~Come
una primula~
I campi
ricoperti di brina
scorrevano oltre il finestrino senza che i miei occhi li vedessero
davvero,
creando quell’atmosfera cupa e sospesa che solo
l’alba delle mattine di
febbraio può donare; quella della nebbiolina sottile posata
sui fili d’erba cristallizzati
dal gelo, quella dei raggi pallidi del sole che cerca di averla vinta
sulle
nuvole cariche di neve.
Se fosse stato un giorno come un altro avrei sospirato felice,
riflettendo
assonnata su quanto fosse bello quello scenario spettrale da film
gotico che mi
accompagnava lungo la strada verso casa ogni settimana, ormai da mesi,
ma quel
mattino non dava inizio ad un giorno qualunque; quel mattino che ancora
doveva
nascere sarebbe stato il decimo della mia vita senza di lui.
Sospirai, la
testa appoggiata contro
il vetro, e il mio respiro formò una patina di condensa
sulla sua superficie,
fredda contro la mia guancia. Osservai per qualche secondo la
nebbiolina opaca
che avevo involontariamente creato e considerai quanto fosse simile a
quello
che sentivo di avere nella mia mente in quell’istante. Con un
improvviso gesto
di stizza, la cancellai con un unico movimento circolare. Non ne
lasciai
nemmeno la minima traccia, augurandomi di poter fare lo stesso con i
miei
pensieri. Decisi di non considerare l’alone che si era
riformato sul
finestrino, illudendomi di poter davvero rimuovere definitivamente
qualcosa,
nella mia vita. Dopotutto, era evidente che con lui avrei dovuto farlo.
Sentii distintamente l’istante in cui il mio inconscio prese
il sopravvento
sulla mia forza di volontà, distogliendomi da ogni mio buon
proposito e
facendomi tornare con la mente a Matteo. Sospirai di nuovo e per la
seconda
volta il vetro si appannò sotto il mio respiro. Lo fissai
meditabonda. Come
volevasi dimostrare. Un fallimento su tutta la linea.
Matteo.
Matteo era una ferita fresca
sulla mia pelle metafisica. Anzi, era uno di quei taglietti che ci si
fa con la
carta sulla punta delle dita, di quelli che a malapena si vedono ma
fanno lo
stesso un male tremendo.
Ecco, Matteo era il taglio e il foglio di carta che
me l’aveva
procurato; e quel foglio di carta era il copione della mia vita negli
ultimi
sei mesi, che, vista in prospettiva, sembrava davvero una di quelle
commediole
all’italiana che si filano alternativamente le adolescenti o
le
ultracinquantenni.
Patetica. Non trovavo definizione più calzante per
descrivermi, a posteriori.
Patetica come solo una diciannovenne che si affaccia al mondo per la
prima
volta poteva esserlo, decidendo che la prima cosa giusta da fare era
innamorarsi del classico coglione stereotipato che doveva, per
forza di
cose, strapparle il cuore e darlo in pasto alle belve feroci.
Perché ad una ragazza piace essere, di quando in quando,
infelice in amore. Lo
diceva pure la Austen in Orgoglio e pregiudizio.
Sbattei leggermente la testa contro il finestrino, sprimacciandomi gli
occhi.
Dio, quanto avrei voluto odiarlo; ma pensare a Matteo voleva dire
ricordare i
suoi baci, le sue carezze, la tenerezza con cui mi stringeva ogni volta
che lo
incrociavo per sbaglio in facoltà, perché sapeva
che a me non piaceva dare
spettacolo e quindi limitava le effusioni in pubblico.
Pensavo a lui e non potevo dimenticare la tenacia con cui si era
scavato un
tunnel sotto la cinta muraria che proteggeva i miei sentimenti, la
pazienza che
aveva avuto nel rispettare i miei tempi.
Sbuffai al ricordo di lui che mi aspettava fuori dall’aula,
fingendo di fare
altro e di avermi incrociato per caso, del suo sguardo, che si
circondava di
piccolissime rughe quando mi sorrideva, dei suoi denti bianchissimi,
che mi
ritrovavo a fissare ogni volta.
