”
Tom si trovava alle sue spalle. Lo scrutava col viso lievemente inclinato di lato, come se si stesse ponendo domande che Harry non poteva intuire. Era vestito semplicemente – niente più velluti e broccati pesanti dei suoi anni di gloria – e le mani sembravano stranamente vuote senza bacchetta.
“Tom.” Fu sollevato nel constatare che il suo tono era normale e privo di note cupe. Forse perché quel mago, che non era mai stato intaccato dai segni esteriori dell’età, era invecchiato. Notando le rughe agli angoli degli occhi e il fil di ferro predominare tra i capelli ancora folti, un’eco dell’affetto che aveva provato per lui riemerse. “Scrivere una lettera per avvisarmi non è nel tuo stile, immagino” scherzò. Non sapeva bene come iniziare, ma parlare, in sé, gli riusciva spontaneo.
Lui raddrizzò il capo e camminò sino al suo fianco. L’espressione che indossava, autentica o meno che fosse, risultava imperscrutabile. Percepì la sua magia, un flusso di potere compatto e continuo che associò istintivamente ad un cerchio senza fine. “Sei venuto” ripeté, un’emozione indefinibile a velargli la voce.
“Anche tu. Ieri mattina, davanti a casa di Eric – sai, il bambino. Me l’ha detto lui.” Riprese fiato, incerto se porgli la domanda. “Tu non avevi…cattive intenzioni.”
Corrugò la fronte e Harry avvertì la sua incomprensione, forse addirittura qualcosa di simile alla delusione. “No. Non ero lì per lui.” Non parve a disagio per la rivelazione, ma esprimersi sembrava riuscirgli difficile almeno quanto a Harry risultava naturale. Prima di pronunciare ogni frase rifletteva intensamente. “È un ragazzino sveglio” commentò infine, lasciandosi increspare le labbra da un mezzo sorriso.
“Oh, sì!” esclamò l’altro cogliendo quel segnale incoraggiante. “Va in giro tutto il giorno per Ottery St. Catchpole e dintorni, sua madre dice che cresce come un piccolo selvaggio e Sirius di certo non aiuta… Ma quando sta fermo sufficientemente a lungo da permettergli di ascoltare qualcosa se la ricorda subito, ha una gran memoria, ha imparato a leggere prima del previsto… E poi tutti i figli di Molly sono più grandi di lui, se lo portano dietro ovunque. Tra qualche anno sarà in età da Quidditch e io non mi sento tanto vecchio da rinunciare a prendermi qualche Bolide in testa, gli insegnerò le basi. Per ora gli ho regalato una scopa giocattolo, ma fa il filo alla mia. E credo che tu ne sappia qualcosa, a proposito.”
Tom lo stava osservando. “Devo averlo spaventato.”
“Eric? No, non si spaventa, continuava a parlare di…” …di te. Ma era una cosa terribilmente sbagliata da dire, rifletté. Notò l’ombra sul volto di Tom e decise che fosse meglio cambiare discorso. Aveva l’impressione di star fallendo ad approcciarsi. “E tu? Dove sei stato?”
“Ti somiglia” proseguì lui senza neppure udirlo. Continuava a guardarlo con un’insistenza che lo metteva quasi in imbarazzo. “Ha i tuoi tratti. E i tuoi occhi.”
Harry ricambiò lo sguardo. “Somiglia ai suoi genitori, non a me.”
Finalmente Riddle tornò a fissare l’attenzione davanti a sé. Aveva dimenticato quanto potesse irrigidirsi quand’era agitato. Seguì una pausa significativa durante la quale Harry ragionò febbrilmente su cosa dire che non riguardasse i propri occhi o il reale motivo per cui fosse tornato, ma Tom gli risparmiò il compito: “Dunque non abiti con lei. Con loro.”
“Con Lily?” Harry respirò sollevato. “No, ho un appartamento mio. E un lavoro – al Ministero. I Potter sono una famiglia notoriamente benestante, possediamo un buon conto alla Gringott… Sirius vive dell’eredità di suo zio in una qualche villa di campagna che ha rimodernato insieme a Remus. Remus è un ottimo mago, sì, ma ha dei problemi con…beh, ha qualche difficoltà ad inserirsi in società. Comunque ecco, la prossima volta evita di venire proprio a Godric’s Hollow. Non perché creda che tu adesso… È per Lily. Non capirebbe.” Gli lanciò un’occhiata di sfuggita. La sua reticenza lo metteva a dura prova.
“Non so con esattezza che cosa mi abbia condotto lì” mormorò in spiegazione. “Quella era…una prova, credo.”
“Una prova?”
“Per sondare sin dove potessi spingermi. Quando conosco i miei limiti è inevitabile che tenti di superarli.”
“In questi anni hai superato molti limiti?” Non era sicuro di cosa aspettarsi da quella domanda.
“Alcuni” rispose sfuggente. Incurvò un angolo della bocca verso l’alto. “Niente di troppo contrario alla legge naturale delle cose.”
Harry stava per chiedere chiarimenti a riguardo, ma Tom lo interruppe impaziente: “Non parliamo di me. Prosegui tu.”
“Davvero ti…?” Incerto, dismise il tono scettico. “T’interessa?”
Assentì con un cenno rapido del capo. Che richiesta strana, rifletté vagamente prima di aprirsi in uno spiraglio di sorriso. “Ok.” Si schiarì la voce e cominciò: “Non so se hai idea del polverone che hai suscitato sparendo nell’Ottantuno, ma i giornali recitavano le solite fesserie e io ero l’unico a sapere davvero che cosa fosse accaduto…io e Silente eravamo gli unici, anzi. Di ciò che ti è successo non è mai stato rivelato nulla, nessuno si è lamentato e io non sono neppure finito in una lista degli accusati. Contatti utili, sai. Eric è nato a luglio dell’Ottantadue e…”
Tom chiuse gli occhi. Però lo stava ascoltando.
 

