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Autore: SeleneLightwood    19/04/2013    4 recensioni
Blaine Anderson ha diciannove anni ed è uno studente di letteratura alla NYU, scrittore in crisi da pagina bianca.
Quando una sera è sul punto di arrendersi, il protagonista del romanzo che sta scrivendo da una vita salta fuori dalla storia e finisce nel suo soggiorno, ricoperto di scritte e grondante d'inchiostro.
Che succede quando ti innamori di qualcuno che non esiste?
"Ci sono delle volte in cui Blaine riesce ancora a sentire l'odore di carta e inchiostro sulla pelle di Kurt".
Genere: Malinconico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
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PAPER AND INK

 

Quattro

Blinding lights

 

 

*

 

New York City, East Village,

23 settembre 2013

 

 

­­­­­­­­­­­L’alba portava sempre con sé nuove consapevolezze. Forse era il sorgere del sole, l’idea di svegliarsi al buio ed ammirare il modo in cui, un raggio alla volta, la stanza si illuminava di vita; forse era semplicemente il fatto che Blaine amava sedersi sul davanzale della finestra della sua camera per vedere la luce nascere la mattina e morire al tramonto senza mai riuscire a frenare i ritmi della città che non dorme mai.

Quella mattina, tuttavia, il cielo era grigio piombo, evidente preludio ad un altro temporale autunnale: il vento faceva scricchiolare i cardini delle finestre e le prime gocce di pioggia avevano già schizzato i vetri. Blaine si era svegliato dieci minuti prima che suonasse la sveglia e si era ritrovato immerso nella luce opaca emanata da quel grigio improvvisamente tetro e compatto, privo di sfumature, semplicemente poco più che bianco.

Una nuova consapevolezza era arrivata anche senza la luce. Era scivolata lentamente attraverso la nebbia che si era posata sulle strade, tra una goccia ed un’altra, lungo gli inesistenti raggi di sole, fino a Blaine: Kurt esisteva.

Non sapeva perché, come, o cosa sarebbe successo dopo, ma non importava perché quello che contava era adesso. E adesso Kurt dormiva nell’altra stanza, era timido, dolce e spaventato e senza un posto dove andare – né un posto dove tornare.

Non potevano chiedere aiuto a nessuno. Blaine avrebbe potuto telefonare a sua madre, certo, ma a quale scopo? Lei non avrebbe capito, non avrebbe saputo come aiutarlo proprio come non ci era riuscita mesi prima, quando Blaine aveva avuto bisogno di lei, dopo la morte di Christine.

Christine era morta. Non avrebbe potuto aiutarli in alcun modo.

Non potevano far altro che avanzare un passo alla volta nella speranza di trovare una soluzione durante il tragitto. Non potevano certo aspettare tutta la vita che Kurt venisse risucchiato di nuovo dal libro. Tutta la vita era un tempo discretamente lungo.

Blaine soffocò uno sbadiglio e scivolò fuori dal letto, passandosi una mano tra i capelli sparati in tutte le direzioni. Il suo cellulare segnava già due chiamate perse da Sebastian, ma le ignorò miseramente, inserendo la vibrazione. Al momento aveva cose più importanti per la testa.

Si diresse verso il soggiorno mentre la pioggia iniziava a cadere violentemente: Kurt era ancora profondamente addormentato sul divano.

Era steso a pancia in giù e aveva affondato il viso tra il cuscino e il braccio nudo, finendo per intrecciarsi con la coperta dalla vita in giù; la maglia di Blaine gli stava un po’ grande – Kurt era più alto, ma aveva le spalle più strette – così durante la notte doveva essergli scivolata lungo la spalla, lasciandogliela scoperta quel tanto che bastava da intravedere le scritte lungo le scapole.

Blaine si fermò un attimo ad osservarlo, intenerito. Il sonno aveva disteso le rughe di preoccupazione e paura sul suo viso e finalmente sembrava tranquillo.