Non aveva mai voluto dirmi come aveva fatto a notarmi in mezzo a
migliaia di
studentesse molto più belle di me, né
perché avesse scelto me. Era
semplicemente comparso nella mia vita come un fulmine a ciel sereno e
poi c’era
rimasto, come l’elettrostaticità che riempie
l’aria dopo il suo passaggio.
Soffocai un singhiozzo. Non avrei pianto per lui, non dopo che aveva
deciso di
tradirmi con una puttanella qualsiasi.
Lo vedevo ancora davanti a me, venerdì pomeriggio, mentre
rideva abbracciandola
per strada, chinandosi a baciarla come se fosse la cosa più
naturale del mondo.
Mi era davvero parso di sentire il sangue gocciolare dal mio cuore
infranto, ma
avevo indossato la mia migliore faccia inespressiva e l’avevo
salutato come se
niente fosse. Aveva ricambiato sovrappensiero, poi era gelato sul
posto. Non
aveva nemmeno provato a negare.
Mi ero allontanata prima che mi vedesse piangere, come se non mi
importasse
nulla di lui o del mondo.
Mi ero trincerata di nuovo dietro le barriere di
un’insensibilità cronica,
certa che, se avessi tagliato fuori ogni sentimento, non avrei potuto
soffrire.
In dieci giorni ero riuscita a disfare quasi tutto quello che lui aveva
fatto
per me; ero quasi tornata ad essere la ragazza introversa che era
arrossita
fino alle orecchie la prima volta che l’aveva baciata, quella
che nascondeva
l’insicurezza dietro una patina di perfezione, che pretendeva
troppo da se
stessa e dagli altri.
Non mi aveva cercata. Non si era scusato. Da un giorno
all’altro era scomparso
dalla mia vita, quasi fosse stato soltanto un bellissimo sogno ed io mi
fossi
finalmente svegliata, scoprendo che la mia vita era irrimediabilmente
vuota
senza di lui, senza i suoi capelli corti e il suo tatuaggio assurdo,
che mi
aveva tanto incuriosita all’inizio: sei cerchi sottilissimi
che correvano a
spirale lungo la sua nuca. Uno per ogni persona che avrebbe portato nel
cuore
in eterno, mi aveva confidato un giorno. Avrei voluto esserci
anch’io, incisa
sulla sua pelle, proprio come lui era inciso nel mio cuore.
I primi raggi del mattino mi ferirono gli occhi, facendomeli
socchiudere.
I campi ricoperti di rugiada ghiacciata si stavano lentamente
sciogliendo,
sotto l’effetto del sole che sorgeva. Era uno spettacolo che
mi emozionava
sempre.
Ferma all’ultimo semaforo, lasciai vagare lo sguardo su
quello sprazzo di vita
che nasceva ogni giorno. Una tenue macchia gialla attirò i
miei occhi. Erano i
primi fiori dell’anno. Sentii le mie labbra incresparsi in un
sorriso amaro. Il
nostro amore era stato proprio come una primula: delicato, bellissimo,
terribilmente fragile. Distolsi lo sguardo dal finestrino; distolsi lo
sguardo
da quello che avremmo potuto essere lui ed io assieme. Ero arrivata.
La stazione
era quasi deserta. Scesi
dall’autobus stringendomi nel cappotto e sistemandomi la
sciarpa, che
svolazzava sotto la spinta del vento freddo. Rabbrividii, decisa ad
arrivare a
casa nel minor tempo possibile e a gettarmi nella mia vita piena di
impegni,
che mi avrebbe assicurato la pace mentale per almeno qualche ora.
L’autista mi
porse la valigia ed io lo ringraziai con un sorriso di circostanza,
chiedendomi
se sarei riuscita di nuovo a produrne uno vero. Lasciai scorrere lo
sguardo
sulle poche persone presenti.
