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Autore: Marti Lestrange    09/04/2013    1 recensioni
*Dalla storia: "Da quel giorno, non ho amato più. Da quel giorno, il mio cuore si è come ibernato, in attesa di te."
Piccola shot dedicata a Frida.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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A Frida:
ti voglio bene.




˜ Just let me go we'll meet again soon.
 
 
 
 
"Ci sono cose, piccole cose
che non dimenticherò,
che sono niente e che invece
restano più forti di tutto".
~ M. Mazzantini.
 
 
 
Ricordo ancora la prima volta in cui ci siamo rivisti. 
Io stavo seduta al tavolino di un vecchio caffé in via Po. Studiavo e scrivevo un tema di letteratura, bevevo del tè ai frutti rossi e intanto pensavo a quando sarei tornata a casa, al mio telefilm preferito con i sottotitoli, alla mia coinquilina che mi aspettava sul divano e a quella pizza condivisa sul pavimento della cucina.
Pensavo a tutto e a niente, mentre le parole scorrevano via lente e pesanti, e mai mi erano sembrate così ingombranti, inutili zavorre che mi trascinavano giù, invece che strumenti indispensabili o elementi di una magica poesia. Ho sempre amato le parole.
Il tè era quasi finito quando la tua voce allegra ha raggiunto le mie orecchie. Una voce che non sentivo da tanto tempo, da quel giorno in cui, passeggiando sul lungo Po, mi hai detto che saresti partito per tornare a casa, in Inghilterra, e le nuvole hanno oscurato il sole e il respiro mi ha abbandonata.
Da quel giorno, non ho amato più. Da quel giorno, il mio cuore si è come ibernato, in attesa di te.
 
 
~
 
 
 
˜ Torino, ottobre 2012
 
"Sei sempre uguale".
"Anche tu".
Mi guardi, mi osservi, soppesi il mio volto, scorri sulle mie labbra - che una volta erano tue - ti fermi negli occhi.
Ti siedi senza nemmeno chiedermi il permesso, con naturalezza, come hai sempre fatto, come quando mi raggiungevi a letto, la domenica mattina, con il caffé, e ti sdraiavi tra le mie lenzuola, impregnandole del tuo odore, che non spariva mai.
"Studi sempre".
"È la mia vita," rispondo indicando i fogli e i quaderni e i libri mezzi aperti. "Ho quasi finito, manca poco alla laurea".
Annuisci, come uno che sa tutto di me, come se quell'anno non fosse mai passato veramente, come se tu fossi sempre stato qui, dietro l'angolo.
Ordini un caffé, deciso a restare, almeno per una mezzora. 
"E tu?" chiedo, incapace di restarmene lì, a guardarti, impalata, senza dire una parola, come due estranei seduti allo stesso tavolo perchè il locale è affollato e quindi "mi scusi, posso sedermi qui con lei per un caffé rapido, non la disturberò". Nei film, una considerevole percentuale di storie d'amore epiche e da "happy ending" inizia così, al tavolo di un bar. Nella vita, è così che le storie d'amore finiscono. 
 