È carino, si ritrovò a pensare osservando il fisico sinuoso ed i ciuffi disastrosi che gli ricadevano sul polso.

C’era qualcosa in lui che meravigliava Blaine: nonostante avessero passato insieme molto meno di ventiquattro ore riusciva a cogliere sprazzi della personalità di Kurt che non aveva mai scritto o dettagli della sua vita che mai avrebbe immaginato.

Dopotutto non c’era da stupirsi di questa scoperta: il Kurt Hummel che ora dormiva placidamente di fronte a lui era molto più del personaggio che Blaine aveva creato, mille volte più intenso del pallido fantasma che aveva immaginato scendendo quella scalinata della Dalton un lontano giorno qualunque.

Per qualche incomprensibile motivo, più lo guardava più sentiva il bisogno di proteggerlo, di conoscere ogni aspetto della sua vita, della sua personalità brillante e travolgente, di rimanere per ore a contemplare la curva delle labbra, il naso all’insù, la pelle chiara. Chi l’avrebbe mai immaginato che Kurt avesse qualche lentiggine qua e là?

Era stato stupido a pensare di conoscere il suo personaggio come le sue tasche. Di fronte a lui c’era qualcuno che era semplicemente di più.

Era un po’ come provare a suonare un brano di Mozart senza averlo mai ascoltato prima. Poteva coglierne i tratti fondamentali, certo, ma non le sfumature, non i dettagli mozzafiato o i crescendo al momento giusto, non il cuore.

Kurt era questo: un’anima talmente vitale da togliere il fiato, fatta di miliardi di sfumature in contrasto con il cielo plumbeo prima di un temporale. Un’anima che Blaine, fino a quel momento, aveva colto solo in parte. Una melodia suonata a metà.

 


 

Quando Blaine tornò in sala una decina di minuti dopo trovò Kurt sveglio ed intento a stiracchiarsi come un gatto al sole, flettendo le braccia dietro la testa e scostando appena la coperta con una gamba.

“Buongiorno” disse con voce tranquilla, sperando di non spaventarlo. Kurt si voltò velocemente verso di lui e gli rivolse un sorriso un po’ triste, come se la presenza di Blaine fosse la conferma che quello che stava vivendo non era solo un brutto sogno ma la realtà.

“Buongiorno” rispose, alzando timidamente una mano a mo’ di saluto. “Posso riprendere a ringraziarti per l’ospitalità, adesso, visto che stanotte non me l’hai lasciato fare?” aggiunse alzandosi in piedi ed avvicinandosi a Blaine a passo felpato.

Le parole incise sul suo corpo sembravano vivide esattamente come il giorno precedente.

“Assolutamente no”. Blaine si lasciò sfuggire un sorriso quando Kurt fece una smorfia di fronte al proprio riflesso sullo specchio della sala. Si strinse nelle spalle. “Però puoi preparare la colazione, se vuoi. Mi pare di ricordare di aver letto che sei un ottimo cuoco”.

Kurt sorrise raggiante, distogliendo lo sguardo dallo specchio, e batté le mani, lasciando che la t-shirt gli scoprisse di nuovo la spalla. “Oh, vedrai! Preparati a dipendere dalle mie frittelle, Blaine”.

Blaine si sciolse nel modo in cui Kurt pronunciò il suo nome e lasciò che la stranezza del loro rapporto scivolasse oltre. “Vediamo che sai fare, Hummel”.

Kurt era già arrivato sulla porta della cucina quando si voltò e gli gettò un’occhiata pensierosa da sopra la spalla.

“Per caso hai della crema idratante che posso prendere in prestito dopo?” chiese passandosi una mano sulla guancia priva di barba. “Il mio regime di pulizia della pelle non può saltare solo perché sono in un universo parallelo”.