Tra il luglio e l’ottobre del 1988


Presero l’abitudine d’incontrarsi nello stesso luogo, circa tre volte a settimana, solitamente durante le pause pranzo di Harry o dopo il suo orario di lavoro. Nagini li raggiungeva sistemandosi accanto a Tom e lanciando in direzione dell’altro sibili infastiditi che lui non poteva più capire. A pensarci, era surreale vedersi con Lord Voldemort all’ombra dei cipressi di un cimitero Babbano e raccontargli delle discussioni con Sirius – piuttosto frequenti perché avevano caratteri terribilmente diversi –, dei giochi con Eric o di quei marchingegni assurdi con cui Arthur Weasley smanettava. Gli parlava anche delle ultime novità del paese, su cui Tom sembrava molto poco informato, come se avesse vissuto in una bolla d’aria sospesa nel cielo per sei anni, oppure gli spiegava le nuove leggi sulle Giratempo – “C’è una scappatoia per cui adesso anche i ragazzini possono usarle, è davvero assurdo!” – e ridacchiava su quanto dispendiosi fossero diventati i membri della Squadra Speciale quando non erano neppure in grado di praticare Incantesimi Scudo da studentello.
“Non è che vuoi sederti in casa?” chiedeva a volte, avvertendo il sole bruciare sul volto e la scomodità del terreno duro.
“Sarebbe una contraddizione quando m’impegno per entrarvi il meno possibile” replicava Tom con un’occhiata truce alla facciata della dimora.
Oppure Harry s’informava, pronto a cambiare discorso: “Ti sto annoiando con le mie ciance?” In realtà, iniziava ad essere curioso riguardo la vita di Tom senza di lui, su dove fosse stato… Forse doveva preoccuparsi?
Ma il mago si limitava a scuotere il capo. “Va’ avanti.”
Allora Harry continuava mentre Tom reclinava il capo appoggiandolo al tronco dell’albero, abbassando le palpebre. A volte Harry credeva si fosse addormentato ma, ad un aneddoto, scorgeva un guizzo delle labbra o una smorfia irritata. Altre lo guardava. L’attenzione che Tom Riddle dimostrava nel fissare lo stesso soggetto per ore senza stancarsi era ammirevole, inquietante e imbarazzante allo stesso tempo; Harry preferiva alzarsi e passeggiare per farsi scivolare i suoi occhi di dosso. Il desiderio di scoprire qualcosa di Tom stava diventando tanto morboso quanto più lui si chiudeva nel suo silenzio. Cercava di metterlo al muro con quesiti a trabocchetto o allusioni in riferimento ai ‘numerosi viaggi che doveva aver compiuto’ e alle ‘nuove scoperte’, ma non otteneva che frasi criptiche e sospiri stanchi.
Una volta Tom glielo confessò dopo una lunga pausa di meditazione: “Sono sfinito.” Per contrasto, le ombre bluastre sotto gli occhi scuri rendevano la sua pelle ancora più pallida e opaca.
In quei momenti assumeva un’espressione talmente triste che era difficile insistere. Mentre Harry parlava, Tom sembrava rilassarsi, dimenticando l’agitazione sotterranea da cui era dominato. Il suo respiro diveniva lento e profondo, come se riposasse realmente solo lì sotto il cipresso anziché la notte.
Harry non era sicuro di riconoscerlo. Apparentemente era la stessa persona, alcuni modi di fare e di reagire, ma c’era qualcosa d’enigmatico in lui, qualcosa che non gli aveva mai visto. Non la fiamma dell’ossessione per il potere che l’aveva bruciato in passato, ma un peso… Di che portata, poteva solo immaginarlo.
 

