Capitolo
Quattro: Inverno
Un
cielo di
cenere gravava sui tetti di Marsiglia, attorcigliando le sue nubi
perlacee ai
tetti delle case.
L’albero
maestro
della Queen
of Pirates non avrebbe pungolato
quell’aria gravida di neve: i corsari non
avrebbero fatto ritorno prima dell’avvento di marzo.
La
primavera è
certamente la stagione più consona al poetare
d’amore: i boccioli sembrano il
calco floreale delle promesse ancora non pronunciate degli innamorati.
Ritengo
però che
l’inverno sia sottovalutato, a riguardo: il freddo pungente
che spinge le
persone a stringersi tra di loro per riscaldarsi non è forse
ammiccante? E la
notte che si protrae più a lungo, concedendo maggiore
intimità a chi non può
vivere il proprio amore alla luce del mattino, non è
più suggestiva di un sole
spietato?
Temo,
tuttavia,
che la mia rivalutazione dell’inverno sia nata il giorno in
cui i corsari
fecero ritorno e un nuovo pettegolezzo da galeone giunse alle mie
orecchie,
bisbigliato dal mio adorato squalo. E temo che quel piccolo italiano
turbolento
conficcherebbe la mia testa su una picca se solo intuisse che mi sto
concedendo
la licenza poetica di narrare le sue romanticherie.
«Hai
dimenticato la pipa?»
Le
mani del capitano talvolta afferravano l’aria, le dita
disposte come per agguantare il ventre rotondo del legno tanto caro
all’inglese, per scuotersi un secondo dopo, memori del
destino della pipa.
Antonio aveva notato quella strana patologia già da alcune
settimane.
«Devo
averla scordata da qualche parte» recise Arthur,
stringendosi nei vestiti pesanti. Una bufera di neve, come non se ne
vedevano
da decenni, li aveva bloccati sulle gelide coste inglesi. La cicatrice
di
Antonio era quasi impazzita con quel clima, e l’uomo era
stato costretto a
passare qualche giorno senza camminare prima di arrischiarsi ad
afferrare il nuovo
bastone da passeggio.
«Strano.
Non l’hai mai dimenticata prima d’ora» lo
stuzzicò
con indifferenza Antonio, puntando gli occhi verdi sulla fiamma che
scoppiettava nel camino.
«Sarà
la tua influenza nefanda che mi fa rimbecillire»
ricambiò Arthur, particolarmente scontroso.
Lo
spagnolo non aggiunse altro, pago del tono spinoso
dell’inglese: questioni sentimentali avevano trattenuto la
sua pipa a
Marsiglia. Impossibile confondere quella particolare
tonalità acida con le
altre.
Il
capitano tese i palmi verso le braci, aprendo le dita a guisa
di stella marina: i polpastrelli erano arrossati e induriti dal freddo,
nonostante gli abiti di lana e i camini accesi, e le nocche piagate dai
geloni.
L’inverno inglese era una bestia terribile e ingorda.
«Che
importanza potrebbe mai avere un simbolo?» sbottò
così
all’improvviso che perfino Antonio, pur essendo assuefatto ai
suoi sbalzi di
umore, si sorprese.
«Ti
avveleneresti il sangue per un oggetto?» ribadì il
capitano, quando le iridi smeraldine gli trasmisero solo confusione.
Il
navigatore passò una mano tra i capelli scuri,
inselvatichiti come se il maltempo fosse rimasto intrappolato tra di
essi.
«Dipende
dal tipo di oggetto» valutò infine. «Se
fosse
qualcosa di particolarmente caro…»
«Davvero
ti rovineresti il sonno per un gingillo?»
«Bastava
un monile con accenni pagani per essere arrestati
dall’Inquisizione» la tristezza passò
sul viso di Antonio rapida come una
folata di vento, subito sostituita da un’espressione
meditabonda: «Comunque,
credo che sia il valore affettivo a decretare l’importanza di
un oggetto. O
quello simbolico. Pensa alle fedi nuziali: sono solo due cerchi di
metallo,
eppure gli sposi le conservano con cura per tutta la vita; si fanno
addirittura
seppellire con quegli anelli.»
Arthur
alzò gli occhi al cielo e li riabbassò con uno
sbuffo,
corrugando le spesse sopracciglia: paragonare la sua pipa ad una fede
era come
comparare una scultura marmorea ad un pugno di fango. E non voleva
pensare di
aver dato un pegno di fedeltà a quel tediante, pedante,
irritante francese.