Blaine scoppiò a ridere e scosse la testa. “Nel terzo cassetto del mobiletto del bagno. Sei fortunato, il mio migliore amico è fissato con le creme idratanti francesi”.

Gli occhi azzurri di Kurt luccicarono un po’ più di soddisfazione e un po’ meno d’ansia. “Fa bene” fu il suo unico commento.

 


 

Intorno all’anulare della mano sinistra di Kurt, proprio come se fosse il cerchio di un anello, c’era una frase. Blaine riusciva a vederla perché aveva passato gli ultimi dieci minuti a fissare le mani di Kurt sfiorarsi lentamente l’una contro il dorso dell’altra – un gesto che il ragazzo sembrava compiere spesso, soprattutto quando era a disagio o non sapeva cosa dire. Un altro dettaglio da aggiungere alla melodia – anziché prestare attenzione al suo saggio di inglese.

Erano seduti ai lati opposti del bancone della cucina, uno di fronte all’altro: Kurt aveva ritardato il fatidico momento il più possibile, ma alla fine si era fatto coraggio e aveva chiesto a Blaine di poter leggere la sua storia; Blaine lo aveva riempito di raccomandazioni e frasi inutili prima di passargli il computer portatile e la scatola con tutti gli appunti.

“Se vuoi – compagnia mentre leggi, insomma, io sono in cucina a fare un saggio per l’Università, uhm” aveva balbettato, prendendo un nuovo pacco di post-it dalla scrivania. “Ecco, sì, sono di là”.

Le labbra di Kurt si erano piegate leggermente all’insù e l’aveva seguito docilmente in cucina, arrampicandosi sullo sgabello e immergendosi nella lettura con un respiro profondo, come se si stesse preparando piuttosto per stare sott’acqua.

Così Blaine aveva finito per farsi distrarre dalla presenza di Kurt di fronte a lui e dalle sue dita affusolate che scivolavano sulla pelle ricoperta di parole, dimenticando completamente Dickens e il saggio.

“Blaine” mormorò Kurt ad un certo punto, alzando gli occhi dallo schermo per posarli su di lui. Blaine arrossì e distolse in fretta lo sguardo dalle sue mani. Fa che non si sia accorto che lo sto fissando da mezz’ora.

Kurt girò verso di lui il computer con un’espressione indecifrabile in viso e posò proprio il polso a pochi centimetri dalla sua mano. “Guarda qui, è la stessa identica frase. Avevi ragione”.

Blaine sfiorò delicatamente il tendine lungo l’interno del braccio di Kurt con l’indice, confrontando le parole.

Sometimes you can’t make it on your own, erano quelle incise sulla pelle.

Nel documento la frase continuava: “Sometimes you just want something or someone to believe in when God doesn’t seem to be enough. But the only thing Kurt believes in is his father, and the truth is that Burt might not wake up.”

“A volte non puoi farcela da solo” lesse Kurt con voce tremante. “A volte vuoi solo qualcosa o qualcuno in cui credere quando Dio sembra non essere abbastanza. Ma l’unica cosa in cui Kurt crede è suo padre, e la verità è che Burt potrebbe non svegliarsi”.

“Ti fa venire in mente qualcosa?” chiese cautamente Blaine, lasciando andare la sua mano.

Kurt si morse il labbro inferiore e si fece improvvisamente pensieroso. “Beh, si tratta del periodo in cui mio padre ha avuto un infarto ed è finito in coma, quando avevo sedici anni” mormorò lanciando un’occhiata veloce a Blaine, che annuì per fargli capire che lo sapeva. Ma certo che lo sapeva. “E ricordo di aver pensato la stessa cosa. Qui, nel libro, non è una frase che dico ad alta voce, è semplicemente parte della narrazione, però ricordo di averla pensata, Blaine. Ero lì, seduto vicino al suo letto d’ospedale, e stavo pensando che se anche avessi creduto in Dio non sarebbe stato abbastanza; e che credevo in mio padre, ma l-lui non s-stava reagendo agli stimoli. N-non si stava svegliando”.

