Capitolo Quarto
Le colpe dei padri
Athira
osserva il giovane drell esalare gli ultimi, faticosi respiri.
Tossisce
quasi ininterrottamente, ma il Custode della Memoria è stato chiaro: la purezza
della morte non dev’ essere contaminata dalla medicina, la sofferenza deve
essere pura e acuta, così come gli Dei l’avevano immaginata, nell’affliggere al
popolo drell la sacra punizione.
Athira
è stata benedetta solo qualche mese fa e ci sono ancora tante cose, che la spaventano.
Cerca
di ripetersi che la sua anima non è davvero spaventata, che alla fine
accoglierà con gioia il fato che l’è spettato, cerca di dirsi che sono solo gli
inganni della materia a tenerla attaccata così spasmodicamente ad una vita che
non merita di vivere.
Eppure,
le riesce ancora difficile da accettare.
Interrompe
le proprie riflessioni. C’è qualcosa di diverso, nell’aria.
…
c’è silenzio.
Abbassa
lo sguardo, sul giovane drell.
E’
immobile, i grandi occhi neri spalancati sull’eternità, il volto rilassato nel
torpore della morte.
-
Grazie, Kalahira, per aver accolto un altro dei tuoi figli.- prega il Custode,
a voce alta.
Un
mormorio reverente si unisce a lui, ma Athira non ci riesce.
Non
riesce a pregare. Da quando ha scoperto di essere stata benedetta, sta
affrontando una crisi di fede. Può davvero accettare come una benedizione
qualcosa di terribile, come la sindrome di Kepral?
Come
può il Custode della Memoria essere così certo che la malattia sia la punizione
che gli Dei hanno destinato ai drell? Perché non può essere semplicemente una
reazione biologica, causata dalla difficoltà di adattarsi ad un nuovo pianeta e
ad un nuovo clima?
-
Hai delle perplessità, figlia mia?- le chiede il Custode, in quel momento,
posandole una mano sulla spalla.
- No.-
risponde Athira, troppo velocemente.
-
Figlia mia, non devi vergognarti dei tuoi timori. Ma ascolta: un popolo non
deve sopravvivere al pianeta che gli è stato concesso in dono. Noi dovevamo
assecondare la volontà degli Dei, e perire assieme a Rakhana. Invece… invece ci
siamo stupidamente aggrappati alla vita, cercando in ogni modo di rimandare
l’estinzione. Abbiamo dovuto scendere a compromessi con gli Hanar. Siamo
arrivati a ringraziarli, per il soccorso che ci hanno portato, per il posto che
ci hanno offerto sul loro pianeta… abbiamo accettato la loro cosiddetta grazia,
ci siamo piegati al Contratto stipulato dai nostri padri… e così facendo
abbiamo recato offesa agli Dei! Ci proteggiamo all’ombra di una razza sacrilega
che non venera i veri Dei ma una razza guerrafondaia estintasi secoli orsono!-
il Custode si sta scaldando, il sacro fervore illumina i suoi grandi occhi
scuri e le sue lunghe mani gesticolano animatamente - Però, ci è stato concesso
un modo per espiare!
Il
piccolo gruppo di accoliti si è riunito attorno al Custode, per ascoltare le
sue parole.
E tutti
ne sembrava entusiasti, eppure Athira non riesce a scrollarsi di dosso la
sensazione che ci sia qualcosa di incredibilmente sbagliato, nelle cose che
dice, in quello che lei ha fatto nel nome della fede.
Tossisce,
mentre una vampa di dolore le dilaga nel petto.
-
E’ una benedizione.- sussurra, fra sé, guardando le gocce rosse che le
macchiano le dita.
-
Ciao, Thane.- sospira Hiram.
-
E’… è da parecchio.- risponde il drell, esitando.