Quasi
a contraddirlo per dispetto, le sue dita ebbero di
nuovo il guizzo di stringersi attorno alla conca legnosa. Doveva
arrendersi
alla realtà: aveva lasciato la sua preziosa pipa a Francis
Bonnefoy, sarto di
Marsiglia. E l’aveva abbandonata nella sua stanza come tacita
promessa di fare
ritorno.
Sprimacciò
i capelli stopposi, inspiegabilmente inviperito: la
compagnia di quello spagnolo innamorato era più contagiosa
dell’influenza
invernale. Sfortunatamente, non si era vaccinato in tempo per restarne
immune,
e, come risultato, la sua pipa giaceva sullo scaffale di una bottega
francese.
Era bello avere qualcuno da incolpare per quell’inspiegabile
eruzione di
sentimenti che lo aveva colto a Marsiglia.
«C’è
qualche oggetto che ti rode l’anima, Arthur?» si
preoccupò Antonio, con la premura canzonatoria della volpe.
«Assolutamente
no» negò l’inglese, con troppa veemenza
per
risultare credibile.
Lo
spagnolo accettò la sua versione con un cenno del capo,
accomodante. La razza anglosassone, dopo tanti secoli di evoluzione,
ancora non
era riuscita a stipulare patti chiari con il proprio cuore.
Mosse
le dita davanti alle braci, immergendosi in un altro
tipo di riflessione.
Lui
e Lovino non avrebbero mai potuto indossare gli anelli
del matrimonio. La loro relazione era quasi costata la vita a entrambi,
sotto
la scure dell’Inquisizione, ed era un miracolo poter passare
la vita assieme
senza dare adito a troppi sospetti o maldicenze.
Tuttavia,
desiderava un simbolo che gridasse al mondo che
quel giovane era soltanto suo.
Sospirò,
passando una mano sulla vecchia cicatrice. Forse un
giorno anche per le coppie come loro ci sarebbe stata la
possibilità di
scambiarsi promesse eterne in presenza di testimoni, ma era un futuro
troppo
lontano per potervi riporre qualche speranza.
Un’idea
affiorò pian piano ai limiti della sua mente, e si
fece strada fino a non lasciare spazio ad altro.
Antonio
si alzò in fretta, si congedò velocemente dal
capitano perplesso e si precipitò nei corridoi.
L’italiano
sobbalzò quando il navigatore irruppe nella sua
stanza.
«È
scoppiato un incendio?» domandò, anche se
l’espressione
di puro tripudio dello spagnolo non lasciava presagire catastrofi
incombenti.
Antonio
scosse la testa con forza, e ignorò felicemente la
dura invettiva della cicatrice quando si inginocchiò ai
piedi della sedia su
cui era adagiato il giovane.
«Lovino!»
riuscì solo a pronunciare il suo nome, mentre gli
porgeva il palmo aperto.
Le
palpebre dell’italiano si incontrarono un paio di volte,
le idee che si chiarivano ad ogni nuovo battito: la mano dello spagnolo
era il
trono di una normalissima peseta,
legata
da un sottile cordoncino nero. Non faticò molto nel
collegare quella moneta
all’assurda gioia del compagno.
«Non
mi dirai che questa è… quella
peseta?»
sillabò,
incerto tra la sorpresa e l’irritazione.
All’epoca
del loro primo incontro, l’italiano era tornato
alla locanda per riscuotere la moneta mancante per la gerla di pomodori
che
aveva portato durante la mattina. Era stato allora che Antonio lo aveva
assunto, e la peseta era stata la
scusa ufficiale per il suo soggiorno lavorativo alla locanda fino alla
sera in
cui si era unito all’ex-capitano per la prima volta.
Credeva
che fosse rimasta abbandonata in qualche angolo
della camera patronale, o che Antonio l’avesse spesa in
qualche modo. Di certo
non immaginava che l’altro l’avesse conservata.
«Tu
sei malato!»
inveì.
«Non
è proprio quella
peseta» ammise malinconicamente Antonio.
«Temo che quella sia
rimasta sotto il comodino, alla locanda.»
Lovino
quasi sospirò di sollievo: lo spagnolo non era del tutto
ammattito, fortunatamente.
«Perché
sei venuto con una peseta,
allora?» l’imbarazzo gli graffiò la
voce: c’era qualcosa di
strano nella posizione inginocchiata dell’uomo, in quella
mano protesa verso di
lui e nello scintillio degli occhi color sottobosco. Antonio sorrise in
risposta alle guance di Lovino, il cui rossore non era provocato dal
calore del
camino.