Giovedì 10 novembre 1988


Infine iniziò ad aprirsi spontaneamente. Una reazione ritardata: forse aveva avuto solo bisogno di tempo. Alla domanda se avesse cercato di rendersi immortale, spiegò:
“Per mesi fui sulle tracce di Flamel. Volevo la sua Pietra, studiarne il funzionamento e capire come l’avesse creata. Ho sempre subito il fascino dei processi alchemici, così dissimili dalla preparazione di pozioni, tuttavia disprezzavo che un mago potesse bramare di raggiungere i suoi obiettivi affidandosi ad un oggetto, e non alle sue sole forze; quanto all’utilizzo della Pietra unicamente per produrre ricchezze, temo rappresenti un esempio manifesto dell’involuzione della specie… L’Elisir m’interessava sino ad un certo punto: desideravo capire come la vita potesse essere prolungata a dismisura, e se l’eternità non intaccasse il fisico, rendendolo sempre più vecchio e spossato. Quando conobbi Nicolas Flamel, mi parve un anziano fragile dalla mente sveglia, e i miei peggiori timori si concretizzarono: un cervello funzionante intrappolato in un involucro debole… Non era questo cui aspiravo. Certo lui sopportava con pazienza i suoi reumatismi da cariatide, ma il solo pensiero di divenire così mi incuteva una sensazione di…oppressione. Diventare pura volontà senza il potere di realizzarla era quanto di più orrendo potesse esistere, pensavo.”
Camminando tra le tombe, l’aria novembrina scompigliava loro i capelli. Harry ascoltava con sincero trasporto la voce lenta, il tono basso con cui l’uomo parlava. “Pensavi?” ripeté. “Ora non lo credi più?”
“Credo…” Esitò prima di proseguire: “Credo che esistano delle fasi. Che ogni fase corrisponda ad una prova e che, superandola, si possa raggiungere un livello di conoscenza più elevata di se stessi, di conseguenza della propria magia. Ragionando così, se la…vecchiaia, il decadimento fisico del mago fosse una fase, significherebbe che dovrei imparare a convivervi per procedere oltre. Dal momento in cui lo intuii, persi interesse nei confronti dell’immortalità intesa come ricerca effettiva, materiale…”
“Adesso credi nella vita dopo la morte o nell’anima che vaga da un corpo all’altro?”
“Ho scelto di non soffermarmi sulle teorie teologiche conosciute: ciò che sarà della mia anima dopo ha poco a che fare con l’adesso. Penso che l’immortalità sia immanente, che sia dentro di noi e non trascenda il corpo.”
Tom s’immobilizzò davanti a lui, guardandolo negli occhi, come in attesa che Harry assorbisse il significato delle sue parole. Harry ricambiò, riflettendo ad alta voce: “Stai dicendo che l’immortalità corrisponde ad un rafforzamento del sé? Quindi maggiore è il potere di un mago, più la sua vita si allunga? Ed è per questo che i maghi vivono più dei Babbani e invecchiano dopo?”
“Esatto” confermò Tom fervente.
“Ma nessuno è mai vissuto per l’eternità, anche maghi molto potenti prima o poi…” protestò in risposta.
“Ricordi quando io e Silente unimmo le forze per la tua ferita? Lui pareva convinto che solo con un’anima integra io sarei riuscito a farcela. Se tu ti fossi svegliato, ecco, quella era la prova definitiva che gli Horcrux si erano ricongiunti.” Si passò la punta della lingua sulle labbra, uno scintillio animato nello sguardo. “Ciò significa che con un’anima divisa non avrei potuto ottenere l’immortalità vera e propria, ma solo una sua imitazione che a lungo andare mi avrebbe indebolito, uccidendo le mie facoltà mentali. L’anima divisa rende instabili, folli – allora non lo capivo appieno. Ma Silente non mi fornì solo quest’indizio: oh no, perché, com’è vero che un’anima unita è più forte, è anche vero che le tecniche della guarigione possono salvare e prolungare la vita e…io credo sia una delle più alte forme di stregoneria esistenti, Harry, l’unica che possa aiutarmi a fortificare la mia magia e a raggiungere il mio scopo. Non le pratiche negromantiche né le Arti Oscure erano la risposta a ciò che cercavo… Ho studiato le arti dei Guaritori, ho studiato non come dare la vita a partire dalla morte, ma come salvare la vita. Io avverto che il mio potere aumenta, percepisco…non un potere che mi appesantisce, ma una magia che mi eleva.” Fece una pausa e sorrise, traendo un respiro profondo. “Dammi la mano, qui. Che cosa senti?”
Harry chiuse gli occhi, le dita intrecciate alle sue. “La tua energia. È come un cerchio… Mi ricorda un serpente che si mangia la coda.”
“L’uroboro” disse Tom. “È l’eterno ritorno. Una volta compreso che il destino va abbracciato per com’è e non per come si vuole che sia, ecco che l’uomo ne diventa padrone. Accetterò il decadimento del mio fisico. Forse giungerò ad accettare la morte, e proprio in virtù di questo potrò superarla. Quindi è quasi fatta, Harry. Ce l’ho quasi fatta.”
La voce si spense, flebile. Chinò il capo e Harry avvertì che qualcosa non andava. “Perché mi stai dicendo questo?” domandò piano. “Tu non…non pensi di avercela fatta davvero.”
“Per quanto io mi sforzi, per quanto provi… Avere un’anima mi risulta comunque deleterio. La mia magia aumenta, la mia salute è eccellente, ma non riesco a dormire.” Parlò con rabbia trattenuta, e l’ultima frase fu sputata con un astio che nei loro incontri non gli aveva mai udito. “Tutto quello che faccio non cambia la situazione… Ho guarito donne dal vaiolo, ho sanato i loro figli nati storpi… Quello che ho visto in Asia e in Africa, tra le favelas, tu non hai idea di quello che… Babbani! Che cosa devo fare per pagare un debito di vita più che salvare la razza che avevo tentato di sterminare?”
“Tom” lo interruppe Harry con voce ferma, placandolo. “Non è il metodo giusto, tu… Tu lo fai per te stesso, non per loro. Se lo facessi per loro, sono sicuro che tutto questo tuo…senso di colpa…verrebbe meno. Non completamente, ma forse potresti avere qualche attimo di—pace.”
Strinse le mani sulle sue spalle. Gli occhi di Tom si svuotarono per colmarsi di comprensione nell’istante successivo. Digrignò i denti in un modo che faceva presumere uno scoppio di rabbia istantaneo, ma rilasciò il respiro ed emise una risata fiacca. “È sempre lo stesso discorso, vero? Sempre il mio vecchio errore…” Levò una mano a sfiorargli i capelli come faceva tanti anni prima, un gesto trasognato e leggero. Quasi non lo toccò nemmeno.
Harry era abbastanza vissuto per credere di non poter rabbrividire al suo contatto. Si sbagliava. Bruciava dal desiderio di sorreggerlo, di baciarlo – aiutarlo…
“Potrei fare qualcosa solo per te” affermò Tom. Avrebbero potuto essere parole dolci, ma suonavano molto più come un’onesta constatazione, un’ammissione di sconfitta. “Ma forse è perché ti considero parte di me, quindi non conta. Sarebbe come se facessi qualcosa per me stesso in ogni caso…”
“Sono sicuro che non è così.” Harry gli prese il viso tra le mani, inclinandolo verso di sé. Le fronte di lui si appoggiò contro la sua. Il silenzio colmò la distanza tra loro. Li avvicinava nonostante le differenze.
“Ti ho scritto delle lettere” bisbigliò Tom dopo molto tempo.
Gli accarezzò una guancia. “Dove sono?” gli chiese, adattando la voce ad un sussurro.
Il nero dell’iride avvampò e si spense. “Le ho bruciate.”
Harry pensò che, spostandosi appena, avrebbe potuto baciarlo. “Di cosa parlavano?”
“Assurdità.”
Sospirò. Credeva di aver fatto progressi in quei mesi, ma a quanto pareva erano tornati ai monosillabi.
“Tu non mi hai scritto” soggiunse Tom nello stesso tono basso, intimo. Non era una domanda: lo sapeva e basta.
L’incanto si ruppe. Harry distolse lo sguardo dal suo. Aveva spesso l’impressione di una distanza esistente tra sé e Tom, come se le loro emozioni non si trovassero sulla stessa lunghezza d’onda. Provava e riprovava, ma non riusciva a sintonizzarsi con lui. Anche quella volta non vi era riuscito.
“Hai più potere di me.” Questo giunse quasi inudibile. Tom gli aveva cinto i fianchi. Una brace accesa crepitava ancora nel suo sguardo, antica. Harry sentiva la pressione delle sue dita, sentiva la sua fronte scottare e l’intensità delle sue pupille fisse. Tutte quelle sensazioni lo risucchiavano in un vortice di altri tempi – ma non voleva finirvi dentro, voleva riemergere. “Con te avrei capito prima il mio errore, sarebbe andata diversamente… Hai compiuto la magia dell’anima quando io ero ancora uno sciocco dilettante… E sono certo che sarei riuscito a riposare…almeno qualche volta.”
Harry rimase immobile. Tom separò la distanza tra loro in un movimento lento ma deciso, coprendo le sue labbra e succhiandole delicatamente. La lingua si aprì un varco e si avvolse alla sua, dapprima piano, poi con esigenza. Le dita gli strinsero i capelli e dall’uomo si liberò un respiro vibrante. C’era qualcosa di liberatorio in quel bacio. Come se Tom avesse atteso mesi – anni.
Il pensiero si fissò nel suo cervello simile ad un allarme. Gli impediva di rispondere ai suoi gesti, gli impediva di muoversi. Si sentiva rigido, non era coinvolto, c’era qualcosa di profondamente sbagliato, estraneo… Solo qualche attimo prima avrebbe voluto abbracciarlo, solo qualche momento prima forse lo avrebbe ricambiato.
Gli si sottrasse sfuggendo alla stretta, premendo una mano sul suo petto per allontanarlo. Scosse il capo senza riuscire a parlare. Per dire cosa? La bocca di Tom era dischiusa; gradualmente si serrò e si allungò in un sorriso. Una specie.
“Ti conviene andare.” Il suggerimento arrivò serico, appena tremante. Freddo.
“Cosa?”
“Vattene.”
Avvertì il pericolo. L’allarme nella sua mente si ingigantiva ogni momento di più, eppure una voce continuava a protestare nel suo intimo. Non ti farà del male, ha un’anima adesso! Ma il tono di Tom era secco, brusco e non ammetteva repliche. L’aria attorno a loro crepitò d’elettricità. Il vento parve condensarsi, imbottigliato nella staticità dell’attimo. E gli occhi, i suoi occhi…
Voldemort.
Fu il suo ultimo pensiero prima di Smaterializzarsi per evitare l’esplosione.