Konstantin
gli prende una mano, intrecciando le dita con le sue. Non riesce a immaginare
come si sentirebbe lei, al suo posto. Si è sentita morire quando ha conosciuto
le sorelle di Ashley, quando l’hanno guardata negli occhi chiedendole degli
ultimi minuti della loro sorella maggiore. Quando ha dovuto parlare con voce fiera,
quando invece aveva voglia di piangere, quando si sentiva distrutta dai sensi
di colpa.
Hiram
si siede sulla poltroncina di plastica:- dov’è Kolyat?- chiede poi, secco.
Non
ci sono altri argomenti, che possono legarli. Niente, a parte quel bambino che
Thane non ha voluto e che lui, Hiram, ha cresciuto, nonostante il costante
dolore che gli attanagliava il petto, ogni volta che guardava suo nipote. Ma
c’era riuscito. Era rimasto, rimasto per il figlio di sua sorella, rimasto
nonostante l’amarezza e la tortura di vivere in un mondo solitario.
-
Dovrebbe arrivare a momenti.- risponde Konstantin.
-
Va bene.- Hiram prende un respiro profondo.
Non
sa come parlare, come esprimersi, come poter ignorare tutto il disprezzo che
gli corrode l’anima. L’odio sopito si ridesta, la voglia di litigare, di
imprecare, di recriminare. La voglia di prendere Thane per il collo e di fargli
rimpiangere ogni minuto di lontananza, ogni secondo di assenteismo, ogni notte
che Irikah ha passato da sola, in un letto gelido, a sognare una vita che non
avrebbe mai potuto avere.
-
Andiamo in ambulatorio.- riesce a dire, alla fine. Stringe il pugno così forte
che le unghie gli incidono un solco nella pelle azzurrina delle mani – Voglio
visitarti, poi parleremo della terapia.-
-
Hiram…- lo blocca Thane – non sei costretto ad aiutarmi. Anzi.-
-
Non lo faccio per te.- sibila l’altro drell
Ed
è vero. Lo fa per Kolyat, che ha appena ritrovato suo padre e non vuole
perderlo di nuovo. Per il giuramento che fa ogni medico, che lui ha sempre onorato
e che è l’unica cosa che va davvero bene, nella sua vita. Forse persino per
Shepard, per quella tenace ragazza armata, che gli ricorda sua sorella in
maniera devastante. E, sì, lo fa per Irikah. Perché lei sapeva vedere il bene
anche nell’animo più nero e avrebbe sempre voluto aiutare gli altri, in ogni
circostanza, non importa se l’avevano fatta soffrire.
Ma
non è facile onorare la sua memoria. Sembra semplice, agire come avrebbe fatto
lei, prendere le scelte su cui lei non avrebbe nemmeno dovuto riflettere.
Sembra automatico ma è estremamente difficile. Dimenticare il proprio ego, per
poter rievocare, anche solo per un po’, la purezza d’animo di Irikah.
-
Andiamo.- ripete, dirigendosi verso l’ambulatorio.
Shepard
si alza, per seguirli, ma Thane le fa cenno di restare indietro.
Konstantin
non sa se è perché vuole passare del tempo da solo con Hiram, o perché non
vuole che lei li senta litigare, o perché c’è un parte di lui che sta pensando
ad Irikah, in quel momento, e gli sembra di tradire la sua memoria, tenendo la
mano di un’altra donna.
Li
guarda sparire dietro ad una porta di plastica bianca.
Mentre
è da sola, pensa alle vie del destino. A come cento piccoli dettagli possano
cambiare, cambiando non solo loro stessi, ma anche il corso della storia. Se
Thane non fosse stato un assassino, se non avesse dovuto uccidere proprio
quell’uomo, quel giorno, in quel luogo. Se Irikah fosse rimasta a casa, quella
sera. Se non avesse avuto il coraggio di frapporsi fra la vittima e
l’assassino.
Per
qualche istante, sente di non poter più tollerare di essere chiamata “siha”, non convivendo con la
consapevolezza che quel soprannome è stato di un’altra persona, di un’altra
donna che probabilmente l’ha meritato più di lei.