Lui era lì, seduto su una panchina ancora
nell’ombra. Anche visto di spalle era
impossibile per me non riconoscerlo. Lo osservai mentre se ne stava
immobile a
contemplare il fiume che scorreva a fianco della stazione. Sentii che
tirava su
col naso, un’abitudine che non avevo mai sopportato, e
dovetti reprimere
l’istinto di prendere un pacchetto di fazzoletti dalla borsa
e lanciarglielo
addosso, come avevo fatto mille altre volte, per scherzo. Percepii il
freddo
che provava dal modo in cui si strinse nel cappotto.
Vederlo senza difese, da lontano, mi tolse il respiro. Il suo profilo
era
pressoché perfetto, con quel naso dritto e il ciuffo di
capelli corvini che gli
svolazzava attorno agli occhi. Non li vedevo, ma sapevo che erano
grigio
antracite, con una sfumatura più chiara verso il centro. I
raggi deboli del
sole lo illuminarono da destra, facendo capolino da un banco di nuvole
dello
stesso colore delle sue iridi. Era bello da star male, sembrava
risplendere di
luce propria.
Mi odiai per averlo davvero pensato; mi ero imposta di dimenticarlo e
in quel
momento stavo buttando al vento giorni e giorni di auto convincimento
forzato,
struggendomi per un ragazzo che aveva evidentemente deciso che non lo
meritavo.
Feci leva sul mio orgoglio ferito e sui miei sentimenti calpestati come
foglie
secche d’autunno per voltargli le spalle e continuare con la
mia vita, decisa
ad ignorare le urla strazianti del mio cuore.
Faceva dannatamente male.
Fu questione di un istante:, mi stavo già girando quando un
raggio di sole lo
ferì agli occhi, facendogli voltare la testa nella mia
direzione.
I nostri sguardi si scontrarono, intrecciandosi, lottando tra loro. Lo
vidi
alzarsi e muoversi verso di me, sillabando il mio nome quasi fosse in
trance,
ed io reagii d’istinto: mi voltai e scappai, cercando di
mettere quanta più
distanza tra me e lui, perché sapevo che non sarei riuscita
a resistere ancora
e non avrei mai perdonato me stessa se gli fossi crollata davanti,
facendogli
vedere quanto fosse diventato indispensabile nella mia vita.
«Annalisa, aspetta!» La sua voce mi raggiunse con
la violenza di una stilettata
alle costole. Non potei evitarlo, il mio corpo decise per me. Mi fermai
senza
voltarmi.
«Perché?» Lasciai a lui il capire cosa
gli stessi veramente chiedendo; a conti
fatti, non lo sapevo con certezza nemmeno io.
«Io... io... non lo so. Annalisa, ti prego.» Il
tono di supplica nella sua voce
mi fece serrare le palpebre, lottando contro le lacrime che
aspettavano da giorni di sfuggire al mio controllo. Presi un respiro
per
calmarmi. Lui non ti ama, mi dissi. Me lo ripetei un’altra
volta, per
sicurezza, facendo leva sul dolore che quel pensiero mi provocava per
sembrargli indifferente.
«Non sai cosa, Matteo?»
«Non so perché l’ho fatto.»
«È molto semplice, in realtà: non ero
abbastanza per te.» Avrei voluto che ci
fosse meno amarezza nella mia ultima frase, ma la voce mi
tremò, portando con
sé lo strascico di un lutto del tutto personale. Piangevo il mio cuore
ormai
perduto, donato ad un ragazzo che l’aveva considerato alla
stregua di un
giocattolo nuovo di cui si era stancato fin troppo in fretta, troppo
monotono o
fragile per divertirsi davvero ad usarlo.
«Annalisa», sussurrò, la voce rotta,
«lo sai che non è vero. Tu sei sempre
stata troppo per me, ero io che non ero mai abbastanza.»
«È per questo che mi hai tradito?»
«Io non ti ho tradito.»
Sussultai all’inconfondibile sincerità che mise
nelle sue ultime parole, quasi
mi avesse schiaffeggiata.