*


“Signore! Signore, sta bene?”
Tom aprì gli occhi di scatto e si rivoltò sul terreno sputando sangue. Un Babbano che reggeva in mano un paio di grosse chiavi gli toccò la schiena, cercando forse di aiutarlo ad alzarsi. Lo scacciò istintivamente.
“Signore, come…?”
Non lo ascoltava. Si rialzò vacillando e mise a fuoco la zona. Il cimitero era ammantato dalle ombre del crepuscolo, ma non fu quello a farlo quasi ricadere a terra. L’erba al suolo era bruciata, zolle di terra nera erano state rivoltate per oltre un chilometro a macchia d’olio. Del cipresso restava un moncone carbonizzato, mentre le lapidi erano spaccate, ridotte a macerie.
“Sto bene” scattò all’ennesima domanda su come si sentisse.
“Ma dovrebbe andare all’ospedale! Ci sono stati dei fulmini nel pomeriggio, completamente a ciel sereno… Che roba! Hanno colpito questo punto, ma prima che arrivassero i pompieri l’incendio si era già spento da sé… Lei era qua in fondo, prima siamo venuti a guardare con i volontari ma non sembravano proprio esserci feriti… Se mi permette di acc--”
“No. Vattene.”
“Ma--”
“TACI!”
L’uomo lo guardò con tanto d’occhi. Tom non gli badò, preferendo barcollare verso l’uscita sulle sue gambe. Respirava pesantemente. Hai perso il controllo. Sapevi che prima o poi sarebbe successo. L’hai quasi ucciso. Serrò le palpebre e deglutì più volte. Doveva smettere di tremare. Smettere di avere paura, smettere di arrabbiarsi, smettere di…
Gli parve di vedere una sagoma tremante accasciarsi sull’acciottolato di casa con un gemito. Si teneva la testa con le mani – le unghie graffiavano la cute. Dalla sua posizione sopraelevata non riusciva a scorgerne il viso, ma certamente udiva i singhiozzi. Non era l’uomo a strapparseli dalla gola, erano loro ad emergere nonostante l’evidente sforzo d’inghiottirli e reprimerli nel petto. Uscivano e basta, squarciandolo dall’interno.
Ringrazio di non essere una creatura tanto patetica.
Solo in un secondo momento realizzò che si trattava di sé.
 