Paradossalmente,
è più facile essere un eroe in guerra, piuttosto che in pace.
Perché
quando le cose a te tendono ad esplodere, sai che ogni minuto potrebbe essere
l’ultimo. In quest’atmosfera apocalittica, sai che non puoi fuggire alla
distruzione. E allora puoi affrontarla serenamente, prescindendo dalla tua
indole, dai tuoi sogni del cassetto, accantonando le piccole preoccupazioni che
durante la pace sembrano enormi e che la guerra semplicemente spazza via.
Non
puoi ignorare il nemico, in guerra.
Ma
in pace puoi passare oltre. Vedere che qualcuno sta per morire e decidere
quietamente di lavartene le mani, di continuare con la tua passeggiata serale,
di tornare a casa e guardare un film, distesa sul divano.
Ci
vuole un gran coraggio, per inclinare lo status quo.
Shepard
si guarda intorno: passi distratti l’hanno condotta fino al giardino interno
dell’ospedale.
C’è
una gran pace, il mondo sembra annullarsi, fra quelle quattro mura, coperte dai
rampicanti artificiali.
Si
siede su una panchina, di fronte al laghetto. L’acqua esce a fiotti, con un
quieto mormorio.
Qualche
minuto dopo, una voce la strappa al torpore.
-
Shepard?-
-
Kolyat!-
La
donna si alza in piedi, per stringere la mano al giovane drell.
E’
passato un lasso di tempo scandalosamente lungo, dall’ultima volta che l’ha
visto, o che si sono scritti. Shepard respinge l’istinto di autogiustificarsi,
di esigere clemenza con sé stessa: con l’intera galassia in guerra, sembra
legittimo trascurare un po’ i rapporti sociali, ma la comandante sa che non è
stata colpa dei Razziatori. E’ che lei e Kolyat hanno poco in comune, hanno i
loro pensieri, le loro vite, forse non hanno nemmeno un grande interesse a
conoscersi a vicenda. L’unica cosa che li unisce, è Thane, ed è un filo
sottile, che potrebbe spezzarsi da un momento all’altro.
-
Sono venuto appena possibile.- dice il drell - come sta mio padre?-
-
E’ dentro con il medico.- spiega Shepard
-
Senti… per quanto riguarda il dottor Hiram… non sono stato del tutto sincero,
con te.-
Konstantin
sorride e Kolyat capisce che lei sa, e che ha capito il motivo del suo
silenzio, della sua esitazione.
-
Mi dispiace.- mormora, scuotendo il capo - E’ stato lui a crescermi, eppure…
credo di averlo deluso. Quand’ho scoperto la verità su mio padre, io ho… ho
perduto la mia strada. Lui non ne sa niente, non sa nemmeno come ho ottenuto il
mio attuale impiego all’SSC… non sa di Talid, né del mio primo omicidio. E
vorrei che le cose rimanessero così. Non ha senso dargli un altro dolore.-
Shepard
annuisce:- Sono certa che capirebbe.- dice poi - ma è giusto che tu ti prenda il
giusto tempo, prima di parlagliene. Adesso stai rigando dritto e conta solo
questo. Vedrai che Hiram sarà fiero di te, esattamente come lo è tuo padre.-
Non
è una frase retorica, detta a vuota per riempire il silenzio. E’ la pura
verità.
Lo
sguardo di Thane s’illumina, ogni volta che parla di suo figlio. Quando il
comandante Bailey gli inoltra qualche novità sul suo stato di servizio, quando
Kolyat gli scrive di qualche missione dall’esito particolarmente favorevole.
“Non
diresti nemmeno che è mio figlio” sussurra, accarezzando il datapad.
-
Grazie, Shepard.- dice Kolyat.
Konstantin
si stringe nelle spalle:- per cosa?-
-
Per tutto.- risponde il drell, semplicemente.
