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Autore: Yoko Hogawa    22/04/2013    18 recensioni
In un mondo in cui le persone nascono con il nome della propria Anima Gemella "tatuato" sul dito anulare della mano sinistra, John e Sherlock vivono due situazioni particolari ed opposte. Mentre il primo è costretto a nascondere il proprio nome per non essere discriminato, il secondo ne è totalmente privo.
In modi diversi, entrambi crederanno di essere destinati a rimanere soli.
Finché non si incontrano.
[SoulBond!AU]
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Bene, penultimo capitolo.
In teoria ciò che segue doveva essere tutt’uno con il precedente, ma considerando la lunghezza capirete perché ho deciso di spezzarli. Certe volte sono decisamente troppo prolissa.
E ho anche spostato l’ultima parte nel prossimo... sono senza speranza XD
 
Dunque: bravi a tutti quelli che hanno trovato gli easter eggs! Erano facili... praticamente tutte le identità che assume Sherlock sono ruoli recitati da Benedict Cumberbatch in diversi film/telefilm. Nel capitolo precedente erano James Kimberley Griffith (Third Star), Christopher Tietjens (Parade’s End) e Peter Guillam (Tinker Tailor Soldier Spy / La Talpa). Più qualche tributo a “Mio Diletto Holmes” (ce ne saranno anche qui ;D).
In questo ce ne saranno altri, ma li segnalerò in nota con relativi credits.
 
Come al solito, a chi vuole auguro buona lettura ♥

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4. Allegretto

 
 
 
 
 
Schiacciamento della cartilagine tiroidea.
Comunemente detto “colpo al pomo d’Adamo”. Insieme a pochi altri, è uno dei colpi immediati che permette di uccidere un uomo a mani nude.
Non tutti sanno che il pomo d’Adamo non è un osso, ma una cartilagine. Come il naso, o le orecchie. Tessuto molle semi-duro che, in questo caso, circonda la laringe, sede delle corde vocali e principale condotto di respirazione. Viene da sé che, se si spezza la cartilagine, il condotto collassa su se stesso.
Soffocamento.
In sede autoptica è indizio di strangolamento, o impiccagione.
Sherlock non sapeva perché aveva scelto proprio quel metodo per uccidere Jonathan Wild.
Dopotutto, aveva altre possibilità. Aveva una pistola, poteva recuperare un coltello. Erano da soli in quella pensione fatiscente ai margini di Lhasa, dopo che qualche banconota da 100 yuan aveva comprato il silenzio e l’assenza del proprietario e degli altri pochi ospiti, e Wild era stato talmente disattento da essere colto alle spalle e neutralizzato, ammanettato poi al sifone di un calorifero. Era inerme, spavaldo solo per non farsi vedere spaventato, e nella semi-oscurità di quella stanzetta lo aveva persino implorato; gli aveva dato informazioni di ogni genere senza che gli venissero chieste, aveva fatto i nomi di Spencer e Moran. Tutto di sua spontanea volontà.
Sherlock non aveva aperto bocca. Lo aveva osservato dall’alto in basso, in piedi a poca distanza da lui, annotando mentalmente le informazioni utili e scartando quelle inutili.
Subdolo, codardo essere umano, si era ritrovato a pensare: morto il capo, ognuno per sé.
In realtà non lo compativa. Non provava pietà per lui. Non sapeva esattamente cosa pensare, nel pieno di quella sorta di sorda tranquillità di chi si trova davanti qualcosa che ha agognato da molto tempo e ne rimane totalmente deluso.
Quando Wild capì che l’uomo di fronte a lui non era come tutti gli altri aguzzini che gli stavano alle calcagna da più di un anno, Sherlock aveva già alzato la gamba. I suoi studi di baritsu1 gli diedero la forza e la precisione che gli servirono per sferrare un colpo secco, un calcio da manuale, prendendo con la suola degli scarponi il centro esatto della gola.
Ed ora, Jonathan Wild si muoveva come un verme ai suoi piedi, agonizzante, impossibilitato a respirare. Sherlock sapeva che quegli occhi spalancati avrebbero perso il dono della vista entro pochi secondi, e che probabilmente l’udito gli si era già ovattato; la paura gli faceva bruciare più in fretta il poco ossigeno rimasto in circolo nel suo sangue e, continuando così, sarebbe morto prima del sopraggiungere dell’ipossia cerebrale.
Poco importava.
Sherlock Holmes non cercava vendetta, né tantomeno redenzione. Non era indifferente alla morte ma non la temeva. Per un fantasma è difficile diventare un assassino, e questo era lui da più di un anno: uno spettro. Una persona viva ma morta, nascosta dietro un nome fasullo a vivere una vita che non gli appartiene. Aveva tenuto il conto dei giorni senza accorgersene e l’unica cosa che infine voleva, l’unica cosa che gli importava davvero, era tornare a casa.
Non poteva farlo se prima non metteva fine alle vite di cinque uomini? Bene, lo avrebbe fatto. È fin troppo facile superare la linea sottile che divide la morale dalla necessità, e in casi estremi nella necessità non esiste alcun tipo di morale.
No, Sherlock Holmes non provava pena per l’assassino la cui vita si stava spegnendo in agonia ai suoi piedi. Gli bastava pensare che, almeno una volta negli ultimi due anni, le sua mano aveva stretto quella di Moriarty, i suoi servigi erano stati a disposizione del Napoleone del Crimine, il suo occhio aveva agganciato con un mirino una persona per lui importante.
Tanto bastava a trovare il fegato di veder morire un uomo per propria mano e assicurarsi che l’ultima cosa che avrebbe visto sarebbe stato il suo disprezzo.
 
 
 
 
Mary Morstan era un’insegnante di inglese.
Originaria di Manchester, si era trasferita a Londra con il suo precedente marito, morto in un incidente stradale un paio d’anni prima. Aveva cominciato a fare volontariato al St. Thomas come terapia per superare il lutto, ma poi non aveva più smesso. Le piaceva il caffè d’orzo, la lettura e mangiare al Mc Donalds. Le piaceva anche andare al cinema ma solo per vedere film horror e d’azione; la sua idea era che le commedie romantiche potessero essere viste anche in DVD o in televisione e non valessero mai del tutto le 9 sterline del biglietto d’ingresso. Aveva un gatto rosso di nome Oliver – tributo al film della Disney – e, nel tempo libero, le piaceva dipingere fiori con le dita.
John aveva scoperto tutto questo in circa un’ora di conversazione, seduto al tavolino di un Costa Café appena fuori Hyde Park. Si erano incontrati per caso al parco, quella domenica, e dopo qualche secondo di saluti imbarazzati John aveva fatto un passo avanti e l’aveva invitata a prendere un caffè (praticamente la prima cosa che gli era venuta in mente). Lei aveva accettato.
Si erano seduti dopo aver ordinato, e quei dieci minuti che John si era figurato erano diventati ore. Il suo Black Coffee ancora mezzo pieno si era raffreddato, nel frattempo, e lei aveva ordinato un secondo Vanilla Latte solo per non deludere la cameriera, che aveva preso ad osservarli di sottecchi.
Gli piaceva, parlare con lei. Aveva un sorriso che trasmetteva serenità e un modo di narrare gli argomenti che riusciva a trasformare le cose di tutti i giorni in particolarissime avventure. Era simpatica, intelligente e bene educata, e da come si esprimeva riusciva a capire che fosse anche molto acculturata, probabilmente per merito di tutti i libri che leggeva. Scherzando, aveva detto che suo marito una volta le disse “Mary, se non dovessi trovarti a casa rientrando dal lavoro, sicuramente ti ritroverei in una delle tue solite librerie”.
Sembrava serena anche nel raccontare del marito morto, e John non poté fare a meno di apprezzarla, per quello. Non era da tutti mettersi l’anima in pace a quel modo, rialzarsi in piedi e continuare a vivere dopo una perdita grave come la sua, e lui stesso ce la faceva a malapena, permettendo al suo dolore di riaffiorare a galla solo di qualche centimetro. Parlare di Sherlock, per lui, era come afferrare il tappo del vaso di Pandora e provare ad aprirlo; semplicemente, non si doveva fare.
Aveva paura di stuzzicare quel dolore, rinchiuso a forza di calci e pugni in un angolo dimenticato del suo subconscio. Preferiva l’indifferenza e l’abnegazione. Se non ci avesse pensato, se non l’avesse fomentato, o affrontato in alcun modo, era sicuro che prima o poi se ne sarebbe dimenticato, e insieme ad esso sarebbe sparito anche tutto il resto.
Un’opportunità per ricominciare. Ora come ora, voleva solo quello.
Era passato più di un anno, ormai. Ogni giorno l’immagine di Sherlock sbiadiva sempre un po’ di più dai suoi pensieri, la sigaretta durava sempre un po’ di meno, il gesto diveniva un po’ più abitudine e meno rituale.
Lo stava dimenticando, ed era bene così.
Finito il caffè, quando ormai si era fatta ora di tornare a casa, John prese una decisione.
Poteva essere un inganno, o un modo per illudere se stesso, o un tentativo di voltare le spalle a quel grumo scuro di auto-compatimento che gli picchiettava sulla spalla cercando di attirare la sua attenzione. Poteva essere di tutto, in realtà, ma di sicuro qualcosa di meglio. O almeno, in quel momento lo sembrò.
Invitò Mary a cena.
Lei disse di sì.
 