«Non
potremo essere come Diego e Consuelo» sistemò
più
comodamente le gambe, poiché la cicatrice aveva deciso di
complicare quella
dichiarazione. «Ma vorrei che tu portassi questo.»
Lovino
squadrò la moneta con sospetto: grazie alla sua forma
circolare, non era complicato capire di quale oggetto fosse la
sostituta.
«Potresti
pentirtene» borbogliò Lovino, distogliendo lo
sguardo dalla peseta che lo
fissava
speranzosa.
«In
che modo?» chiese Antonio, paziente nonostante il dolore
della cicatrice sotto sforzo.
L’italiano
si abbracciò le spalle magre, indeciso se
rigettare l’acido che si era cagliato sul suo stomaco da
quando avevano levato
gli ormeggi dal porto di Marsiglia. Un piede salì sul piano
della sedia,
facendolo assomigliare a un buffo fenicottero quando
rimbrottò:
«Un
giorno potresti desiderare un figlio, per esempio.»
Non
concluse la frase: il suo fisico indubbiamente
mascolino, sprovvisto di utero, parlava con sufficiente chiarezza.
«Lovino…»
«Ci
sono tante cose che legano le coppie normali, al di là
dei sentimenti. Una di queste sono i marmocchi.» Anche in
quel caso, non
terminò il paragone. Loro avrebbero dovuto fare affidamento
solo sulle proprie
emozioni, come garanzia per un futuro assieme.
Come
sempre, Antonio estrasse dal proprio repertorio la
risposta più ovvia e più stupida. E anche quella
più capace di frantumare le
difese dell’italiano.
Si
sollevò sulle ginocchia, andando a catturare gentilmente
con le dita i capelli ribelli sulla nuca del giovane.
«Tu
sei la mia occasione, Lovino, e non mi serve altro. Non
ti fidi abbastanza di me per crederci?»
L’italiano
girò il capo con troppa forza, e le loro fronti
si strofinarono nell’abbozzo di una testata.
«Non
mi fido del tempo. Cambia sempre le cose, e sempre in
peggio» ringhiò.
«Quindi
la nostra relazione è il meglio, per te.»
«Smettila
di tagliare dal discorso solo le parti che ti sono
comode!» la testata fu completata, dopo
quell’imprecazione, e il navigatore
dovette massaggiarsi la fronte mentre l’italiano si
rannicchiava contrariato
sulla sedia.
«E
se un giorno ti rendessi conto che in realtà desideravi
una famiglia?» lo sfidò, polemico.
«Non
accadrà» replicò tranquillo lo
spagnolo.
«Come
fai a esserne certo?» protestò Lovino.
«Perché
nessuna donna mi ha mai fatto ringraziare la Dea del
Mare per avermi lasciato sulla parte sabbiosa del suo regno. Nessuno,
prima di
te.»
Le
labbra dell’italiano dipinsero un cerchio basito, prima
di accartocciarsi in una brusca invettiva:
«Sei
davvero un idiota!»
Il
palmo dell’uomo fluttuò davanti al suo naso,
porgendogli
la peseta.
«La
indosserai?» lo invitò, la voce arrochita di
un’ottava.
Lovino
fissò con ostilità la moneta che palpitava per la
sua
risposta.
«Si
arrugginirà» notò caustico.
«Te
ne regalerò un’altra» replicò
pratico Antonio.
«Potrebbe
cadermi in mare.»
«Anche
in quel caso, te ne regalerei un’altra.»
«Perché
ti sei intestardito su questa peseta?»
Le
dita del navigatore accarezzarono la nuca ribollente di
imbarazzo, e un sorriso amalgamato dalla felicità e dalla
malinconia si stese
sulle labbra dell’uomo.
«Perché
vorrei poterti regalare una fede, Lovino, e non
posso. Ma posso donarti qualcosa che abbia valore solo per
noi.»
Nessuno,
guardando quella moneta, avrebbe immaginato qualcosa
di diverso dal metallo un po’ scheggiato e delle incisioni
spagnole lievemente
consumate. Solo Antonio avrebbe rivisto un ragazzino denutrito che
tornava
piegato dalle botte del padrone, e solo Lovino avrebbe ricordato il
comodino
sotto cui era scivolata la peseta,
durante la loro prima notte insieme.
«Sei
davvero un cretino…» ripeté, incapace
di articolare
pensieri più complessi, le orecchie così rosse da
mimetizzarsi con la tinta
ramata dei capelli.
Le
dita di Antonio stesero il cordoncino in tutta la sua
lunghezza, lasciando che la peseta
penzolasse strategicamente davanti al collo del giovane.