“Va tutto bene” cercò di rassicurarlo Blaine. Improvvisamente l’idea di fargli rileggere tutte le sofferenze che lui stesso gli aveva inflitto gli sembrò infinitamente idiota. “Poi si è svegliato, no? Ed ora sta bene e ha sposato Carole”.

Kurt annuì debolmente e tornò alla sua lettura in silenzio, lasciando Blaine tra i sensi di colpa. Passò un’altra ora e mezza prima che parlasse di  nuovo. Blaine aveva ormai definitivamente rinunciato a finire il suo saggio e aveva iniziato a girare ansiosamente per la cucina, fingendo di mettere a posto utensili mai usati prima, quando Kurt aveva richiamato di nuovo la sua attenzione.

“Eccone un altra” disse tirandosi su la manica del braccio sinistro e scoprendo l’avambraccio. Lungo la curva del gomito c’erano un altro paio di righe. “Stavolta è sul Glee Club” commentò Kurt facendo vagare gli occhi azzurri sullo schermo.

“Non è giusto” mormorò Blaine, leggendo le parole direttamente dalla pelle di Kurt. “Perché non può cantarla? È nato per questa canzone, è il perfetto riassunto della sua intera vita, è la sua canzone: cerca di sconfiggere la gravità da una vita”.

Di nuovo, la frase continuava nel libro con “Maybe he’s just tired fighting Rachel for solos. Let her have them all, he thinks. Mr Schuester won’t help him anyway: it is funny how he spend entire days talking about acceptance, joy, music and equality when he’s the first to say Kurt Hummel, a damn countertenor, cannot sing Defying Gravity because he’s a guy”.

“Ricordo anche questo” borbottò Kurt contrariato passandosi una mano tra i capelli perfettamente sistemati. “Insomma, succede sempre. Sono così stanco di fare la guerra a Rachel per tutti gli assoli. Tanto finisce per averli lei in ogni caso e il professor Schuester continua a blaterare di musica, uguaglianza, essere speciali, e poi è il primo ad impedirmi di cantare Defying Gravity perché sono un ragazzo”. Sbuffò sonoramente dal naso e Blaine non riuscì a non trovarlo adorabile. “Sono un controtenore, posso arrivare a quelle note tanto quanto lei, probabilmente meglio. Ho più fiato, fisiologicamente parlando. E sono vestito meglio di lei”.

Blaine tentò – senza successo – di nascondere una risatina in un colpo di tosse. Il personaggio di Rachel Berry era, dopo la temibile Sue Sylvester, uno dei più divertenti da scrivere. Tuttavia il suo talento causava un bel po’ di problemi a Kurt e alla sua scalata per il successo.

“Facevo anch’io parte di un Glee Club, quando andavo al liceo, quindi conosco bene la lotta per gli assoli” rivelò dopo un momento di pausa. Che male c’era nel condividere quel dettaglio, dopotutto? “Più o meno è così che ho conosciuto Sebastian, il mio migliore amico” mormorò cercando lo sguardo di Kurt. “Sì, insomma, ero il primo solista degli Warblers della Dalton Academy di Westerville”.

Kurt piegò la testa di lato, lasciandogli intravedere la frase sulla sua guancia, e parve di nuovo perso nei propri pensieri.

“È davvero molto brava” disse alla fine con un lieve sorriso, arrotolando la manica fino a coprire la scritta.

Blaine gli lanciò uno sguardo confuso. “Rachel Berry?”

“Tua nonna” rispose Kurt enigmatico. “Deve aver preso spunto dalla tua vita per – per scrivere questo. Ed è davvero molto brava. Certo, mi fa strano leggere certe cose, però devo ammettere che se non fosse un libro su di me, lo comprerei. Probabilmente diventerebbe il mio preferito”.