 
 
 

.o0o.

 
 
 
 
Hejrat, Iran.
Un anno e sei mesi.
Sherlock scese dalla jeep accaldato e stanco, la divisa incollata alla pelle a causa del sudore e le scarpe simili a due fornaci. I baffi gli pungevano il labbro superiore ogni volta che parlava e il colletto inamidato della camicia gli sfregava la pelle sotto ai capelli corti e castani.
Il sergente che lo era venuto a prendere al confine con l’Iraq – distante solo qualche chilometro – scese dal veicolo e lo accompagnò all’interno di un edificio senza finestre, abbandonato e mezzo diroccato, ma funzionale come base operativa temporanea per la piccola task force dell’esercito inglese. Fuori, nel cortile brullo e sabbioso, alcuni soldati erano seduti con i fucili in grembo a giocare a carte all’ombra di una rete mimetica color cachi.
Percorsero una breve rampa di scale, poi un corridoio stretto e malridotto. Crepe di diversa misura tagliavano le pareti da cima a fondo, facendogli dubitare dell’effettiva stabilità strutturale dell’edificio. Gli architravi erano tutti senza porte e schegge di legno azzurro erano disseminate, fra la polvere, per tutto il pavimento.
Doveva essere stato un edificio governativo di qualche tipo, un tempo. Prima della guerra, almeno.
Percorsero tutto il corridoio fino all’ultima porta, davanti alla quale il sergente gli fece cenno di attendere fuori. Lo sentì annunciarlo all’occupante della stanza poi, ricevuta risposta positiva, uscì di nuovo e gli fece cenno di entrare, allontanandosi subito dopo.
Sherlock entrò.
La stanza era bene illuminata e completamente spoglia se non per un tavolo di legno esattamente al centro, su cui erano spiegate mappe e cartine d’ogni tipo, e uno schedario in acciaio ammaccato su un lato. L’unico occupante, un uomo alto e stempiato con i gradi da Capitano e la mimetica color cachi, si mise sull’attenti non appena varcò la soglia.
Sherlock imitò il gesto. « Riposo » disse poi.
L’altro si rilassò, allungandogli la mano in saluto. « Capitano Steven Miggs » si presentò.
Sherlock la afferrò con una stretta salda, mantenendo le spalle dritte. « Maggiore Jamie Stewart » disse a sua volta.
« Benvenuto, Maggiore. Sono stato informato dai miei superiori riguardo alle motivazioni della sua visita. Com’è stato il viaggio? » domandò quello.
Sherlock pensò bene a cosa rispondere e come. L’idea di Mycroft di infiltrarlo nell’esercito con l’identità di un ufficiale faceva acqua da tutte le parti, ma non avevano trovato niente di meglio. Dopo mesi di nulla assoluto era riuscito a carpire qualche voce, informazioni sparse su avvistamenti di un uomo corrispondente alla descrizione di uno degli scagnozzi di Moriarty, e si era attaccato alla pista come un segugio, seguendola fino a che l’odore non era diventato più forte e i sussurri più chiari. Una volta sicuro che uno degli uomini che cercava era invischiato in un caso di contrabbando di uranio fra Russia e Iran, aveva comunicato a suo fratello le sue scoperte e lui se ne era uscito con quel piano pieno di buchi.
Ma praticamente l’unico fattibile in poco tempo. Il Regno Unito aveva pochi appoggi politici in zone di guerra, o di guerriglia, e l’unico servizio collegato effettivamente al Paese era l’esercito. Non avevano avuto altra scelta se non rischiare il tutto e per tutto.
« Caldo » rispose dunque Sherlock, facendo il giro del tavolo con le mani giunte dietro la schiena. Cercò di non dimostrare il passo incerto della stanchezza, la sua migliore amica da quando aveva cominciato la vera caccia ed era stato costretto a lasciare Lhasa.
« Dopo un po’ ci si abitua » disse semplicemente il Capitano, avvicinandosi a sua volta. Non appena fu di fronte alle cartine, la serietà militare riprese il sopravvento e Sherlock capì subito che non c’era più spazio per i convenevoli.
« Siamo appostati in questo buco di villaggio da quasi tre settimane. Come probabilmente saprà, i rapporti fra Iran e Regno Unito si sono deteriorati negli ultimi anni, tanto che è stata chiusa l’ambasciata e dunque non ci è, in definitiva, permesso di entrare nel Paese. Dobbiamo rimanere vicino al confine per ritirarci in Iraq in caso di problemi diplomatici » spiegò brevemente.
In altre parole, pensò Sherlock, se il governo iraniano metteva gli occhi su di loro dovevano fare retro-front e levarsi di torno il più presto possibile. Ora riusciva a capire perché non fossero d’istanza a Tehran.
Dopo una breve pausa, il Capitano continuò: « il motivo di questo dissapore è il nucleare. Un paio d’anni fa l’Iran espresse la propria opinione sul fatto di sviluppare delle centrali nucleari per trarne energia, ma essendo un Paese essenzialmente autoctono a livello petrolifero, le teste quadre delle Nazioni Unite lo presero come un tentativo di corsa agli armamenti e la richiesta venne respinta. Solo che l’Iran non volle sentire ragioni, e tagliò ogni contatto l’occidente » fece una piccola pausa: « crediamo che si stiano rifornendo illegalmente d’uranio dalla Russia, ma una parte di quel carico finisce altrove. Abbiamo scovato un contrabbando secondario verso l’Asia orientale, probabilmente in Corea, ed è in uno di quei sottogruppi ribelli che abbiamo individuato l’uomo che vi interessa » disse, camminando verso lo schedario ed estraendone una cartelletta.
La aprì sul tavolo, mettendo in fila tre foto leggermente sfocate – ma sufficientemente chiare – della stessa persona.
Sherlock represse un sorrisetto soddisfatto.
« Simon Newcomb » confermò il Capitano, picchiettando il dito su una delle fotografie: « cecchino, criminale recidivo... ma credo che siano cose che lei già conosce. Ora è un mercenario. Viene pagato profumatamente per tenere al sicuro il carico fino al confine con il Pakistan e, anche se mi secca ammetterlo, ci rende la vita difficile » terminò, soffiando fuori aria dal naso: « capirà che sono felice di darvi una mano, Maggiore » aggiunse poi.
Sherlock annuì, osservando le tre fotografie e poi le mappe sottostanti. Erano state segnate a matita coordinate e tratti leggeri di percorsi intrigati in mezzo al deserto, e con croci rosse i probabili luoghi in cui la merce veniva contrabbandata. Uno di essi era poco fuori Tehran.
« Per quando è prevista la prossima azione? » domandò Sherlock, alzando gli occhi sul Capitano per trasmettere più sicurezza possibile. Lui recitava la parte del Maggiore inviato dal Governo, in quel caso, e non poteva permettersi il gergo e gli atteggiamenti scontati degli ufficiali d’azione sul campo.
« Domani notte » rispose repentinamente l’altro.
« Dove? ».
« A circa sessanta chilometri ad est di qui » Miggs indicò un punto in mezzo al deserto.
Sherlock annuì. « Le dispiace se faccio una telefonata? » domandò poi. Il Capitano annuì con un cenno secco del capo: « si prenda tutto il tempo che vuole, sono in cortile insieme ai miei uomini se ha bisogno » gli disse, uscendo poi dalla stanza.
Non appena fu da solo, Sherlock estrasse dalla tasca interna della giacca un cellulare. Digitò un numero di telefono, un codice di sicurezza e di nuovo un altro numero di telefono. Rispose Mycroft.
« Novità? » chiese subito, il tono profondo.
Non era da lui saltare i convenevoli – che di solito prendevano la forma di una battuta sarcastica.
« Newcomb » rispose semplicemente Sherlock, altrettanto veloce: « non ha perso tempo a nascondersi, fa il mercenario nel contrabbando di uranio verso l’Asia orientale » lo informò, lo sguardo fisso sulle cartine sparse sul tavolo e sui primi piani sgranati.
Un secondo di silenzio dall’altra parte. « È lui? » domandò poi.
Sherlock poteva sentire un’ira pacata vibrare nella sua voce. Era uno dei rari momenti in cui Mycroft non si limitava solamente a minacciare di essere pericoloso.
« Sì » rispose.
Il cecchino di Lestrade.
« Me ne occupo io » disse solamente prima di riagganciare.
Sherlock chiuse la comunicazione a sua volta, osservando il cellulare per qualche istante prima di girarlo e aprire la cover posteriore. Stava per togliere la batteria quando, posando gli occhi sul proprio anello d’argento, esitò e lo rigirò di nuovo.
Aprì un messaggio vuoto, digitò un numero che sapeva a memoria e cominciò a scrivere. Le dita volarono svelte sulla piccola tastiera con la forza di un’abitudine che non aveva ancora perso, cliccando tasti e lettere, formando parole.
 