 
˜
 
 
"In Inghilterra era tutto diverso," rispondi sorseggiando un caffé lungo, forte, proprio il tuo preferito. "Non ho ritrovato quello che credevo di aver perso. Non c'era niente per me, lì, che valesse la pena di restare per sempre".
Ti ascolto, ti guardo, giro e rigiro il mio tè ormai ghiacciato. Non capisco che cosa tu voglia dire, sai? Vuoi forse farmi intendere di aver sprecato un anno della tua vita - della nostra vita, di noi - in un posto nel quale non hai trovato nulla di nulla? In un posto nel quale non sei voluto restare? Come è possibile, quando solo un anno fa ti sembrava la soluzione al tuo male di vivere, quando quella soluzione sarei potuta essere io, quando ti ho offerto il mio cuore e tu lo hai dato in pasto al destino?
"Non capisco cosa tu voglia dire, sai?" ti chiedo, cominciando a chiudere i libri e a riporli nella mia borsa a tracolla della Eastpak, quella a fiori, quella che abbiamo comprato insieme. Noto che la osservi e so che ricordi. So tutto del tuo sguardo.
"E io non capisco perchè tu te ne stia andando, Federica," mi dice, poggiando la mano sulla fronte, passandosela nei capelli, proprio come facevo io mentre ti baciavo.
"Me ne sto andando perchè è tardi, comincia a fare buio, fa freddo e ho finito, voglio andare a casa, voglio..." mi interrompo, le parole mi si mozzano in gola, e rimangono lì, come un nodo troppo pesante da mandare giù.
"Pensavo..." cominci.
"Pensavi a cosa?" esclamo sbattendo la borsa sul tavolino e facendo girare quelli del tavolo accanto. 
"Pensavi a cosa, eh?" ripeto a voce più bassa. "Pensavi che riapparendo nella mia vita così, come un miraggio, io ti avrei riaccolto a braccia aperte, come un soldato tornato mutilato dal fronte di guerra? Non ho intenzione di rimettere a posto i tuoi cocci, George, e nemmeno ce la farei".
Già, non ho intenzione di riattaccarti il braccio o la gamba perduti in battaglia. Non ho intenzione di ricucirti come una bambola spezzata. Ho finito l'ago e il filo, ho esaurito le forze e il mio cuore comincia a scricchiolare, tremante. Prima o poi si spezzerà davvero, e niente e nessuno sarà qui per rimetterlo insieme.
 
 
˜
 
 
"Aspetta," gridi rincorrendomi lungo il marciapiede, scansando una coppia di anziani signori e un ragazzino con un cane.
Mi volto, ti guardo e l'unica cosa che so fare è andare avanti. Cammino, la borsa che mi batte sul fianco, il peso dei libri che mi ricorda chi sono, e un cipiglio severo in volto. So che, se mi girassi di nuovi, ti aspetterei. 
"Fede, mi vuoi stare a sentire, per favore?" esclami agguantandomi per un braccio e trattenendomi. 
Mi fermo, e fisso i pietroni che compongono la pavimentazione, mi soffermo sulle fughe, su quel filo nero che si rincorre, su una formica che scappa poco lontano.
"Mi dispiace".
Io alzo il viso su di te, incredula. 
Mi dispiace è tutto quello che sai dirmi?, penso. E poi?
Io scuoto la testa, mi giro per andarmene, ma tu continui a trattenermi. Mi prendi una mano, e continui a tenerla nella tua.
"Mi dispiace davvero," continui. "Sono uno stronzo e un cretino, lo so. Lo sono stato, quando ti ho lasciata per andare via. E lo sono ancora adesso, trattenendoti qui, ma ho bisogno del tuo perdono. Ho bisogno di sapere che non mi odi, tutto qui. Ti capisco se non vorrai più vedermi".
Ti guardo, leggo il tuo viso, rifletto sulle tue parole. 
Non ti odio, scemo, penso. E vorrei davvero gridartelo in faccia, lì in mezzo a via Po, dove tutti possono sentirmi e ridere o magari sorridere, chi lo sa. 
Mi limito a stare in silenzio, prima di decidermi.
"Non so se ce la faccio," sussurro. "Non ci riesco...".
Mi guardi, ferito, colpito - triste?
Non lo so, non lo so più, non so più niente di te, me ne rendo conto quando una smorfia sconosciuta ti si dipinge in volto.
"Che cosa speravi?" continuo, e lo so che questa mia domanda suona cattiva, e non me ne importa di infierire, di ferirti, anche se una volta avrei fatto di tutto per farti sorridere.
"Non lo so," rispondi passandoti di nuovo una mano tra i capelli, lasciando andare la mia, che mi ricade lungo il fianco come un peso morto, afflosciata e inanimata. "Non so più niente...".
Nonostante tutto, riusciamo ancora a pensare le stesse cose.
"Mi hai ferito, George," aggiungo. "Mi hai spezzato il cuore, lo sai?".
Mi guardi, la bocca leggermente dischiusa, quell'espressione da pesce lesso che ho sempre odiato dipinta in faccia. Ti schiaffeggerei volentieri, in questo momento.
"Io non..." cominci. "Non pensavo che...".
"Che cosa?" lo interrompo. "Non pensavi che fossi innamorata di te? Beh, ti sei sbagliato. Ti sei sbagliato così come ti sei sbagliato ad andartene via. E adesso non puoi tornare indietro. Non puoi".
"Allora è finita davvero?" chiedi dopo una pausa.
Abbasso lo sguardo, do un calcetto a un piccolo sassolino e annuisco.
Mi azzardo a guardarti: hai gli occhi leggermente lucidi, quegli occhi azzurri così splendidi e limpidi che sembrano pezzi di mare, quegli occhi che ho sempre amato e che non smetterò mai di amare, nonostante il mio cuore spezzato e la mia anima lacerata. Forse ti amerò sempre, George. Dentro di me rimarrà sempre un angolo in cui ti amerò, in cui stiamo insieme, in cui siamo felici. In cui non sei mai partito. 
 