Sabato 26 novembre 1988, Godric’s Hollow


Harry ripensò a lungo a ciò che era successo. Da qualunque lato la vedesse, non riusciva a capire davvero. Ricordava il modo in cui Tom era sembrato tranquillo durante i loro incontri; spossato e triste, talvolta, ma sereno, molto più di quanto ricordasse. Anni prima rammentava i suoi attimi di furia nervosa, come se avesse una bestia in corpo che tentasse di fuggire, oppure la sua impassibilità granitica, come se nulla potesse tangerlo dall’alto della torre d’avorio che si era costruito.
Ma un’anima, un’anima cambiava tutto. Non riusciva a credere che si fosse infuriato solo per il suo rifiuto. Non era la stessa persona di prima. Oppure sì? Che quella mostratagli in quei mesi fosse l’ennesima maschera? Aveva creduto che Lord Voldemort fosse morto molto tempo fa, ma se non lo era...
“Zio?” lo chiamò Eric dopo cena. “Il papà di Ron ci fa vedere il veletisore. Posso andare?”
“Tua mamma lo sa?” fece Harry connettendo, senza avere idea di che cosa fosse un veletisore.
“Sta parlando con Alice e non mi ascolta, così chiedo a te.”
“Ok, vai a guardare quel robo. Sempre che non sia pericoloso” aggiunse, pensando che Arthur non avrebbe fatto giocare i bambini con qualcosa che avesse potuto attirargli le ire della moglie. “Senti, posso farti una domanda seria?”
“Una domanda da grandi?” Gli occhi di Eric s’illuminarono.
“Una domanda sul mago alto che hai visto qui davanti.” Quando il bambino annuì, chiese: “Ti è sembrato cattivo?”
Eric apparve dubbioso. “Mi ha spiegato quella cosa del sole e non mi ha rapito. Se era cattivo, mi rapiva o mi faceva volare, così finivo bruciato. No?”
Harry si morse il labbro, passandosi la mano tra i capelli. “Sì. Sì, credo anch’io che non sia cattivo.”
Doveva ricomporre i pezzi del puzzle.
 