«Posso
allacciarla?» s’informò, vellutato.
Lovino
deviò lo sguardo, non potendo fare lo stesso con la
risposta.
«Fai
come vuoi» concesse, abrasivo.
Le
braccia dell’uomo gli circondarono le spalle e il calore
del petto del compagno si schiacciò sul suo mentre il filo
veniva annodato
dietro la sua testa. La peseta si
depositò trionfale nella conca del suo sterno quando la
procedura fu ultimata, entusiasta
per la vicinanza con il cuore.
Antonio
sollevò la moneta con due dita, e vi accostò le
labbra: il pescatore sentì quel bacio bruciare sul proprio
petto, come se la
bocca dell’uomo avesse sfiorato lui e non il metallo freddo.
«Ti
sta benissimo, Lovino» si complimentò, rilasciando
la
presa. L’italiano non gli permise di farlo:
avvinghiò con la propria la mano
del compagno, che ancora stringeva la peseta,
e trascorse qualche istante a mordersi le labbra prima di lasciare loro
la
libertà di muoversi.
«Questa
maledetta isola è gelida.»
«Chiederò
ad Arthur se hanno qualche altra coperta…»
«Ho
detto che è gelida.»
Le
guance del ragazzo competevano con il fuoco del camino
per il titolo di oggetto più rosso e caldo nella stanza.
Antonio racchiuse tra
le mani le gote lisce e arroventate, depositando un bacio su entrambe.
«Hai
proprio ragione» concordò, occhieggiando verso il
letto. «Questa camera è un ghiacciaio.»
Quella
sera i borbottii dell’italiano non rumoreggiarono a
tempo con i crepitii del camino: Lovino fu stranamente
accondiscendente, quella
notte, anche se non si negò qualche istante di pura
ribellione.
La
peseta scottava
sul suo petto, ma senza fargli male: era un bruciore che si innestava
nel
cuore, e lì ne accelerava i battiti fino a dargli il
capogiro.
Avrebbe
voluto urlare qualcosa di velenoso contro quello
spagnolo dal sorriso beato, o perlomeno sibilargli qualche insulto, ma
l’unica
protesta vocale che riuscì a emettere furono inconsulti
brontolii trattenuti
tra i denti.
Era
una specie di bizzarra prima notte di nozze, in fondo.
Doveva cercare di essere un poco più romantico.
Nascose
la testa sotto il cuscino in un impeto di rabbia,
quando si accorse di aver pensato a una simile sciocchezza
appiccicaticcia di
sentimentalismo: la stupidità dello spagnolo non aveva
colpito solo il capitano
inglese.
«Lovino?»
«Stai
zitto, bastardo! È sempre colpa tua!»
Antonio
cercò di sbirciare oltre l’orlo del cuscino, che
per
tutta risposta venne premuto contro la faccia del giovane fino a quasi
soffocarlo.
«Di
quale colpa sono accusato?» domandò. La sacca di
piume
emise un suono strozzato, per poi zittirsi completamente. Antonio
attese che le
nocche riprendessero colore dopo essere sbiancate per la forza della
stretta, e
allontanò il guanciale dal viso del giovane.
«Hai
ancora una pronuncia orrenda» sentenziò Lovino con
un
cipiglio disgustato, riemergendo dalle pieghe del cuscino.
Antonio
impresse il suo sorriso sulle labbra del giovane,
mentre una mano maliziosa scivolava sotto la sua camicia grezza.
«È
passato troppo tempo dall’ultima volta che te l’ho
detto»
considerò amareggiato lo spagnolo, senza allontanarsi dalle
sue labbra.
Lo
disse di nuovo, quella notte, ma non troppe volte per non
sciupare l’incantesimo che quelle due parole stendevano su di
loro: lo disse
abbastanza da far arrossire e scalciare l’italiano, lo disse
con sufficiente
passione da sciogliere le sue resistenze poco convincenti, e mentre il
corpo
del ragazzo si stringeva a lui, rabbrividendo per gli spifferi e per le
carezze,
gli parve di sentire una piccola frase ruzzolargli sulla spalla.
La
bocca del giovane si sigillò contro la curva del suo
collo, e si rifiutò di ripetere.
Antonio
preferì strappare a quelle labbra imbronciate altri
baci anziché una confessione. Inoltre, anche se
l’italiano si era sforzato di
mangiarsi le parole, aveva capito benissimo.