Meno due, John. Un passo in più verso casa. – SH
 
Il pollice rimase sospeso sull’invio.
Probabilmente, anche se gli fosse arrivato, John avrebbe pensato ad uno scherzo di cattivo gusto. Qualcuno che voleva prenderlo per i fondelli, torturarlo da lontano. Mycroft gli aveva raccontato tutto di lui, di come se la cavava, dei problemi a trovare lavoro e alloggio. Non poteva proteggerlo dai pregiudizi della gente, no, quello non poteva farlo.
Quello che lui poteva fare, era andare avanti per poter tornare indietro.
Con un sospiro, cancellò il messaggio. Tolse la batteria, estrasse la SIM e, stringendola fra pollice ed indice, la spezzò. Poi buttò a terra il cellulare e lo frantumò con due calci bene assestati.
L’unica cosa che gli rimaneva da fare, era aspettare.
 
Tre giorni dopo, mentre era in viaggio su di un traghetto per Ra’s al Khafji attraverso il Golfo Arabico, da sotto il kefiah a scacchi rossi e bianchi orecchiò una conversazione interessante.
Due giovani stavano discutendo di un’operazione militare avvenuta la notte precedente poco lontano dal confine iraniano occidentale. Parlavano in tagico2, dunque Sherlock non riuscì a capire altro se non il senso generale del discorso, ma a quanto sembrava i contrabbandieri erano stati catturati tutti tranne uno, assassinato con un preciso colpo alla testa e prima di tutti gli altri. L’unico straniero.
Sherlock nascose sotto la stoffa un sorrisetto sardonico.
Molto poco professionale, Mycroft.
 
 
 
 
Stavano camminando tranquillamente per Leicester Square, fermandosi davanti alle vetrine dei negozi e dei teatri.
La serata era fresca ma non umida, complice il bel tempo, e Mary era aggrappata al suo braccio. Faceva commenti ironici sugli improbabili souvenir che la città era in grado di rifilare ai turisti, cose che non avrebbe messo su di un mobile o in una credenza nemmeno se fosse stato necessario alla sua sopravvivenza, e John si era ritrovato a ridere davvero di gusto quando aveva commentato la bruttezza di una tazza con sopra un primo piano del Principe Carlo.
Uscivano ormai da qualche mese, niente più che appuntamenti e piccoli baci della buona notte sotto casa sua, ma entrambi avevano bisogno di tempo e se ne stavano prendendo il più possibile. Venivano da due situazioni diverse ma dolorose, erano entrambi parte di un disegno più grande che era caduto in pezzi senza preavviso, e in quanto anime alla deriva avevano prima bisogno di ritrovare la strada.
John credeva di avere finalmente trovato uno spiraglio di luce.
Mary era simpatica, allegra e intelligente. Abbastanza eccentrica da essere interessante ma non stravagante. Aveva passatempi normali, abitava in una zona fuori dal centro ma tranquilla, era ben voluta da tutti e gentile con chiunque incontrasse.
All’improvviso si era reso conto di aspettare con ansia il fine settimana, così da vederla. Uscire con lei era come respirare aria pulita per qualche ora, staccare da tutto e liberarsi per un po’ dai fantasmi che lo tormentavano.
Non parlavano mai di ciò che c’era fra loro, di quella situazione da “più che amici ma non troppo”, ma nessuno dei due si comportava come se si aspettasse qualcosa dall’altro; stavano bene insieme e questo era l’importante.
Le voleva bene, John. Le voleva bene davvero. Non sapeva se era amore, no, perché il sentimento che aveva provato per Sherlock, quell’infatuazione profonda e sporca e strana e complicata che ancora gli si appiccicava addosso insieme all’odore di nicotina, restava parte di lui e lo bloccava, non gli lasciava vedere oltre il proprio naso.
Ma Mary era fatta di sorrisi e allegria, normalità e tenerezza. Mary rappresentava la vita che aveva desiderato di avere fin da bambino, prima che un nome sanguinante e doloroso come il ricordo della persona a cui apparteneva la distruggesse un pezzo alla volta, ogni minuto di ogni giorno, per anni.
E più di tutto, Mary sapeva. Di lui e di Sherlock, del nome sul suo dito, della sua vita. Le aveva raccontato tutto, scendendo nei dettagli, incontrando sorrisi dolci e un caldo abbraccio. Mary sapeva che non poteva offrirle molto, materialmente parlando, ma le andava bene così.
Si chiese cosa stesse aspettando.
« Mary? » chiamò dunque, fermandosi poco dopo la vetrina di un negozio di magliette. Lei, rallentando il passo, lo guardò con curiosità.
Si stupì di quanto fu semplice trovare le parole. Le prese le mani.
« Tu lo sai che non posso darti molto » cominciò: « non ho un lavoro decente e nemmeno la prospettiva di trovarne uno migliore. Vivo da solo sopra la bottega di un barbiere. Ma più di tutto sono– ».
Lei lo interruppe. « Oddio, non dirmi che stai per farmi il discorso che penso! » esclamò, l’espressione sorpresa.
John sorrise. « Vuoi farmi finire? ».
Lei ridacchiò. « Ok, scusa. Vai avanti » disse.
« Stavo dicendo... oh, al diavolo, ho perso il filo ». Risero entrambi. « Ciò che voglio chiederti, Mary, è se... ti andrei bene comunque? » chiese, a bassa voce e ignaro di tutte le persone che camminavano loro attorno, superandoli.
« John Watson, non sei uno dei miei alunni. Parla chiaramente » lo prese in giro lei, avvicinandosi un poco.
John aveva già letto la risposta nei suoi occhi, ma riformulò la domanda comunque. « Mi piacerebbe che la nostra diventasse una relazione seria » disse.
Mary allungò il collo e lo baciò. Era l’unica risposta che gli serviva.
Da qualche parte, dentro di sé, lo spettro di Sherlock Holmes emise un lamento.
John non lo ascoltò.
 
 
 
 

.o0o.