Non sapendo che dire, entrambi tacquero e Kurt si immerse di nuovo nella storia. Blaine tornò a far finta di riordinare la stanza, poi tentò di cucinare il pranzo. Ogni tanto lanciava qualche occhiata di nascosto a Kurt, più che altro per controllare le sue reazioni – o almeno così continuava a ripetersi nella sua testa – e scoprì che quando era pensieroso arricciava il naso in modo adorabile, che quando sorrideva di rado apriva la bocca, e che quando leggeva alcuni pezzi del libro, forse gli unici davvero felici, i suoi occhi si illuminavano.

Più Blaine passava del tempo in sua compagnia, più dettagli coglieva di lui. La cosa lo spaventava ed entusiasmava insieme. Chissà, forse col tempo sarebbe riuscito a cogliere tutte le sfumature.

 


 

Alla fine, senza nemmeno sapere come, si erano entrambi ritrovati sul divano, spalla contro spalla, a leggere insieme il sedicesimo capitolo.

Dopo un passaggio particolarmente doloroso riguardo al peggioramento del bullismo, inciso sulla pelle di Kurt proprio sopra la caviglia, Blaine si era seduto accanto a lui e gli aveva passato una coperta, cercando di distrarlo e chiacchierando di altro. Aveva finito per raccontargli, a grandi linee, la storia del suo bullismo, della sua fuga alla Dalton dopo l’incidente del Sadie Hawkins, di come molte volte si sentisse come in una gabbia dorata.

Lui aveva ascoltato attentamente, negli occhi azzurri uno sguardo talmente comprensivo da far male. Alla fine aveva aggiunto un paio di episodi al racconto, scorrendo con il mouse la storia fino a tornare indietro e dimostrare per l’ennesima volta che Blaine non sapeva tutto di Kurt Hummel.

Affatto.

Per esempio, non sapeva di quella volta in cui, alle medie, alcuni ragazzi più grandi lo avevano chiuso in un armadio*. Kurt non aveva mai detto niente a nessuno, nemmeno a suo padre. Blaine non l’aveva mai scritto, non ne aveva idea.

Era rimasto lì quando Kurt aveva iniziato il capitolo successivo, commentando di tanto in tanto qualche paragrafo o qualche frase, ignorando la terza chiamata di Sebastian della giornata e il temporale che ad un certo si era affievolito, trasformandosi in pioggerellina delicata.

 


 

Segreteria Telefonica del 25 Gennaio 2010

Speeeeak.

Blaine, sono io, mamma. Ha chiamato l’ospedale, perché accidenti sei al pronto soccorso? Non dovresti essere al Sadie Hawkins Dance con quel tuo – mhm, amico? Tuo padre ed io siamo in riunione per un importantissimo contratto, non possiamo muoverci di qui. Nonna sta arrivando. Cos’hai combinato stavolta? Il dannato telefono, Blaine, accendilo ogni tanto, eh?

 

Christine era stata la prima a raggiungere l’ospedale, quella notte di diversi anni prima. Nonostante il numero di emergenza di Blaine fosse quello di suo padre, era stata lei a correre attraverso il pronto soccorso, scavalcando medici, pazienti ed infermieri fino a raggiungere la sua stanza.

Camera 411*, Blaine ancora se la ricordava, con quelle pareti bianche ed anonime, il dolore opprimente di due costole rotte, un polso slogato e l’orgoglio a pezzi, e gli infermieri che lo guardavano con pietà mentre gli ripulivano tutto quel sangue di dosso e disinfettavano i tagli che aveva in viso.

Sua nonna aveva spalancato la porta della stanza e Blaine aveva avuto ancora più paura di quanta non ne avesse avuta mentre lo picchiavano, mentre le grida di Josh, l’altro ragazzo, si affievolivano fino a spegnersi, mentre nell’ambulanza gli dicevano di rimanere sveglio, perché Christine manteneva sempre la calma, mentre in quel momento sembrava sul punto di rompersi in mille pezzi.