Domenica 27 novembre 1988, Little Hangleton


Lo scrutò da lontano, indeciso se avvicinarsi o meno. Appoggiato contro la parete sul retro della villa, gli sembrò più magro e grigio dell’ultima volta; Nagini sussurrava qualcosa al suo orecchio nella loro lingua segreta, ma lui si limitava a sibilare torvamente. Non pensava di trovarlo davvero al villaggio: aveva creduto che fosse già lontano, in Oriente magari. Se era rimasto, significava che desiderava parlare, che forse poteva spiegarsi. Harry stesso pensava di dovergli delle spiegazioni; così, alla fine, si avvicinò.
Tom lo vide. Ad ogni passo, s’irrigidiva di più. Quando gli fu accanto, la sua schiena si era tramutata in granito, distaccandosi dal muro. Ad un comando, Nagini diede in uno strano sbuffo sputacchiante e discese fluidamente dalla schiena del mago, non senza prima aver lanciato un’occhiata omicida a Harry.
Il silenzio si addensò tra loro come una barriera. Harry lo infranse per primo, brusco: “Che cosa ti succede?”
Tom non si scompose. “Ho degli attacchi” disse neutro. “Capitano se sono nervoso. Riguardano la sfera emotiva. Qualche volta è il panico a rendermi inerme, oppure una…sensazione. Quando e se riesco a reagire, si tramuta in una specie di raptus. La magia esplode. È molta e, perdendo il controllo…” Chiuse gli occhi lasciando in sospeso, una ruga al centro della fronte. “So che avrei dovuto dirtelo.”
“Avresti dovuto. Già, avresti dovuto.” Harry si morse il labbro, sentendo montare una furia irrefrenabile. “Perché?” sbottò di colpo, voltandosi a guardarlo. Non chiese come si sentisse o se avesse cercato un modo per contrastare le crisi. Improvvisamente era esasperato. Aveva taciuto dubbi e problemi troppo a lungo, e adesso gli rotolavano dalla bocca con veemenza. “Perché non ha funzionato? Perché hai dovuto rovinare tutto? Stava andando bene, noi stavamo andando bene per una volta, e… Hai questa—mania di volere tutto e subito, cazzo! Perché adesso, perché qui? Forse tu no, ma io stavo bene! E poi te ne spunti dal nulla guardandomi con aspettativa e io non capisco che cosa vuoi, e ti comporti in modo strano pretendendo di sapere qualunque cosa mi riguardi, e non ti spieghi, non mi dici nemmeno quali cazzo di problemi hai!”
Aveva la gola secca e il fiato corto. Non capiva perché nutrisse tanto astio, perché provasse tanta confusione. Sentiva di non aver spiegato neppure la metà dei motivi per cui Tom lo faceva imbestialire ma, se tra i due c’era qualcuno che potesse dominarsi, era lui, e non doveva permettere che la rabbia prendesse il sopravvento sul buonsenso. Inspirò ed espirò più volte allo scopo di calmarsi, nonostante avesse i nervi a fior di pelle. Non condivideva la prospettiva di Tom, ma doveva sforzarsi di intuirla nel modo più chiaro possibile.
“Mi dispiace che per te non sia cambiato nulla, ma per me sì, è stato—è stata un’altra vita, va bene? E mi dispiace, ma non so che cosa fare se ogni volta che mi avvicino ti viene un maledetto collasso perché sei agitato o emozionato o chessò io!”
“Ti ho mai chiesto qualcosa?” Il tono di Tom era di nuovo basso e tremante di rabbia. “In questi mesi, dimmi una sola volta in cui ho preteso da te, una in cui sono stato scorretto. Prima del mio attacco ti ho avvisato. L’ultima cosa che volevo era aggredirti – non sono padrone di me in quei momenti.” Gli si mise di fronte avvampando e scandendo anche le sillabe.
Harry iniziò a provare una vaga traccia di senso di colpa. Tom sconvolgeva la sua routine, lo portava a domandarsi quale scopo avesse nel tornare – un motivo doveva esserci, conoscendolo – e non poteva sentirsi pronto finché non capiva di cosa si trattasse. Ma poi quello che disse lo ammutolì:
“Ti chiedi perché sono qui. Perché! È così difficile da comprendere? Volevo vederti. Se ti dicessi che in sei anni l’unico modo per trascinarmi in giro giorno dopo giorno è stato pensare che sarei potuto tornare? Ah, immagino che questo accresca il tuo piccolo ego. Lo trovi ridicolo? Io sì, spesso – molto.” Lo spinse contro il muro della casa, artigliandogli il cappotto.
Ora il senso di colpa gli era rimasto intrappolato in gola, commisto ad un coagulo di rabbia palpitante che non voleva saperne di uscire.
“Credi che mi piaccia quello che sono? Ho un potere immenso che non riesco a controllare e che non mi serve a nulla, nessun nome, nessun progetto concreto e…e poi ho te” ringhiò, dunque emise un verso beffardo. “Di’ la verità: ti piacevo prima. Avevi un motivo per stare con me, salvarmi, salvare tutti… Adesso cos’hai? Il tuo dovere è compiuto, la guerra è finita, Lord Voldemort è innocuo.” La mascella si serrò sull’ultima parola.
“Stronzate!” esplose Harry a quell’uscita. “C’entrava il fatto che volevo aiutarti, ma non era l’unica cosa! Sono rimasto con te mentre tu ammazzavi della gente, non avrei dovuto ma l’ho fatto! E credi che non lo veda come rimpiangi i vecchi tempi? Sei tu che vorresti essere ancora quello che eri, sei tu che continui ad aggrapparti al prima – io sto cercando di andare avanti!”
“Avanti… Tu puoi fare quello che vuoi…” Tom si allontanò da lui, i muscoli tremanti. “Ma io rimango indietro, è così—umiliante stare qui a dirti queste cose, così—”
Harry, invece, gli si avvicinò. Era saldo sulle gambe quanto lui nervoso. “So perché sei tornato, Tom, ora lo so. Vorresti che io venissi con te, no? E non solo per un tuo ideale romantico, ma anche perché credi che io sia potente, me l’hai detto, credi che con me sarebbe più semplice ottenere quello che desideri…” Si passò una mano sul viso in un gesto spossato. La rabbia era scemata sino a lasciare un gran senso di delusione. “E non è cambiato niente, allora? Non capisci… Di nuovo daccapo, tu con le tue follie e io…”
“Sei tu che non capisci” sibilò Tom deglutendo. “Pensi che io sia venuto con lo scopo di rovinare la tua vita perfetta e che in me ci sia di nuovo qualcosa di sbagliato – se prima ero crudele almeno potevi giustificarmi, adesso se ti parlo in questo modo non puoi! Ma la verità è che sono la stessa persona, non due diverse, non posso cancellare quella che è stata la mia visione del mondo per mezzo secolo, non posso semplicemente uccidere una parte di me!” S’interruppe. “Sto provando a fare di meglio. Sto tentando. Commetto errori.” La voce era spezzata, vibrante del tentativo di riguadagnare il controllo. “Non sono come te.” La tensione lo abbandonò di colpo, lasciandolo spento e scavato.
Harry si era fermato a metà di un respiro, avvertendo il peso dei fraintendimenti mentre guardava Tom con angoscia. Non aveva capito assolutamente niente. Aveva creduto che mentisse, aveva voluto scorgere in lui una natura peggiore di quella che era: pensava che il suo attacco fosse stato volontario, che desiderasse ancora usarlo per i suoi scopi. Ma si trattava di qualcosa di molto più innocente, difficile per Tom da confessare. L’ho lasciato solo ad affrontare tutto. Harry non avrebbe dovuto sentirsi colpevole, aveva il diritto di ricostruirsi un’esistenza lontano da lui, ma gli aveva fornito un’anima senza indicargli alcuna direzione e non poteva impedirsi di provare rimorso. I suoi pensieri sei anni prima erano stati rivolti a Lily e a Sirius, ad una vita nuova, e Tom di quella vita non avrebbe potuto far parte in ogni caso...ma davvero non poteva concedergli un ritaglio di spazio, adesso che aveva compreso?
“Scusa. Non lo sapevo.”
Azzardò un passo in avanti e Tom si ritrasse, gli occhi sgranati.
“Non avvicinarti.” Respirava in sibili affrettati, il tono allarmato.
“Ti sta per succedere?”
Silenzio. Poi un sussurro abbandonò le sue labbra: “Forse.”
Harry si mosse ancora, di lato, procedendo cautamente. “Non accadrà” disse, cercando di suonare sicuro. L’aria attorno a loro era raggelata, nel cielo si addensavano le tenebre. “Non lo permetterò. Sono io. Non mi farai del male.”
Era come cercare di ammansire una belva ferita. Più gli si accostava, più notava il sudore sulla sua fronte e i tremiti che lo scuotevano piano, impercettibili da lontano. Si guardavano negli occhi: Harry non abbassò lo sguardo neppure una volta. Intuiva che, se l’avesse distolto, Tom sarebbe scivolato via, in una dimensione a parte dove la mente si rifugia quando il corpo è senza guida. Finalmente giunse abbastanza vicino da sollevare una mano e lentamente stringergli il polso. Era freddo.
“Tom.” Rafforzò la presa. Si appoggiò a lui, petto contro petto. Percepiva il battito della vena radiale, il ritmo del cuore impazzito e il freddo degli arti – il calore che si concentrava nel torace, dove la magia ribolliva in procinto di eruttare. “Tranquillo. Respira.” Gli cercò le labbra con le proprie. “Qui.”
Il corpo di Tom parve sgonfiarsi contro il suo, mentre l’energia recuperava il suo flusso costante. Il tremito nervoso si acquietò sino a sparire ed entrambi chiusero gli occhi. Harry non riusciva più a distinguere i loro respiri mischiati dal vento che riprendeva la sua corsa assieme alle nubi.
 