 
 
 
 
La Mecca, Arabia Saudita.
Un anno e undici mesi.
L’uomo dall’altra parte della strada, oltre la finestra spalancata contro la calura dell’ormai prossima estate, stava parlando con uno degli spacciatori arabi da cui si procurava l’hashish per le proprie serate ricreazionali. La luce del tramonto entrava orizzontale dalle finestre e, nonostante nel deserto l’escursione termica fosse elevata, finché il sole non calava l’aria continuava ad essere un misto di fiamme e afa.
Sherlock abbassò il binocolo, rimanendo nascosto dietro l’angolo della propria finestra.
L’uomo era Adam Worth. Lo aveva scovato a Riyadh quattro mesi prima. Prima di perdere contatto con Mycroft e cominciare ad inseguirlo per mezza Arabia Saudita fino a La Mecca, dove sembrava essersi finalmente stabilito. Prima di cominciare un appostamento fisso lungo mesi e logorante più di qualsiasi guerra di trincea.
Aveva usato gli unici soldi che aveva da parte per pagare l’affitto di quella camera – esattamente quella camera –  perfettamente dirimpetto a quella del tutto uguale che occupava Worth. Non c’era modo di sperare in qualcosa di più tecnologico di un telefono a gettoni, in quel sobborgo della città, dunque l’aiuto di suo fratello era fuori discussione, e in ogni caso lui non poteva muoversi se non per seguire Worth in ogni suo movimento... e non ne faceva molti.
Si era ritrovato in scarsità di cibo dopo i primi due mesi, e da due settimane cominciava ad avere anche poca acqua. Quella del rubinetto era corrente ma nemmeno lontanamente potabile. L’aveva bevuta per vedere di ricavarne qualcosa ma un attacco di dissenteria e febbre lo aveva steso per tre giorni e gli aveva reso una calda settimana di marzo un vero inferno. Racimolava del cibo rubando, quelle poche volte che Worth usciva per mangiare a sua volta; era facile afferrare mele e rametti di datteri dalle bancarelle durante le ore di punta, dove la maggior parte della gente affollava la strada e lui poteva nascondersi con più facilità, camuffarsi in mezzo agli altri. A volte riusciva a prendere anche qualche pezzo di carne secca.
Faceva del suo meglio per mangiare proteine e grassi, ciò che gli serviva per tenersi in piedi, ma non sempre ci riusciva. Fortunatamente era un ladro di talento. A volte la moglie del padrone di casa condivideva con lui del cous-cous, o del pollo, e nonostante non amasse il sapore troppo speziato dei piatti tipici arabi non aveva la faccia tosta di lamentarsi.
Non faceva altro che sudare, ed era facile per uno come lui prendere malattie contro cui i locali erano immuni. Worth sembrava godere di un introito monetario di qualche sorta (spaccio o contrabbando, ipotizzava Sherlock) e dunque aveva più comfort.
Ma Sherlock non si era mai lamentato.
Non aprì bocca per mesi, se non per ringraziare la moglie del padrone in un arabo stentato e per qualche altra parola occasionale. Fortunatamente La Mecca era una città di pellegrini, regola che valeva anche in quartieri come quello, dunque non era difficile vedere stranieri, cosa che gli impediva di dare troppo nell’occhio.
Aveva sicuramente perso almeno dieci chili, e si sentiva stanco. Il piccolo specchio sporco di cui disponeva gli rifletteva l’immagine di un uomo emaciato, di cui si potevano contare le costole quando inspirava, i cui capelli ricominciavano ad allungarsi e a scurirsi di nuovo. Alcuni capelli bianchi erano comparsi in mezzo al castano scurissimo di quei ricci, e Sherlock non ne era sorpreso. Nonostante il sole la sua pelle era più bruciata che abbronzata e una sorta di irritazione da fungo si era espansa sulla pelle della sua mano sinistra, e prudeva. Cercava di non grattarsela per non farla allargare, ma quando cominciò a gonfiargli le dita fu costretto a togliersi di forza l’anello per non fermare la circolazione. Sull’anulare si era formata una piccola macchia scura – probabilmente un livido, o un taglio; si era tolto l’anello troppo tardi? – ma non la badò troppo.
La notte, quando finalmente Worth spegneva la luce e andava a dormire, Sherlock rimaneva sveglio per un’altra mezz’ora e si prendeva il tempo per distrarsi.
L’appostamento non era come stare fermi senza fare niente, non era preda della noia, ma il freddo pungente della notte araba portava con sé i ricordi di nottate più umide passate nella sua amata Londra.
Era lontano da casa da quasi due anni e ormai non funzionava più ripetersi “c’è un valido motivo per cui sono qui”.
L’unico pensiero che riusciva a dargli un po’ di pace, era John.
Le ultime notizie che aveva di lui risalivano ormai a sei mesi prima, e comunque Mycroft non si sbottonava molto. Si limitava a dirgli che stava bene, che stava andando avanti, che la sorveglianza su di lui era stretta e costante e che, soprattutto, nessuno degli scagnozzi di Moriarty gli era alle calcagna. Quello era il suo pensiero fisso e la sua prima necessità. John era al sicuro.
In quel momento, sei mesi dopo, poteva solo continuare a convincersene.
Prima di addormentarsi, di solito, prendeva il chiodo che era riuscito a sfilare da una delle gambe del piccolo tavolo quadrato e si metteva a grattare via l’intonaco dietro la testata del letto, nascosto alla vista, scrivendo soprapensiero brevi messaggi che non avrebbe mai mandato.
 
Ancora un altro giorno, John. – SH
 
Ce la farò, John. – SH
 
So che stai bene, John. – SH
 
Lo so che mi odi, John. – SH
 
Era necessario, John. – SH
 
Ricordo ancora, John. – SH
 
Non mi è mai mancata la pioggia come ora, John. – SH
 
John... – SH
 
Tu mi rendi un uomo peggiore.
 
 
 
 
Mary abitava a Marble Arch, in un appartamento ricavato da quello che prima era un monolocale molto spazioso, fortemente deprezzato a causa della posizione poco attraente (era sopra ad un ristorante cinese). Nonostante il costante via vai di gente e la strada molto trafficata, però, il posto era carino e permetteva di vivere in modo più che decente.
John si era trasferito da lei da un paio di mesi, e oggettivamente la vita non poteva andargli meglio.
Viveva con una donna intelligente e affascinante, che amava guardare Top Gear3 con lui il lunedì sera e non si stancava mai delle repliche di Doctor Who. Certo, la sua vita non era più pregna di azione e pericolo come lo era stata appena tornato dall’Afghanistan, ma superava qualsiasi standard che uno come lui potesse permettersi.
Aveva anche presentato Mary a Greg. Da quando John aveva cominciato a frequentare Mary, lui e l’Ispettore erano usciti più spesso, riallacciando quell’amicizia che era andata un po’ perdendosi durante l’anno precedente. Ormai era un buon amico e, purché non si toccasse il tasto “Sherlock”, le loro serate al pub erano come tutte quelle delle persone normali: allegre e vivaci, ruvide e dentellate come solo le uscite fra uomini potevano essere. Il fatto che Greg fosse una persona alla buona rendeva il tutto ancora più semplice.
Insomma, aveva una vita migliore di quello che poteva aspettarsi e non poteva lamentarsene.
Eppure... eppure.
Si vergognava ad ammettere a se stesso, ogni sera prima di dormire, che ci fosse qualcosa di sbagliato. Qualcosa che non andava. Come se nel grande puzzle che aveva messo insieme a fatica figurasse un pezzo tagliato male che non si incastrava bene con gli altri.
Una crepa, una feritoia, uno spiffero d’aria gelida. Erano le notti in cui non riusciva a prendere sonno e, alzandosi dal letto senza svegliare Mary, usciva sul balcone e fumava la sua sigaretta.
Di solito funzionava. Di solito, quel grumo di dolore sordo che teneva incatenato dentro la stecca di nicotina lo sedava per bene, riempiendo il vuoto con catrame e rimpianti, permettendogli di sopravvivere ancora qualche giorno.
Ormai era più un obbligo che un’abitudine, qualcosa che avrebbe davvero preferito smettere di fare, e nonostante tutti i tentativi di darci un taglio con quell’unica sigaretta, semplicemente si era accorto che non poteva, non ne aveva la forza.
John non ricordava mai del tutto Sherlock Holmes. Non si avventurava mai con la mente in mezzo ai casi risolti insieme, non si figurava mai il suo viso, o i suoi occhi, o i capelli, o la voce. Per lui Sherlock era diventato una sorta di presenza invisibile ed intangibile, dannata e sgradita, ma impossibile da cancellare. Era lui stesso a decidere quando richiamarla, come un demone che andava evocato con una formula magica, ma prendeva la forma di un brivido dietro la nuca; come la sensazione sgradevole di essere guardati nell’ombra, il brutto presentimento lungo una strada silenziosa e male illuminata.
E John lo odiava. Con tutte le sue forze, lo detestava.
Abbandonato due volte, entrambe senza potere di decisione. L’ultima volta, non gli aveva concesso nemmeno la possibilità di salvarlo.
O almeno di provare a farlo.
Non poteva più sopportarlo. Aveva provato a dimenticarlo, a spazzare via con un colpo di spugna qualsiasi ricordo, qualsiasi rimorso, qualsiasi pensiero che anche solo si avvicinasse a Sherlock Holmes, ma sembrava impossibile; per tutto il resto della sua vita, qualunque strada essa prendesse, ogni sera per cinque minuti avrebbe rimpianto ogni momento trascorso insieme a quella persona.
Ogni momento di un Legame che non era nemmeno esistito.
Quella sera in particolare, quel risentimento si dimostrava più persistente. Come se avesse sviluppato una resistenza a quel suo rituale così come un virus può sviluppare una resistenza ai farmaci.
Gli avvelenava il sangue, la mente, i polmoni. Rannicchiato contro la ringhiera del balcone, fronte contro il metallo freddo, stringeva fra le dita il mozzicone fumante di una sigaretta che aveva smesso di portargli beneficio.
Schiacciato, ecco come si sentiva. Intrappolato sotto il peso di un sentimento talmente complicato da non riuscire a decifrarlo. Ne sentiva solo la negatività – rabbia, risentimento, odio, senso di colpa, tristezza, solitudine, senso di inferiorità – e la pesantezza soffocante. Ma l’unica cosa che sapeva, l’unica cosa di cui era sicuro, era che il perno di quella costrizione era Sherlock Holmes.
Sherlock Holmes che lo aveva sfruttato e poi abbandonato. Sherlock Holmes che lo aveva disilluso. Sherlock Holmes che lo aveva attratto a sé senza far altro che essere se stesso. Sherlock Holmes che lo aveva ammaliato, rispettato, guarito. Sherlock Holmes che lo aveva... baciato.
Che aveva accarezzato il proprio nome sul suo dito. Che aveva scoperto ogni suo segreto con uno sguardo e ogni suo dubbio con mani tremanti. Che era sembrato, per un momento, per un maledetto minuto, più umano di chiunque altro.
Sherlock Holmes che lo aveva illuso che fosse possibile.
No... Sherlock Holmes non aveva fatto altro che rovinargli la vita da quando era nato, adesso lo capiva.
Adesso lo capiva.
 