 
˜
 
 
˜ Torino, giugno 2014
 
Il cielo è di un azzurro intenso, stamattina. Poggio a terra il vaso con le violette e osservo la mia piccola esposizione esterna. Le genziane sono fiorite, il glicine si arrampica pigro lungo la grata appesa al muro, le rose e le calle sorridono e quella vividissima pianta di nontiscordardimè brilla alla luce del sole di giugno.
Rientro in negozio per prendere l'ultimo vaso di ortensie e ti vedo. Cammini sul marciapiede di fronte, proprio oltre la strada a quell'ora tranquilla. 
Indossi un vecchio paio di jeans scoloriti e una felpa blu. Le scarpe da ginnastica sono le stesse, logore Converse All Star che lasciavi sempre in giro, e che puntualmente perdevi. Una volta erano sotto il letto, l'altra volta sul davanzale. I capelli sono tagliati più corti, porti un paio di occhiali da sole, ma sei sempre lo stesso. 
Allora sei rimasto, penso.
Proprio in quel momento ti giri, e forse mi guardi. Chi lo sa, se dietro quelle lenti scure i tuoi occhi stanno guardando me, oppure la strada di fronte o il cielo.
Capisco cosa sta succedendo quando attraversi la strada correndo e mi vieni in contro. Ti togli gli occhiali mentre io stringo ancora il vaso di ortensie viola tra le braccia, facendomi coraggio.
"Federica?" chiedi, incredulo. "Sei proprio tu".
Annuisco e mi scappa un sorriso.
"In carne e ossa," rispondo.
"Sono contento di rivederti," esclami sorridendomi. 
Mi osservi, come hai sempre fatto. Nessuno mi ha mai guardata così, lo sai? Non più.
"Che ci fai qui?" esclamo amichevole, decisa a lasciarmi il passato doloroso alle spalle.
"Passeggiavo," rispondi stringendoti nelle spalle. "vagavo di qua e di là, senza una meta precisa. È da tanto che non capito in questa zona... È bello, qui".
Annuisco, lanciando un'occhiata al marciapiede di fronte al quale si apre il mio negozio di fiori.
"Sì, è bello e tranquillo".
"Il posto ideale per un negozio di fiori," aggiungi, lanciando un'occhiata attenta al piccolo locale profumato di lavanda alle mie spalle. Poi alzi lo sguardo sull'insegna, su quella tenda azzurra sbiadita da sole.
"Frida's," leggi, attento, soppesando la parola. "Non dirmi che...".
Gli sorrido. Ti ricordi quanto quel nome significhi per me, allora. Ricordi tutto.
"Sì, è mio," rispondo, felice di mostrargli il mio mondo. "Ho lavorato qui per sei mesi, poi la precedente proprietaria mi ha proposto di rilevare l'attività. Ed eccomi qui: una laureata in lingue straniere che possiede un vecchio negozio di fiori".
Mi sorridi, lanciando ancora uno sguardo al negozio.
"Mi piace. È da te".
Ed eccoci qui.
Basta che tu dica due frasi per ritrovarmi senza fiato. Il cuore comincia a battere all'impazzata, è come se fosse matto da legare.
"Senti", cominci, "lo so che potrà sembrarti strano, e inappropriato, ma ho davvero voglia di fare due chiacchiere con te. Da amici. Sentire le ultime novità, sapere come stai. Me la puoi dedicare, un'oretta del tuo tempo? Solo per un gelato".
Come al solito, abbasso lo sguardo e incontro le mie ortensie. Le annuso, e poi poso il vaso a terra, accanto alle roselline.
"Stacco alle dodici e trenta," rispondo sorridendo.
Il tuo viso si apre in un sorriso, solare e pieno. Cavolo, ha ancora il potere di ammazzarmi.
"Ci vediamo alle dodici e trenta".
 