“Blaine” aveva singhiozzato senza fiato sedendosi frettolosamente sulla sedia di fianco al suo letto. “Va tutto bene, piccolo, va tutto bene”.

Blaine non si era accorto di star piangendo fino a quel momento.

 

“Perché non mi hai detto che le cose erano peggiorate, a scuola?” aveva chiesto dopo un po’, prendendogli la mano non fasciata con cautela e stringendola tra le sue per scaldarla. “O che saresti andato al ballo con un altro ragazzo? Avrei potuto accompagnarvi, venirvi a prendere, qualcosa”.

Blaine, forse per la vergogna, forse per l’anestesia che cominciava finalmente a fare effetto, non aveva risposto, limitandosi a scuotere la testa velocemente per scacciare le lacrime.

“Oh, tesoro” aveva sospirato sua nonna, tentando un sorriso incoraggiante. “Sistemeremo tutto, te lo giuro, ma devi promettermi che me lo dirai immediatamente, se dovesse succedere di nuovo”.

Blaine si era lasciato sfuggire un singhiozzo e aveva scoperto che con due costole rotte faceva male anche solo respirare. “Mi dispiace” aveva sussurrato. “Volevo – volevo cavarmela da solo”.

Christine aveva stretto delicatamente le sue dita intorpidite e gli aveva baciato la fronte. “Certe volte non puoi farcela da solo, Blaine. Certe volte devi lasciarti aiutare, devi volere qualcuno o qualcosa in cui credere, anche quando sembrano non essere abbastanza. Ci sono io, piccolo. Non ti lascerò da solo”.

Ma Blaine si era sentito un vigliacco, perché non era riuscito a smettere di avere paura.

 


 

New York City, East Village,

23 settembre 2013

 

Blaine non aveva mai smesso di avere paura. Era il motivo per cui si era nascosto alla Dalton, dopotutto.

Ora osservava Kurt di sottecchi, studiando la sua espressione tirata e controllata o il modo in cui il respiro gli si incastrava in gola in passaggi particolarmente dolorosi da ricordare, e non vedeva un personaggio sbiadito: vedeva un ragazzo fragile eppure spaventosamente coraggioso, qualcuno che condivideva la sua paura, che conosceva ogni angolo buio del dolore eppure non lo lasciava vincere, mai. Qualcuno che nonostante si trovasse lontano da casa, solo ed in difficoltà, andava avanti.

Lo invidiava.

Blaine non era mai stato davvero coraggioso: persino con Kurt non era riuscito ad essere sincero e confessare di essere l’autore del libro per paura della sua reazione. Prima semplicemente era scappato dalle situazioni che avrebbero potuto metterlo in gioco.

Guardando Kurt ora, incredibilmente impaurito, impossibilmente bello, iniziava ad avere voglia di smettere di essere spaventato e scappare dalle cose per le quali valeva la pena rischiare.

“Kurt?” lo chiamò piano, senza quasi distogliere gli occhi dallo schermo fino a che non fu lui a cercare il suo sguardo. Smettila di correre, Blaine. “Mancano solo due capitoli ed è quasi ora di cena” gli fece notare, costringendosi a non posare la mano sopra alla sua, per quanto la tentazione fosse forte.

Kurt sospirò e si stropicciò gli occhi, spostando il computer portatile dalle sue ginocchia al tavolino. “Hai ragione, ho letto tutto il giorno, per te dev’essere stato noiosissimo” si scusò mestamente, regalandogli uno splendido mezzo sorriso. I suoi occhi azzurri si illuminarono. “Posso cucinarti qualcosa per farmi perdonare?”