 
 
 
Una volta arrivato a Gidda, città affacciata al Mar Rosso sulla costa ovest dell’Arabia Saudita, entrò nell’hotel a poca distanza dal porto e disse alla reception il suo nome.
Nick Philips.
A quanto sembrava, nonostante l’ora tarda, erano stati avvertiti del suo arrivo e non gli furono poste domande di alcun tipo. Gli consegnarono la chiave della camera, una ricevuta di pagamento e una busta di carta marrone abbastanza spessa e completamente sigillata. Se non avesse saputo cosa contenesse, e se non avesse parlato a qualche ora prima con Mycroft dopo mesi che non riusciva a contattarlo, probabilmente avrebbe dovuto dormire in un’altra topaia. Aveva in programma un viaggio difficile oltre il mare, fino all’interno del Sudan, e notoriamente quello non era un Paese tranquillo.
Fece un cenno al giovane receptionist e si diresse a passo stanco e strascicato verso la propria camera, chiudendosi a chiave la porta dietro la schiena una volta trovata. Era una stanza grande, confortevole, con pesanti tendaggi per il sole e un letto dall’aspetto comodo, e per la prima volta da moltissimo tempo Sherlock si sentì in vena di ringraziare mentalmente Mycroft per i suoi eccessi. Non dormiva su un materasso decente da più di un anno e la sua schiena ne aveva seriamente bisogno. Il fratello maggiore aveva inoltre pensato bene di fargli portare da mangiare in camera, e un carrello con diversi vassoi lo attendeva accanto al tavolo.
Non si tolse nemmeno l’impermeabile che indossava sopra i vestiti incrostati di sangue e sabbia.
Mangiò con le mani, senza nemmeno preoccuparsi di sedersi. Oggettivamente la carne non era granché, tutto pollo e tacchino troppo speziata o per nulla condita, ma la fame che lo aveva consumato nell’ultimo periodo faceva di quel pasto frugale il cibo migliore che avesse mai mangiato.
Si ritrovò a buttare giù i bocconi senza nemmeno masticarli, quasi in difficoltà a deglutirli, ma due agognati bicchieri di acqua fresca risolsero il problema. Quando ebbe spazzolato la tutta la carne, le patate e metà cous-cous di verdure, si avventò sull’ananas e sui datteri, fermandosi solo quando sentì lo stomaco gonfio e la nausea minacciare di fargli rimettere tutto quello che aveva appena ingurgitato.
Solo dopo fece la doccia, godendosi la sensazione dell’acqua calda e corrente sulla pelle. Si prese tutto il tempo a sua disposizione per ripulirsi, lavandosi i denti e rasandosi accuratamente, tenendo gli occhi chiusi e la bocca aperta sotto il getto, come se la pressione dell’acqua potesse aiutarlo a scrostare la sporcizia che si sentiva dentro, attaccata come ruggine alle pareti del suo spirito. Uscì dalla doccia solo quando l’acqua calda finì e i polpastrelli delle sue mani furono pieni di grinze.
Rimase solo con l’accappatoio addosso, i capelli umidi, e si sedette sul letto. Aprì la busta e ne estrasse i documenti della sua nuova identità (Edmund Talbott), un nuovo cellulare usa-e-getta e due siringhe con qualche cc di liquido trasparente; vaccini, intuì, per gentile concessione del sempre fin troppo prudente Mycroft Holmes.
Sospirando, lasciò tutto sulla coperta al suo fianco e si stese.
Uccidere Worth era valso i mesi di appostamento. Alla fine aveva fatto un passo falso, rimanendo scoperto per un tempo sufficiente affinché Sherlock potesse entrare nel suo appartamento, e dopo un combattimento corpo a corpo durato davvero poco – e in cui Sherlock fu favorito dal fatto che Worth fosse strafatto di hashish – Holmes era riuscito non solo ad ucciderlo, ma a farsi dare anche informazioni sui due grandi assenti: Spencer e Moran.
Per la prima volta in quasi due anni, poteva ritenersi soddisfatto.
Mancava poco. Due persone, forse sei o sette mesi, e sarebbe potuto ritornare a Londra. Riavere la sua casa e la sua vita. Avrebbe dovuto spiegare a tutti molte cose, a John in modo particolare, ma era sicuro che prima o poi Watson avrebbe capito. Non subito, no... probabilmente gli avrebbe dato un pugno, o una testata... si sarebbe trovato con il naso sanguinante e con le orecchie fischianti a causa di tutte le grida in cui John si sarebbe sicuramente lanciato, ma quell’esperienza gli stava insegnando a dare al tempo un valore diverso.
Distrattamente, si toccò con il pollice l’anulare sinistro. Sentì la pelle pizzicare.
Aggrottando le sopracciglia ripeté il movimento, ma l’epidermide rispondeva alla pressione con un lieve dolore. Incuriosito da quella strana reazione, accese la luce del comodino e si portò il dorso della mano davanti al volto.
Ciò che vide gli bloccò il fiato in gola e gli fece sgranare gli occhi in un sincero stupore.
Lettere. C’erano delle lettere sulla sua pelle.
Non erano ben marcate, solo puntini di un color rosa scuro che affioravano dalla cute, ma non potevano essere nient’altro che lettere.
Come un fulmine scattò dal letto e andò in bagno, dove la luce bianca del neon gli avrebbe permesso una vista migliore.
Era impossibile. O se era possibile, era senza precedenti noti. Non si era mai sentito di un Bondless che creasse un legame durante un ciclo vitale, di solito succedeva fra un ciclo di reincarnazione e l’altro...
Non sapeva cosa pensare. Provò stupidamente a sfregarsi sotto l’acqua il dito con la mano destra ma le lettere non scomparvero. Anzi, sembravano persino più definite.
Deglutendo, avvicinò la mano agli occhi.
Quattro lettere.
John.
Dovette appoggiarsi con le mani al lavandino.
Non aveva sentito niente. Non era cambiato niente. Com’era possibile?
La scienza dei SIN non era completa, le ricerche ancora in corso, e lui non era un assiduo lettore delle nuove scoperte in quel campo; raramente si trovava a che fare con casi riguardanti i SIN – era più che insolito che due persone Legate si uccidessero o si facessero del male a vicenda, a causa dell’istinto di protezione che nasceva automaticamente con il Legame stesso – dunque non aveva nemmeno la minima idea di come un Bondless potesse non solo avere un nome, ma in quel caso recuperare un legame già spezzato.
Sempre che quello fosse il suo John.
Quanti “John” potevano esserci in Gran Bretagna? E nel mondo?
Ma più ci pensava e più si convinceva che non potesse essere nessun altro.
C’era solo un modo per essere sicuri, ovvero toccarsi; un contatto pelle contro pelle e il Legame si sarebbe formato.
Sempre che non fosse diverso, per lui (per loro). Sempre che con il nome si acquistasse davvero anche la capacità di ricreare un Legame che non era esistito fino a quel momento (sarebbe esistito successivamente? Anche il SIN di John stava cambiando? Cosa sarebbe successo se si fossero toccati? E se John fosse rimasto un BCE? I cambiamenti avvenivano in modo personale o interessavano entrambi i membri della coppia?).
Troppe domande, troppo poche risposte.
Crollò addormentato poco dopo, l’anello d’argento di nuovo (fermamente) al suo posto.
 