 
˜
 
 
˜ Torino, aprile 2015
 
Ti accarezzo i capelli. Dormi ancora, la faccia spiaccicata sul cuscino dalla federa a fiorellini, quella comprata insieme all'Ikea durante quel lungo pomeriggio piovoso, ti ricordi?
Scendo piano piano sulla tua guancia. La tua pelle è calda e morbida, e un sottile velo di barba comincia a farsi strada sul tuo viso.
Mi alzo e mi inoltro in cucina, in mezzo ai mille scatoloni che ancora sono parcheggiati in giro per casa - casa nostra. Abbiamo traslocato circa quattro mesi fa, ma ancora è tutto in alto mare. Forse a causa del mio disordine cronico, della tua leggerezza, dei mille rullini ancora da sviluppare che dissemini in giro senza un criterio. Forse è perchè ancora non ce ne rendiamo conto e vogliamo vivere tutto con lentezza, passo dopo passo, e godere di ogni particolare. Come quando ti ho osservato appendere le tende in cucina, quelle azzurre. Come quando hai rifatto il letto tutto da solo e mi è scappato da ridere quando hai dimenticato il pigiama in mezzo alle coperte. Come quando abbiamo fatto l'amore sul bancone della cucina ancora mezza da montare, tra un trapano e una scatola di piatti vintage regalo di tua nonna.
L'odore del caffé ti porta da me. Mi abbracci, cingendomi la vita da dietro e nascondendo il viso in mezzo ai miei ricci scuri.
"Sei l'amore, mentre prepari il caffé, lo sai?" mi sussurri, con quell'espressione tutta mia che tu hai saputo fare tua con così dolce naturalezza, come se avessimo vissuto insieme da sempre.
"E tu sei l'amore quando mi abbracci così," rispondo girandomi e abbracciandoti, depositando un lieve bacio sulle tue labbra, bacio che si fa subito più intenso, ma che interrompiamo per goderci il caffé.
Usciamo sul piccolo terrazzino e ci sediamo sulle nostre due piccole poltroncine in vimini che ho recuperato da casa dei miei. Il sole batte sui nostri visi e non c'è niente di meglio di questo, al mondo.
Una mezzora passa e se ne va, ed è ora di uscire per andare al lavoro. Dopo aver indossato un paio di jeans e una camicetta rosa, agguanto la mia borsa di Desigual - il tuo regalo per lo scorso compleanno, che adoro con tutta me stessa -, ci metto dentro una mela, una bottiglia d'acqua e il mio inseparabile taccuino e sono pronta.
"Ci vediamo per pranzo, come al solito?" ti chiedo.
"Certo. Stamattina sarò in giro a fare qualche foto, mi sento ispirato".
Ti sorrido. Vederti felice è la cosa più importante. E se tu sei felice, lo sono anche io. Lo so che è banale, e già sentito, ma è la cosa più semplice e vera che sia mai stata detta. E io ci credo.
"A dopo, allora," sussurro sulle sue labbra prima di baciarlo.
"A dopo, Frida".
 
 
 
Marti's
Ecco qui una piccola shot dedicata alla mia Frida, perchè è una persona speciale, e le voglio bene. Un ringraziamento speciale va a Cat, che mi incoraggia sempre.
Ringrazio chi ha letto fin qui.
Love love love
   
 
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