Mi voltai nella sua direzione e incontrai il suo sguardo.
«Non mentirmi», e suonò più
come una preghiera che come un ordine.
Matteo allungò una mano verso il mio viso, cauto, e
accarezzò la mia guancia
delicatamente, spazzando via lacrime che non mi ero nemmeno accorta di
aver
smesso di trattenere.
«Non ti sto mentendo. Non c’è mai stato
niente, era un bacio senza
significato.»
«Non esistono baci senza significato.»
«Non voleva dire quello che dicono i nostri,
allora.»
«E cosa vogliono dire?»
«Che ci amiamo.»
Il mio cuore perse un battito. Inclinai il capo andando incontro al suo
palmo
aperto e chiusi gli occhi, lasciando andare con un sospiro il fiato che
avevo
inconsciamente trattenuto.
Aveva le dita gelate, ma non mi importava. Avevo percepito la
sofferenza nel
suo sguardo plumbeo, nella sua voce tesa; aveva commesso uno sbaglio e
ne stava
pagando le conseguenze.
Presi una decisione: feci un passo verso di lui, abbandonando la
valigia e
l’incertezza, ed eliminai ogni distanza rimasta tra noi due.
Le sue braccia mi
circondarono, stringendomi come se fossi la cosa più
preziosa che avesse mai
posseduto, avvolgendomi nel suo calore, nel suo profumo indescrivibile,
nei
suoi sentimenti.
Finalmente mi sentii a casa, in mezzo ad una stazione semi deserta, con
il
vento gelido che lottava contro i nostri abiti e le sue parole che mi
cullavano, scuse e promesse sussurrate al mio orecchio; le mie labbra
ritrovarono finalmente le loro gemelle. Sarei potuta rimanere
così in eterno.
«Ti devo mostrare una cosa», mi disse,
sciogliendosi infine dal nostro
abbraccio ed allontanandosi di un passo. Sentii subito più
freddo e
rabbrividii, mentre lo guardavo incerta sfilarsi la sciarpa. Mi diede
le spalle
e si abbassò il collo della giacca e del maglioncino che
indossava sotto.
Sulla sua pelle, ancora circondato da un alone arrossato,
c’era un nuovo cerchio
nerissimo, il settimo. Rimasi senza parole, fissando ipnotizzata quella
sottile
linea sulla sua pelle, tracciata con inchiostro indelebile. La sfiorai
con le
dita, con un gesto delicato.
Matteo rimise a posto gli abiti, poi si voltò di nuovo verso
di me. Lessi la
determinazione nel suo sguardo.
«Nel bene e nel male, tu per me sei un “per
sempre”.»
Scoppiai a piangere come una neonata, singhiozzando e aggrappandomi
alla sua
giacca, incerta se riempirlo di pugni o di baci, sconvolta dalla
disarmante
sincerità con cui mi aveva sopraffatto. Matteo mi
cullò, tenendomi stretta
finchè non mi fui calmata.
Sapevo che
non avrebbe capito, ma
sentivo che ci sarebbe stato tutto il tempo per spiegarglielo; glielo
sussurrai
all’orecchio che le primule non muoiono alla prima gelata.
~Fine~
Tediosissime
note dell’autrice (sì,
perchè adoro parlare in terza persona di me stessa):
Questa
storia partecipa al contest di
Phoenix_esmeralda “Le sfumature del
dolore”;
con il promt Malinconia, che non credo di essere
riuscita ad esprimere
granché, ma si fa quel che si può.
Qui potete
trovare un
(orribile) modello del tatuaggio di Matteo, se a qualcuno potesse
interessare.
La mia adorata sorellina lo ha delicatamente definito “un
cesso di tatuaggio”,
ma per me conta più il suo significato che la sua estetica.
Anche se un po’ ha
ragione.
Grazie a tutti per aver letto/ commentato/ disprezzato/ deriso/
qualunque altra
attività correlata alla storia possiate aver fatto.
Read you
soon ;)
Vale