 
 
 
 
Non si erano lasciati male.
Non avevano litigato, urlato, tirato piatti contro i muri o minacciato di rovinarsi la vita a vicenda. John non lo avrebbe fatto comunque, un po’ perché non era quel tipo di uomo e un po’ perché, se erano finiti con i piedi in quella palude, era colpa sua.
« Sei un brav’uomo » gli aveva detto Mary prima di separarsi: « so che ce l’hai messa tutta, ma la realtà è che non mi amerai mai abbastanza. E so cosa vuol dire ».
Erano una coppia perfetta, agli occhi di tutti, e forse il problema giaceva nel fatto che lo erano anche ai loro stessi occhi.
Non litigavano, non bisticciavano, non facevano nulla per infastidire l’altro e trovavano una soluzione ad ogni problema semplicemente parlandone da persone civili. Sempre sorridenti e cordiali e tranquilli. Stavano davvero bene l’uno in compagnia dell’altra, non era una finzione, ma in un modo strano non era nemmeno tutta la verità.
John non sapeva come descriverlo, o spiegare quando quella strana picchiata era cominciata, ma una mattina si era svegliato e aveva avuto la sensazione che loro due tentassero di compiacersi a vicenda, come se fossero, l’uno per l’altra, il piano B di un’altra storia finita male.
E non era del tutto errato.
Mary vedova, lui... anche, in un certo senso. C’erano mura di cartone fra di loro, abbastanza sottili da poter udire la voce della persona dall’altra parte ma sufficientemente resistenti da non poter essere abbattute. Ognuno di loro portava sulle spalle un peso diverso ed erano entrambi troppo pazzi e disperati per liberarsene.
Avrebbe potuto funzionare in eterno, fra loro, per questo dovevano darci subito un taglio.
Forse Mary era stata pronta a lasciare il suo peso a lato della strada e raddrizzare la schiena. A nascondere il nome nero del suo ex-marito sotto una nuova fede dorata. Molte volte aveva accennato al matrimonio e ad una famiglia, usando quegli scherzi che racchiudono un desiderio inespresso, ma John non aveva mai risposto. Nonostante avesse desiderato più volte una vita come quella – normale come quella – ora che ce l’aveva a portata di mano non riusciva a trovare il coraggio di dire “sì”.
C’era una parte di lui – una parte profonda, radicata, oscura, nascosta di lui – che ancora stringeva il capo sfrangiato di un filo rosso fluttuante nel nulla; un Legame da lungo tempo spezzato ma che ancora veniva considerato importante e più si sforzava nel dire che non lo fosse, più esso acquistava forza.
Da quell’ingiusta importanza era cresciuto l’odio, e in quell’odio era maturata l’ira.
Finché sorridere era diventato faticoso, rimanere calmo una lotta contro se stesso, resistere all’impulso di mandare a fanculo tutto una mera questione di buon senso. Fino a quel momento aveva creduto che vivere una vita vuota fosse il male, ma aveva scoperto con amarezza che portare avanti un’esistenza intrisa di risentimento era anche peggio.
Almeno, il vuoto non ti corrompe il sangue e la mente secondo dopo secondo, minuto dopo minuto. Il vuoto è arrendevolezza, è silenzio; l’ira è agitazione e nervi tesi e la voglia di mordere, di strappare lembi di carne viva con i denti a tutti coloro che anche solo ti rivolgono la parola, o ti urtano per caso sulle scale della metro.
E quasi ringraziava il cielo che Sherlock Holmes fosse morto, perché se se lo fosse trovato davanti lo avrebbe ucciso.
Senza esitare.
 
Si sedette al tavolo, in una mano cotone idrofilo e disinfettante mentre con l’altra si teneva il telefono vicino all’orecchio.
« E quindi dove sei ora? ».
La voce di Lestrade sembrava sinceramente dispiaciuta dall’altro capo della cornetta. Questa era una delle cose che a John piacevano di Greg, era in grado di provare ed esprimere sentimenti puri. John credeva che Greg non fosse nemmeno in grado di mentire.
« Da Harry. Rimango qui finché non trovo un’altra sistemazione » rispose lui, tenendo il telefono fermo con la spalla mentre si toglieva l’anello dal dito e cominciava a staccare il cerotto sottostante.
Era dal suo ritorno dall’Afghanistan che sua sorella tentava di rendersi utile in qualche modo – sensi di colpa? Esame di coscienza? Terapia della responsabilità? – così, dopo la separazione da Mary, John gliene aveva dato l’occasione. L’appartamento era modesto ma accogliente, con una sola camera da letto, ma a John non importava di dormire sul divano. Finché aveva un tetto sotto cui stare, andava bene tutto.
« Che ne è dell’appartamento a Shoreditch? » chiese Lestrade. Una leggera musica di pianoforte si poteva sentire in sottofondo alle sue parole e John non poté fare a meno di arricciare il naso. Sapeva chi lo stava suonando.
Svitò il tappo del disinfettante.
« Ero in affitto, praticamente l’anno ri-affittato nel momento stesso in cui ho messo il piede fuori dalla porta. Cercherò da qualche altra parte, magari in periferia » spiegò.
Praticamente sentì il cervello di Greg masticare ogni parola e pensare a quale fosse la frase più giusta da dire.
« John... lo sai che potremmo ospitarti noi » disse poi.
Aveva scelto la frase sbagliata.
« Greg... »
« Ti prego... » lo interruppe però Lestrade: « almeno pensaci ».
« Non ho bisogno di pensarci! » ribatté però John, la voce ferma e dura, increspata da quella rabbia che sempre più spesso affiorava in alcune sue frasi e modi di porsi, filtrando tra le crepe. « Non ho intenzione di mettere piede a casa di un Holmes, tantomeno di Mycroft. Fine della discussione ».
Il silenzio fu padrone della conversazione per qualche istante, lasciando nelle orecchie di entrambi solo l’eco di quelle parole e il lieve ronzio delle linea. Fu John a sospirare poi, portandosi le dita della sinistra a massaggiarsi gli occhi prima di riprendere parola.
« Scusami » disse alla cornetta.
« No, hai ragione. Ho sbagliato io. Quando si parla di lui vado in automatico sulla corsia preferenziale... mi dispiace » rispose l’ispettore.
« Suppongo sia normale... » ribatté Watson, ormai disinteressato alla conversazione. Sapeva che non era colpa di Greg, che i sentimenti che un Legame comportava comprendevano senso di protezione ed una certa preponderanza affettiva, dunque non gliene faceva una colpa.
Era solo... invidioso, forse. E arrabbiato. Scontento del fatto che Mycroft Holmes potesse avere quello che a lui era negato, perché non se lo meritava. Quell’uomo non si meritava niente.
« Senti Greg, è meglio se mi riposo un po’. Con tutta questa storia di Mary è stata una settimana un po’ pesante » riprese poi parola, senza nemmeno impegnarsi per rendere la scusa più credibile: « ci risentiamo per una pinta, ok? Magari la prossima settimana ».
Poté quasi vederlo annuire, dall’altra parte del telefono. Dopotutto, non stava salvando solo se stesso, dall’imbarazzo.
« Ci conto. Ah, John... mi dispiace per Mary. Credevo davvero che fosse quella giusta nonostante... ecco, nonostante tutto » esitò.
« Sì... anche io » mentì Watson, terminando la chiamata e appoggiando il telefono sul tavolo. Si prese qualche secondo di silenzio poi, nel tentativo di non pensare troppo al significato di quella conversazione, ritornò a prendersi cura del suo dito.
Prese il batuffolo di cotone ma, quando guardò il proprio SIN, lo lasciò ricadere sul tavolo.
Erano mesi che il dito non si infiammava, settimane che ormai non faceva più male. Giorni, ora, cinque per l’esattezza, che non sanguinava.
Il nome “Sherlock” aveva ormai l’aspetto di una cicatrice rossastra leggermente in rilievo.
E, pian piano, scompariva.
 