Lunedì 28 novembre 1988


“Hai deciso di partire?”
Tom interruppe i preparativi – fissare l’orizzonte con occhi vuoti dopo essersi calato il cappuccio del mantello invernale. “Non vi è motivo d’indugio” rispose laconico.
“Ma davvero?” giunse un sibilo scettico e prolungato. Nagini si avvolse con fluida pigrizia al ramo dell’olmo e lo scrutò dall’alto. “Il tuo amante è restato fino a tarda sera, ieri. Pensavo tornasse oggi.”
Tom trattenne l’impulso di guardarsi alle spalle. “Lo farà, non mi troverà e se ne andrà.”
“Ha offeso il tuo orgoglio, ti ha causato sofferenza?” Avviluppata al ramo, lasciò pendere parte del corpo sinuoso finché i suoi occhi non furono a livello di quelli del mago. “Oppure non si è dimostrato abbastanza entusiasta del tuo ritorno?”
Lui rilasciò lentamente il fiato facendolo filtrare tra i denti serrati. “Ho commesso un errore a venire” dichiarò. Provava sempre una sensazione di fastidio ad ammettere eventuali mancanze. “Harry sta bene. Non vuole influenze da parte mia.”
“Te l’ha confidato prima o dopo essere scivolato nel tuo letto?” chiese il rettile, quasi casualmente. “Dopo, scommetto.” Allo schiocco infuriato di Tom, si affrettò ad aggiungere: “Dico soltanto che non mi è apparso scontento della tua presenza. Forse faresti meglio a considerare l’ipotesi che non gli dispiaccia.”
L’uomo strinse le labbra in una linea sottile. “Ha un fratello che è praticamente un figlio per lui, una famiglia e un lavoro. Non mi attira l’idea di rubare tempo a qualcuno senza un motivo logico.” La fulminò dal basso. “E tu da che parte stai? Detesti Harry.”
“Temo che la logica non c’entri…” sbuffò la serpe, che evidentemente ne aveva abbastanza dell’argomento. “E da quando non comunichiamo, il tuo umano è decisamente più appeti--apprezzabile… Ma oh, preferisco lasciarvi soli…”
Si volse verso di lei, irritato. “Lasciarci soli?”
“Tom, che--? Te ne stavi andando?”
Harry era dietro di lui, arruffato e disordinato come al solito, e studiava il mantello pesante allacciato stretto con aria sorpresa. Tom maledisse la sua tempestività e la propria lentezza: stava partendo di prima mattina proprio per evitare che un episodio simile si verificasse. “Sì” rispose mascherando una smorfia d’irritato disagio.
Harry sussultò appena. “Speravo che…” Lasciò in sospeso, mettendo mano alla tracolla di cuoio e frugandovi dentro. “Ecco, è per te.” Estrasse un libro sottile dalla grande copertina illustrata, Le Fiabe di Beda Il Bardo, e glielo porse con un sorriso.
Tom lo prese dopo un attimo d’esitazione, stranito dal gesto, e se lo portò al viso con movimenti meccanici. “La fascia d’età dei lettori di questo volume va con tutta probabilità dai tre ai sei anni” commentò.
“Sì, sapevo che l’avresti detto! Se apri trovi la dedica, è molto più di quello che sembra. Certo potresti trarne la conclusione sbagliata, ma è un rischio che correremo.” Aggrottò la fronte. “Ora dove vai così all’improvviso?”
Tom accarezzò con l’indice il dorso del libro, voltando la pagina di copertina. In inchiostro sbavato, una grafia disordinata recitava:

Spero non ti dispiaccia se ti faccio leggere libri per bambini. So che ti consideri superiore a queste cose, ma riguardo al discorso sull’immortalità, il capitolo dei tre fratelli è piuttosto interessante. Se capisci la morale, hai c’entrato il punto. L’eternità non esiste: esiste la scelta di morire quando lo si decide e senza rancore. È simile a quel discorso sull’eterno ritorno. Ma in ogni caso, è tutto scritto qui.

H.