«Hai
ragione, Lovino» bisbigliò, abbracciandolo con
tutto il
suo corpo. «La mia pronuncia è davvero
orrenda…»
La
bocca del ragazzo si contrasse indispettita, ma le
braccia non smisero di stringerlo.
«Avrai
tutta la vita per migliorarla. Perfino uno stupido
come te ce la farebbe, dopo anni e anni.»
«Ciò
significa che dovrai stare al mio fianco per
correggermi» patteggiò scaltro Antonio.
«Dovrò
farti da insegnante per anni?» si nauseò Lovino.
Non
riuscì a dire altro perché le sue gambe vennero
ripiegate contro il petto, e una folla di gemiti si incastrò
nella sua gola.
«Per
tutta la vita» mormorò Antonio al suo orecchio
imbarazzato. «Sarà necessario molto tempo per
imparare…»
«Perché
sei un idiota.»
Quello
fu l’ultimo insulto che gli rivolse, per quella notte.
La peseta sul suo petto, e la
promessa di cui quel metallo era testimone, lo ammansirono come mai
prima di
allora.
Non
si fidava del tempo e non si fidava della gente; sapeva
che non si potevano fare progetti per un futuro troppo lontano,
poiché
sarebbero stati inevitabilmente sgretolati dallo scorrere degli anni.
Ma
Antonio aveva una specie di sortilegio nella sua voce
roca, un incantesimo che rendeva tutto semplice. Abbastanza semplice da
potervi
riporre fede.
Lovino
non
credeva negli ideali della patria, non confidava nella Provvidenza, non
si
fidava delle persone.
L’unica
persona
in cui riponeva fiducia era Antonio. Perché la patria
chiedeva morte e restituiva
medaglie al valore; Antonio domandava solo di rimanergli accanto, e
ricambiava
con sorrisi solari. Perché dove gli dei tacevano Antonio
rispondeva, quando le
persone voltavano la testa Antonio tendeva la mano.
E
il suo amore
era caldo, presente e vivo, al contrario dell’attaccamento
freddo a un paese,
all’affetto inudibile delle alte sfere o
l’indifferenza sterile del popolo.
Probabilmente,
Lovino è consapevole di questi suoi sentimenti, ma non ha
l’onestà dei
francesi, né la loro alata abilità narrativa.
Nonostante
ciò,
ammetto che è un’impresa ardua tentare di
descrivere la sua espressione, quando
si presentò nuovamente alla sartoria. Una peseta ciondolava al suo collo, e il suo viso era
una contraddizione continua: la bocca serrata in un broncio manteneva
un barbiglio
di sorriso negli angoli; le sopracciglia erano aggrottate, ma gli occhi
scintillavano come solo quelli degli innamorati riescono a fare; le
spalle
erano contratte, a dispetto delle mani, che sembravano smaniare per
l’assenza
del compagno.
Ho
sorriso
vedendo la sua peseta, e ho sorriso ulteriormente guardando la mia pipa.
Sono
giuramenti,
al pari delle fedi nuziali di Consuelo e Diego, sono promesse che
dureranno per
una vita intera.
Una
vita intera.
Sembra
un lasso
di tempo ridicolmente breve.
Ritardo
pazzesco
e mostruoso, me ne rendo conto çAç
I
preparativi
per la partenza hanno assorbito tutto il mio tempo, purtroppo .-.
Scusatemi
ancora ç_ç
Anyway…
questo
era l’ultimo capitolo. Manca solo l’epilogo, e la
saga dei pirati potrà dirsi
conclusa ç____ç
Perlomeno,
questa saga di pirati.
Perché, una volta
pubblicato l’epilogo, posterò l’inizio
della nuova serie. Come darvi qualche
anticipazione senza spoilerare troppo… dunque, avete
presente l’Isola del
Tesoro della Disney? E 1982 di Orwell? Bene, anche se vi sembrano
affini come l’olio
e l’acqua, tentate di mescolarli e otterrete la traccia
generale su cui si
muoveranno i personaggi. Per quanto riguarda le coppie…
Spamano come centrale,
GerIta e RoChu; le altre sono in fase, diciamo così,
“mobile” XD Grandi interrogativi:
UsUk o FrUk, Franada o PruCan? E così via…
insomma, da definire XD
Altre
informazioni (e, possibilmente, il link al primo capitolo<3)
saranno
rilasciati con il prossimo capitolo (l’epilogo
ç_________________ç oddio
çAAAç).
Grazie
ancora a
tutti per il sostegno e l’affetto dimostrato alla storia e a
questa autrice
derelitta<3
Un
bacione<3
Red