Ma Blaine aveva un’idea di gran lunga migliore. “Non voglio offendere le tue doti da cuoco, le ho già sperimentate e abbiamo già appurato questa mattina a colazione che sei ufficialmente assunto, però in realtà stavo pensando che magari noi due potremmo -  se ti va, naturalmente -  andare a cena. Fuori”. Gli occhi di Kurt si allargarono fino a raggiungere le dimensioni di due lampadine e lui si sentì meravigliosamente bene. “Hai detto che adori New York” spiegò, un po’ più tranquillo. “Quei due capitoli possono aspettare e non è che abbiamo nient’altro da fare stasera. Sarebbe un peccato andarsene senza non aver visto la città, non credi?”.

Kurt lo fissò per un istante, si girò lentamente verso la finestra ed infine di nuovo verso Blaine, sconvolto.

Poi lanciò un mezzo urlo e gli gettò le braccia al collo, cantilenando: “Grazie grazie grazie grazie!”

Blaine gli cinse la vita con le braccia quasi d’istinto, più per tenersi in equilibrio sul divano che altro. Fece scivolare le mani alla base della sua schiena e rise leggermente mentre Kurt cercava di strangolarlo e iniziava a parlare a velocità inumana. Stringere quel corpo tra le braccia lo fece sentire, per la prima volta da quando si era trasferito a New York, a casa.

Un po’ era l’allegria improvvisa del ragazzo, che evidentemente aveva bisogno di essere salvato dai vecchi ricordi dolorosi che il libro portava con sé, un po’ era perché non aveva mai stretto nessuno così, semplicemente perché sentiva il bisogno di farlo. Un po’ era il profumo della pelle di Kurt: shampoo, carta ed inchiostro.

Un po’ era semplicemente lui.

Kurt si staccò da lui, particolarmente rosso in viso, ma i suoi occhi brillarono di eccitazione.

“Oh, mio dio” esclamò coprendosi la bocca con la mano, sconvolto. “E adesso che mi metto?”

 


 

New York, nonostante la pioggia leggera ed i residui di nebbia ai margini delle strade, era una città fatta di luci accecanti.

Blaine aveva sempre desiderato vivere qui, fin da bambino. Sognava di poter avere un piccolo appartamento con delle ampie finestre per potersi sedere sul davanzale ed ammirare la città, far entrare la luce, trasmetterla nelle cose che scriveva. Quando era arrivato a New York e aveva visto quelle luci per la prima volta aveva pensato che fossero la cosa più speciale che avrebbe mai avuto la fortuna di vedere.

Si sbagliava, naturalmente.

C’era qualcosa di immensamente più bello. Quelle stesse luci, riflesse negli occhi meravigliati di Kurt, che aveva passato la serata a naso all’insù, intento ad assorbire le meraviglie di New York e riempire Blaine di domande sulla città, sulla sua vita, su tutto.

Per la prima volta, Kurt aveva conosciuto il vero Blaine.

“Dimentica il libro, per stasera” gli aveva gridato Blaine in cima al Rockafeller Centre per sovrastare il vento urlante, mentre ammiravano l’Empire State Building di fronte a loro e la notte che scendeva su New York City, accendendola di luci accecanti.

Kurt aveva sorriso ed aveva chiuso gli occhi e preso un bel respiro, come se stesse cercando di sentire la città.

Era quasi un balsamo, passare la serata a scherzare con lui dopo tante ore di tensione ed ancor prima un periodo faticoso costellato di fallimenti e sensi di colpa: Kurt aveva una risata contagiosa, sapeva essere dolce ed allo stesso tempo cinico ed ironico; non era affatto timido, aveva ben chiaro in mente ciò che voleva dalla sua vita e aveva tutte le intenzioni di ottenerlo; era una fiammella di vitalità e passione che nessuno era ancora riuscito a spegnere, una melodia che Blaine stava scoprendo pian piano. Era una persona compassionevole ed incline al perdono, innamorata della vita nonostante tutto; era qualcuno che Blaine desiderava conoscere sempre di più, sempre meglio.

Quando sarebbe tornato a casa, in Ohio – nel libro? - gli sarebbe mancato.