Si accigliò lievemente, scettico ma divertito. Impiegò una manciata di secondi a capire che gli aveva fatto piacere. Ciò peggiorava la sensazione riguardo alle parole che doveva pronunciare. “Il Cairo.” Finse di guardare l’uomo di fronte a sé senza in realtà vederlo. “Ero lì prima di venire in Inghilterra.”
“Beh, la prossima volta avvisami quando torni.” Harry cercò i suoi occhi per scambiarsi uno sguardo d’intesa, ma lui li distolse.
“Pensavo di non tornare.” Secco e deciso. Non poi così difficile. In passato, dissimulare era stato semplice come respirare, almeno prima che il vuoto nel suo petto fosse colmato con emozioni talmente mutevoli e potenti da fargli quasi perdere il senno.
“Ah.”
“Desidero rimettere mano ai miei studi” continuò Tom esibendo un cenno del capo. “I recenti mesi sono stati infruttuosi per quanto concerne le mie ricerche. Naturalmente sono stato bene qui, abbiamo parlato – ma credo sia necessario riprendere con le nostre--”
“Mi credi stupido?” sbottò Harry senza più traccia di allegria sul viso. “Ti devo aver colto impreparato venendo qui stamattina. Mi auguro che altrimenti avresti saputo escogitare di meglio.”
Gli occhi di Tom si ridussero a fessure. Decisamente sarebbe dovuto partire la notte prima. “Volevo evitare che si giungesse a questo.”
L’espressione di Harry appassì di delusione. “Pensavo che ieri ci fossimo avvicinati. Non chiariti, no, ma avvicinati sì.”
Non si lasciò commuovere. “Tu non vuoi che io torni” scandì con forza, come se gli stesse praticando la Legilimanzia e sapesse in partenza di non potersi sbagliare.
“Che ne sai di quello che voglio?” scattò fissandolo. “È vero, ho una vita qui e non voglio lasciare nessuno di quelli che mi stanno accanto. Ma nulla m’impedisce di stare con te.”
“Mi hai scacciato.”
Harry si picchiò la gamba con il pugno, frustrato. “Non ti ho scacciato! Sentivo che qualcosa non andava coi tuoi nervi, e un momento dopo sono dovuto scappare! Ma ieri sera ce l’abbiamo fatta, abbiamo fermato—”
“Che cosa farai quando accadrà ancora?” Tom incontrò con forza il suo sguardo e s’impose, spalle dritte ed espressione feroce. “Sei stato imprudente ad avvicinarti a me in quelle condizioni. La prossima volta ti ucciderò, se ciò ti soddisfa.”
Lo vide stringere entrambe le mani fino a far sbiancare le nocche, gli occhi fiammeggianti. “La prossima volta ce la faremo di nuovo.”
“Come?”schernì lui sprezzante. Lo fissava con la solita concentrazione di chi si pone domande senza risposta e masticava un boccone di nervoso rivoltandoselo contro il palato. Harry non era cambiato. Sempre in cerca di aiutarlo, il suo amore era come pietà che dispensava ai meno fortunati – possibile che fosse solo questo ciò che aveva provato per lui? Era sciocco da parte sua pensare che esistesse soluzione ad ogni problema, mentre c’erano persone che non potevano essere riscattate e situazioni impossibili da risolvere.
In risposta, Harry gli afferrò le spalle e spinse il volto contro il suo. Tom s’irrigidì e provò a scostarsi, ma le unghie dell’altro si conficcarono nella sua schiena fino alla resa. Il bacio fu quanto di più diverso dalla sera prima potesse esserci – nacque come una dimostrazione di verità, un’aggressione che dalle parole si spostò alle labbra. Infine si scostò da lui, le mani infilate sotto il suo mantello.
“Così” ansimò a mezza bocca, poi annuì, cominciando ad elencare in fretta frasi sconnesse: “Ci ho ripensato. So cosa fare. Solo che non mi aspettavo che arrivassi d’un tratto, senza scrivere. Possiamo vederci da qualche parte, in qualche modo – dannazione, possiamo scegliere un posto in cui Materializzarci! E mi va bene. Tu mi vai bene. Tom, Voldemort, tutto quanto. È ciò che sei. Non puoi cancellarlo. Credevo che l’idea di un te diverso mi piacesse, ma in realtà non ti riconoscevo. Adesso so che sei sempre tu, alla fine. E…voglio aiutarti a riposare.” Le dita si strinsero sul tessuto della veste, la voce ridotta ad un sussurro.
Tom rabbrividì, incerto se si trattasse dell’aria gelida. Voglio aiutarti a riposare, risuonava nella sua mente. “Ti stai— ti prendi gioco di me.” Gli uscì come un automatismo. Sapeva che non lo stava ingannando. Harry non l’avrebbe fatto.
“Nessuno si prende gioco di te, nessuno crede che tu sia ridicolo, nessuno tenta di ingannarti o di giudicarti o qualunque sia la tua paranoia al momento. Merlino, non ti sopporto. Però ti amo. Non m’importa di dirtelo o meno. Le parole spesso sono solo aria.”
Per un po’ rimase a guardarlo – la mascella tirata, gli zigomi alti, l’ombreggiatura della barba dove non si era rasato prima di recarsi lì, le mille rughe d’espressione che facevano del suo viso il viso di Harry. Realizzò gradualmente di star sorridendo in modo strano. Forse non era del tutto un sorriso, più una smorfia che scivola via dolcemente. In mezzo a loro c’era ancora il volume di Beda Il Bardo. Lo lasciò cadere a terra e, quasi nello stesso istante, catturò i fianchi di Harry e ricambiò il bacio con trasporto. Quando le loro bocche si separarono, il verde di quegli occhi si era sciolto tanto da potercisi specchiare.
“Ti avevo giurato che un giorno, quando fossi tornato, sarei stato libero dai miei vecchi blocchi e dalle mie pastoie” rammentò, poi scosse il capo rassegnato. “Sono così completamente incapace di mantenere una promessa… Mi conosci.”
Lui annuì, aprendosi in una mezza risata. “So a cosa vado incontro.”


fine

   
 
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