Non
sa con esattezza perché la stia ringraziando. Se per il lavoro che sta facendo
coi Razziatori, se è per la speranza che offre alla galassia, se è perché ha
rintracciato Hiram o per le parole che gli ha rivolto, riuscendo a rincuorarlo
anche se è quasi una perfetta estranea. Forse è un “grazie” per il tempo che
passa con suo padre, per il modo in cui gli fa trovare l’energia per
sopravvivere.
-
Vado a vedere se hanno finito.- riprende - Vieni con me?-
Li
fanno sedere fuori dall’ambulatorio e lì attendono per qualche minuto, immersi
nell’imbarazzante silenzio di chi sa che dovrebbe sentire un legame e invece
non lo sente.
Alla
fine, Shepard si rassegna, prende una rivista e la sfoglia, cercando di
ignorare le variopinte pubblicità che si animano appena vi posa lo sguardo.
No,
non vuole creme miracolose, né il nuovo modello di factotum con giochini
assortiti. Vuole solamente una vita normale, felice e - dannazione - non c’è alcuna pubblicità disposta ad offrirgliela.
E’
quasi un sollievo quando la porta della sala esami si apre e ne esce il dottor
Zane.
-
Kolyat!- sorride subito, andando ad abbracciare il nipote.
I
segni della stanchezza e del dolore mai sopito sembrano scomparsi dal suo
volto, ma Shepard sa che è solo un’abile travestimento, una maschera che quelli
come lei imparano presto ad utilizzare.
-
Grazie, per quello che fai.- dice Kolyat, bloccando Hiram prima che pronunci le
fatidiche parole “quanto sei cresciuto!” - So che non è facile, per te.-
-
Quando si tratta della tua felicità, non mi tiro mai indietro.- sorride l’altro
drell - ti voglio bene, Kolyat.-
-
Lo so, zio.- risponde il giovane, un po’ in imbarazzo - Allora, come sta mio
padre?-
Il
dottore si siede su una poltroncina, prendendo un respiro profondo per
riordinare le idee.
-
Mentire è inutile.- esordisce poi - La situazione è critica. Nonostante tuo
padre si sia sottoposto alla terapia giornaliera consigliata, non sono mai
stati tentati interventi più invasivi, per rallentare il decorso della
sindrome. Ad ogni buon conto, la mia opinione rimane la stessa: l’unica
possibilità che abbiamo, e vi devo avvertire che le probabilità ci remano
contro, è un intervento estremamente sperimentale. Del tipo di sperimentazione
che
-
Suona poco legale, zio.- rileva Kolyat, ma non sembra contrariato.
-
Sì, suona poco legale.- ammette Hiram - Eppure è la nostra migliore
opportunità. Probabilmente l’unica. Con un nuovo protocollo farmacologico posso
rallentare il decorso della sindrome o evitare l’insorgere di ulteriori
problemi, ma ormai il grosso del danno è fatto.-
-
Ci parli dell’intervento.- lo esorta Shepard.
-
Sì, l’intervento. Su Kahje, io e la mia equip stavamo studiando un metodo per
clonare i tessuti polmonari dei drell. Il progetto era ormai ad un punto tanto
avanzato che stavamo per venirne a capo, quando…- tentenna, poi scuote il capo
e prosegue - quando
-
E allora cosa propone, dottore?- incalza Shepard.
-
Con i giusti componenti ed attrezzature, dovrei essere in grado di completare
la sperimentazione anche qui, sulla Cittadella. Mi metterò in contatto con la mia
collega, la dottoressa Shoni e ci metteremo subito all’opera. Se la clonazione
e il trapianto dovessero andare a buon fine, poi potremmo occuparci delle
metastasi e dei danni collaterali e, con la dovuta terapia farmacologia,
Shepard
annuisce. Anche se sembra un piano folle e rischioso, sente il sollievo
dilagarle nell’animo. Hanno un piano. Ed è più di quanto ha avuto lei, contro i
Collettori. Possono farcela. Hanno qualcosa su cui concentrare i propri sforzi
e le proprie speranze.