 
 
 

.o0o.

 
 
 
 
Khartum, Sudan.
Due anni e tre mesi.
L’uomo a cui stava puntando contro la pistola non era Ralph Spencer.
Ansimante e con i capelli sudati incollati al collo e alle tempie, osservò il sorrisetto strafottente di quello che aveva preso in tutto e per tutto le sembianze di un’esca umana.
« Heureux de vous rencontrer, monsieur Holmes »4 sfotté quello, schiena contro il muro di mattoni, disarmato, solo. Abbandonato dai suoi due compagni che sicuramente ora erano chissà dove a passare informazioni vitali a chissà chi.
Era caduto nella trappola come un topo.
« Qui vous envoie? » domandò Sherlock, arricciando le labbra e il naso in una smorfia seccata. Mosse la pistola in avanti per sottolineare la necessità di risposte rapide e concise.
Il ghigno dell’altro aumentò. « Pensa davvero che le dirò chi mi manda? » domandò in un inglese sporco con la “r” moscia, l’accento francese molto spiccato.
« Sarebbe nel suo interesse » ribatté Sherlock, mettendosi in testa di stare calmo. Doveva scoprire tutto quello che poteva dall’uomo che aveva davanti a lui, altrimenti avrebbe solo perso tempo senza guadagnare niente.
« Sono un mercenario, pensa che mi faccia paura una pistola? » domandò strafottente.
« No. Ma il dolore fa paura a tutti » ribatté Holmes, mirando improvvisamente allo stinco sinistro dell’uomo e sparando. Il colpo vibrò nell’aria con un tuono, seguito dall’urlo dolorante dell’altro che si accasciò a terra tenendosi la gamba.
« Putain de merde! » imprecò.
« Soprattutto a chi è pagato solo se rimane vivo » continuò incurante Sherlock, occhi sgranati fissi su di lui, la mira spostata all’altra gamba: « sto ancora aspettando una risposta ».
« Dovrai uccidermi! » gridò quello.
Sherlock sparò di nuovo, centrando questa volta il piede destro. Un altro tuono, un altro urlo.
« Alors? » incitò Sherlock, alzando la mira sul petto.
« Sebastian Moran! » gridò alla fine il mercenario, alzando una mano insanguinata per segnalare a Sherlock di fermarsi: « Sebastian Moran! Girano voci nella rete criminale di un tizio che ha cominciato a dare la caccia ai cuccioli smarriti di Moriarty... Spencer ha sospettato che fosse qualcuno dei tuoi ma non immaginano che sei tu in carne ed ossa! » svuotò il sacco, la voce alta e piagnucolante.
Sherlock prese un profondo respiro, abbassando l’arma. Avvicinandosi velocemente all’uomo, poi, la impugnò al contrario e lo colpì in testa con il calcio.
« Merci pour la disponibilité » gli disse mentre l’altro rovesciava gli occhi e cadeva incosciente sul cemento.
Sherlock si tirò su il cappuccio della maglia e si mise a correre, passando da un vicolo all’altro fino ad arrivare all’altro capo della città. Non era distante ma era difficile per gente come lui, che in cittadine come quella venivano adocchiati con un misto di curiosità e sospetto.
Si fermò in una zona vuota e silenziosa, il fiato che ormai gli era venuto completamente a mancare. Estrasse dalla tasca dei pantaloni il cellulare e, digitando in fretta, mandò un breve messaggio ad un numero privato.
 
Copertura saltata. Moran e Spencer sanno che sono vivo. John? – SH
 
Attese, rigirandosi il telefonino fra le mani. A volte strisciava contro l’anello d’argento e Sherlock si fermava, immaginandosi la piccola scritta sempre più scura che il metallo copriva.
Finalmente arrivò la risposta.
 
Aeroporto. MJN Air, compagnia privata. Presentati come Martin Crieff.
Avvistato Spencer a Montpellier.
John è in salvo, sorveglianza raddoppiata. – M
 
Annuì velocemente e, riprendendo a camminare a passo spedito, si diresse verso il piccolo aeroporto della cittadina.
 
 
 
 
Le prime giornate autunnali cominciavano a rendere plumbeo il cielo di Londra, costringendo i bambini del St. Thomas a rinunciare alle giornate all’aperto. Era ricominciata anche la scuola e, con essa, il via vai delle suore per accompagnare i bambini più piccoli. I più grandi, quelli dai dieci anni in su, andavano tranquillamente da soli e avevano il permesso di rientrare più tardi degli altri.
Ma l’arrivo dell’autunno significava anche la comparsa dei primi raffreddori e delle influenze stagionali. Sembrava esserci già in giro un nuovo virus influenzale e, ovviamente, John aveva dovuto litigare con almeno otto persone al telefono per farsi mandare i vaccini.
Sembrava che gli orfani fossero sempre gli ultimi della fila, e anche se quel comportamento non avrebbe dovuto sorprenderlo o irritarlo, in realtà lo faceva eccome. Soprattutto in quei tempi.
Si era detto più volte che sentirsi abbandonato non l’avrebbe aiutato a diminuire lo stress che la sua continua agitazione gli provocava. Sotto insistenza di Greg era tornato a vedere Ella, ma quando aveva cominciato a parlare di gruppi di sostegno e terapie per il controllo della rabbia aveva smesso di andare. Non era uno di quegli uomini che non sono in grado di tenere le mani a posto e, in preda e veri e propri raptus, vengono coinvolti in risse o fanno del male alle persone a loro vicine; lui era perfettamente in grado di controllarsi e l’odio che provava, quella fiamma che gli faceva maledire il nome di Sherlock Holmes tutte le sere prima di addormentarsi, non era altro che quello: una fiammella. Non aveva output fisici, non era una persona violenta... era soltanto un ex-medico militare stressato e senza prospettiva che dormiva in un buco di appartamento sopra un fruttivendolo.
Abbandonato, disilluso, solo.
A chi sarebbe importato?
Si passò una mano sugli occhi seduto alla scrivania, riprendendosi dall’ennesima telefonata all’NHS di zona. Erano finalmente arrivate due partite di vaccini ma una era per il ceppo sbagliato e l’altra aveva un numero insufficiente di fiale. C’erano molti bambini in quell’istituto, alcuni ancora molto piccoli, non potevano pretendere che facesse il suo lavoro se doveva raccogliere le briciole.
Una voce dentro di sé sussurrò “Mycroft potrebbe risolvere il problema” ma lui la ignorò, zittendola con violenza.
Prese in mano il telefono per tentare di fregare la burocrazia prendendo un’altra strada ma venne interrotto da un energico bussare alla porta.
« Avanti » disse, e in qualche istante si ritrovò sotto al naso la zazzera rossa e la faccia lentigginosa di Richard, uno dei suoi combina guai preferiti.
« Rick » lo salutò, alzandosi dalla scrivania e portandosi in piedi davanti al bambino: « cosa posso fare per te questa volta? ».
« Credo mi serva un cerotto... o due. Forse quattro » disse il bambino, ridacchiando e arrampicandosi sul lettino, la manica della camicia completamente arrotolata in modo da lasciare scoperto il braccio scorticato: « sono... emh... caduto da una panchina » disse.
Una scusa palese.
« O sei inciampato scavalcando un cancello » corresse John, recuperando disinfettante e cotone idrofilo: « prima o poi ti arresteranno » ironizzò, facendo ridere il bambino.
Era sempre meglio scherzare, su queste cose, quando il tuo piccolo interlocutore ha la tua stessa maledizione (è un BCE).
« Ero in giro con gli Irregolari! » esclamò il bambino, come se il nome del loro piccolo gruppo di amici potesse scusarlo di tutti i graffi e i lividi che collezionava a giorni alterni.
« Infatti ho almeno due di voi "Irregolari" nel mio studio almeno una volta a settimana. Dovete stare più attenti » gli rispose John, sperando che il rimprovero bastasse per farlo rimanere in silenzio.
Ma il bambino non sembrava voler tacere. « Abbiamo incontrato un uomo. Ha detto di conoscerti, Doc, e ha detto di salutarti ».
John alzò un sopracciglio ma non prestò, all’inizio, troppa attenzione a quello che Rick stava dicendo. Nonostante fossero passati degli anni lui era John Watson, per qualche tempo era stato sui giornali anche lui, dunque non si stupiva poi molto se alcuni dei bambini parlavano con persone che lo conoscevano di nome.
« Avete detto che non firmo autografi? » scherzò, ripetendo la frase che ripeteva sempre in certe occasioni.
« Sì, ma ci ha detto che dovevamo assolutamente darti una cosa » continuò quello, frugandosi nelle tasche dei
 pantaloni proprio mentre John stava disinfettando la ferita.
« Le Sorelle non vi dicono sempre di non parlare con gli sconosciuti, Rick? » domandò in tono da paternale, aspettando che il bambino avesse finito di muoversi per poter continuare il suo lavoro.
Ma quello gli tese un foglietto stropicciato e piegato in due.
John, scettico, lo prese. « Cos’è? » domandò.
« Ce l’ha dato quel signore. Ha detto che dovevano farlo vedere solo a te, altrimenti non sarebbe stato valido » disse il bambino, allungando il collo per vedere l’interno del foglietto stesso: « cosa c’è scritto? » domandò, curioso.
Era un biglietto normalissimo, strappato da un taccuino, e al suo interno vi erano solo due parole vergate in una calligrafia appuntita e inconfondibilmente adulta.
 