Perché Kurt non poteva rimanere. Vero?

 


 

Fecero ritorno all’appartamento di Blaine alle tre di notte, bagnati fradici a causa della pioggia e ancora scossi dalle risate.

“Non avevo idea che il Glee Club avesse messo su delle audizioni, il primo anno!” esclamò Blaine piegato a metà, infilando non senza difficoltà la chiave nella toppa. “E si è presentata davvero tutta quella gente ridicola?”

Kurt si asciugò una guancia e lo seguì in casa, spostandosi i ciuffi bagnati dalla fronte. “Assolutamente sì. Mi stupisce che nel libro non ci sia, è stato esilarante. Quei tizi vestiti da banane, poi” commentò con leggerezza, togliendosi la giaccia – la sua, miracolosamente pulita dall’inchiostro – ed appendendola con cura all’attaccapanni.

Si girò verso Blaine, che aveva le mani congelate e stava ancora litigando con gli alamari della sua giacca blu notte.

“Oh, santissima Gaga, sei un disastro, Blaine Anderson. Vieni qui” esclamò con un mezzo sorriso, camminando verso di lui ed aiutandolo a liberarsi dalla giaccia zuppa, non senza arrossire violentemente.

 “Grazie” sussurrò sinceramente Blaine lasciandolo fare e fissando un punto al di sopra della sua testa. “Non passavo una serata così da una vita”.

Gli occhi di Kurt brillarono di gioia e gratitudine. “No, grazie a te per avermi fatto vedere New York. E per la cena ed il caffè. E per l’aiuto in tutta questa faccenda, non sei obbligato a farlo, eppure lo stai facendo lo stesso. In pratica mi stai salvando la vita”.

Blaine tentò di scacciare i pensieri che gli suggerivano amaramente che prima glie l’aveva rovinata, la vita, e tentò un sorriso. “Evidentemente la mia era estremamente noiosa e banale, prima” commentò, rendendosi conto di aver detto la pura e sconcertante verità.

Kurt sorrise e liberò l’ultimo bottone, facendo un passo indietro come per ammirare la sua opera.

 “Domani mattina possiamo finire di leggere gli ultimi capitoli, poi pensiamo a cosa fare, d’accordo?” chiese Blaine appendendo la giacca di fianco a quella di Kurt ed ammirandole per un secondo lì, una vicino all’altra. Era – era una bella sensazione.

Kurt si morse il labbro, esitante. “Sei sicuro di non avere da fare per l’università, o cose del genere? Ti tocca farmi da babysitter, mi dispiace e-“

“Ma no” lo rassicurò Blaine per la millesima volta. “Te l’ho detto, ho tutte le intenzioni di aiutarti, quindi ti toccherà sopportarmi e cucinarmi le frittelle a colazione”.

Le guance di Kurt non avevano ancora abbandonato la loro tonalità rosso fuoco. Si avvicinò a Blaine cautamente e lo avvolse in un abbraccio leggero come una piuma.

“Grazie” sussurrò al suo orecchio, sciogliendosi tra le sue braccia. “E così vuoi diventare uno scrittore, come tua nonna” commentò Kurt senza muoversi. “Come mai? Cosa ci trovi di speciale nello scrivere da sapere che è ciò che vuoi fare del resto della tua vita? Insomma, io so perché voglio finire a Broadway, quindi cos’è per te scrivere?”

“È una sensazione magnifica” rispose Blaine socchiudendo appena gli occhi. “Come se stessi salvando il mondo una persona alla volta”.

“Dev’essere stupendo” mormorò Kurt, rabbrividendo tra le sue braccia quando Blaine si lasciò andare ed affondò il viso nella curva tra il suo collo e la spalla.

“Lo è” rispose Blaine inspirando profondamente il suo profumo. Carta e inchiostro. “Buonanotte, Kurt”.

 



 

   
 
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