Dopo
aver lasciato l’ospedale, Hiram Zane si dirige all’appartamento che ha in
affitto, sulla Cittadella.
Infila
il tesserino nella fessura della porta, poi entra e richiude. Inserisce il
codice dell’allarme.
In
cucina, si versa un bicchiere di vino rosso e lo sorseggia, lentamente, seduto
al banco di plastica grigia.
I
suoi occhi si fanno vitrei, distanti.
“- I risultati delle ultime
analisi sono promettenti, dottor Zane.- riferisce la sua assistente. Ha un bel
sorriso, speranzoso. La pelle verde pallido. Occhi scuri, traboccanti di stima
e aspettative.
- Bene.- anche lui sorride.
Un sorriso diverso da quello di lei. Pensano entrambi di poter cambiare le
cose, ma per lei è una speranza, mentre per lui è un semplice diversivo, per
non pensare al passato.
- Inserisci le nuove
informazioni nel grafico e poi proseguiamo con l’esame di compatibilità.-
ordina la dottoressa Shoni.
Timala Shoni. Asari. Pelle
azzurra, le punte dello scalpo tinte di blu scuro. Professionale, seria.
Sorride solo fuori dal laboratorio, dentro non si concede distrazioni. Un
camice bianco, i guanti lunghi fino ai gomiti.
Si affaccendano fra
provette e monitor ronzanti. Preparano il futuro. Il sollievo di un’intera
razza.”
Il
bicchiere è vuoto.
Hiram
lo riempie di nuovo, studiando i riflessi del vino.
Ognuno
aveva avuto le sue motivazioni, in quel periodo entusiasmante, di ragionamenti
ed intuizioni, di conferme e di smentite, di notti insonni e di festeggiamenti
per ogni insignificante vittoria.
Lui
voleva fare qualcosa di buono, qualunque cosa. La dottoressa Shoni era la
figlia di un drell. La loro assistente - Dei, per quanto tentasse, Hiram non
riusciva a ricordare il suo nome!- aveva scoperto qualche mese prima di avere
la sindrome di Kepral.
Tutti
avevano delle ottime ragioni per infrangere la rigida proceduta per le
sperimentazioni scientifiche, ognuno non aveva tempo per aspettare le eterne
formalità della Primazia Illuminata.
Tutti
loro volevano tutto e lo volevano subito, senza aspettare, senza pause in cui
riflettere sulla vita e sugli enormi vuoti che ognuno aveva, nel cuore.
Dopo
che gli Hanar avevano scoperto il loro laboratorio, Hiram e la dottoressa Shoni
erano rimasti in contatto, mentre l’assistente era scomparsa.
Hiram
si strinse nelle spalle: forse era andata a concludere il suo dottorato con un
medico meno sperimentale, che le insegnasse quello che era normale sapere e che
la rendesse, un giorno, qualificata per la professione che aveva scelto. Una brava
ragazza, la sua assistente.
Hiram
sta bevendo l’ultimo sorso di vino, quando un ricordo emerge dal suo inconscio.
Athira. Ecco qual’era il suo
nome. Athira.
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Chi
l’avrebbe mai detto? Chary è ancora viva! Sul serio?! Nah, forse sono voci di
corridoio…
No,
ragazzi, la mia astronave non è stata fatta a pezzi dai Collettori e Cerberus
non mi ha ricostruita, tuttavia c’è una possibilità sostanziale che mi sia
appena svegliata dal coma XD
Scherzi
a parte, pare sia destino che io non riesca mai a completare quello che inizio,
ma stavolta ce la metterò tutta. Voi metteteci la vostra dose di pazienza, se
credete che ne valga la pena.
Inutile
che accampi scuse per motivare la mia sparizione - tanto, ce n’è una sola
davvero valida: l’assenza totale di ispirazione -, quindi mi limito a chiedere
scusa per quella che non è la prima e che temo non sarà l’ultima volta. Abbia
pazienza!
Chary
vi vuole bene!!
Char---