È vivo.

 
 
 
 

.o0o.

 
 
 
 
Montpellier, Francia.
Due anni e cinque mesi.
Gli obitori si somigliavano tutti, alla fine.
Quello dell’ospedale universitario Lapeyronie aveva un forte odore di disinfettante e prodotti chimici. Il pavimento di piastrellato bianco, così come bianche erano le pareti, così come bianca era la luce forte dei neon – quattro – sul soffitto. Due tavoli d’acciaio al centro della stanza. Le celle frigorifere sul muro in fondo.
Quello del Barts non era poi così diverso. Stessi odori, stesse luci, stesse... sensazioni. Di solitudine e silenzio. Due cose che Sherlock aveva sempre apprezzato.
« Prego, da questa parte » gli fece strada il dottor Dubois, parlando in un inglese sporcato dall’accento meridionale francese. Erano ormai le dieci di sera e la sua telefonata doveva averlo interrotto durante la cena. Aveva alcune briciole di pane intrappolate fra le fibre del maglioncino e sull’indice destro si vedeva il segno rosso del coltello da formaggio.
Sherlock lo seguì, osservando sui vetri delle finestra il riflesso dei propri capelli ricci e rossi. Odiava quel colore.
« Allora, vediamo... » cominciò poi Dubois, infilandosi il camice e prendendo la cartella dei pazienti in entrata. La scorse velocemente, fermandosi di fronte alla fila verticale di celle che andavano dalla 17 alla 19. Dubois aprì la 18.
« Ralph Spencer, inglese, 44 anni, un metro e ottantacinque, caucasico » descrisse velocemente, tirando il carrello e aprendo la zip del sacco nero in cui Spencer era stato infilato. « Morte per dissanguamento a causa di un taglio sulla carotide durante una rissa fuori da una discoteca. Hanno usato una bottiglia di birra, ho trovato schegge di vetro verde e spesso all’interno della ferita. L’ambulanza non è arrivata in tempo » riassunse.
Sherlock lo guardò senza fare una piega. Ne analizzò il viso pieno, le sopracciglia bionde, i capelli castano-biondicci. La carnagione pallida. La ferita, che ripulita risultava ancora più letale. Quello che lo aveva ucciso sapeva come farlo, considerata l’arma del tutto fortuita con cui aveva reciso tre centimetri di epidermide e squarciato la vena carotidea.
Gli era sfuggito. Non era arrivato in tempo. E adesso tutte le informazioni su Moran erano morte con lui.
Arricciò il naso in un moto di disgusto che fortunatamente Dubois non vide. « È lui » disse semplicemente all’anatomopatologo, prima di girarsi e riconquistare a passo svelto l’uscita.
Aveva appena imboccato un vicolo cieco.
 
 
 
 
All’inizio aveva pensato che fosse uno scherzo di cattivo gusto.
Qualcuno che si era divertito ad usare dei bambini per colpirlo dove faceva più male. Qualche giornalista, forse, o qualche amico di Mary, dato che non avevano preso molto bene la storia della separazione. O forse qualche teorico del complotto, di quelli che ancora cercavano di contattarlo tramite un blog che aveva già abbandonato da moltissimo tempo. Persone normali che erano rimaste a quel giorno di due anni e mezzo prima per cercare di “capirci qualcosa”, anche se da capire non c’era proprio niente.
In ogni caso, aveva lasciato perdere. Stava provando per l’ennesima volta di cambiare la propria vita, di evitare il crollo, di non imboccare la “cattiva strada” che suo padre aveva sempre visto distesa davanti a lui e che, ovviamente, era la più facile da percorrere, nemmeno fosse uno scherzo di cattivo gusto.
L’underworld criminale avrebbe pagato a peso d’oro un ex-soldato addestrato all’uso delle armi. E loro non facevano certo distinzione di anelli o reputazione.
Per questo aveva appallottolato e buttato via il bigliettino.
Salvo poi farsene recapitare un altro un paio di giorni dopo, sempre per mano del gruppetto di bambini che si facevano chiamare per gioco “gli Irregolari”, e che non volevano assolutamente svelare i tratti somatici, o anche solo qualche particolare, della persona che ogni tanto spuntava fuori dal nulla e consegnava loro messaggi per il dottor Watson.
Continuò così per quasi tre mesi.
Messaggi sempre di una sola frase: date, luoghi, nomi.
“Nick Philips” diceva uno, “12 febbrario 2012, Lhasa” vi era scritto su di un altro, “Simon Newcomb” diceva un altro, e poi ancora “Hejrat”, “Ralph Spencer”, “Arabia Saudita”, “Peter Guillam”... nomi che non conosceva, città dell’Asia e del Medio Oriente che non avevano alcun senso, date che per lui non avevano significato. Aveva provato a digitarle e lanciare una ricerca su Internet ma non portavano a nulla di interessante.
E più quella storia andava avanti, più si sentiva inquieto.
Era sul punto di avvertire la polizia – o Greg, per lo meno – ma l’ultimo biglietto che gli arrivò tramite gli Irregolari conteneva qualcosa di diverso.
Conteneva una fotografia.
Gli si chiuse lo stomaco.
Era lontana, scattata da un’angolazione più alta rispetto al soggetto. Ritraeva la finestra un edificio squadrato, forse un ospedale; i cartelli direzionali del parcheggio, posizionati sotto un lampione e presi nell’inquadratura solo in parte, erano in francese.
John avrebbe potuto riconoscere l’uomo nella foto anche ad occhi chiusi. Certo, aveva i capelli rossi e un taglio diverso, indossava vestiti alla mano e un giubbotto di jeans, ma il viso, l’inclinazione della testa e gli occhi... soprattutto quelli, erano inconfondibili. Era stata scattata di notte ma la luce dei neon all’interno dell’edificio, forte e chiara, rifletteva il colore di quelle iridi come una cartina tornasole.
Non poteva essere lui. Era sicuramente uno sbaglio. Una persona che gli somigliava. Dopotutto la fotografia era stata presa da lontano, non si vedeva bene, niente era perfettamente definito. Era stata scattata di notte con una luce pessima. Erano solo macchie di colore su carta lucida.
Poteva essere chiunque, ma non Sherlock. Non Sherlock. Sherlock Holmes era sepolto sei metri sotto una lapide nera al West Brompton Cemetery, fuori dalla sua vita com’era giusto che fosse.
Ma allora perché il cuore gli batteva come se dovesse farsi strada fra una costola e l’altra e uscirgli dal petto? Perché provava quel misto di furia e reverenziale terrore che lo teneva inchiodato a terra ed immobile a fissare la fotografia di uno sconosciuto? Perché non riusciva a convincersi che non fosse  lui?
Prendendo un respiro flebile fra le labbra socchiuse, girò la foto. Questa volta, sempre nella medesima calligrafia di tutti i precedenti biglietti, le frasi erano due:
 

Domani 18:15, Bethnal Green, banchina direzione Stratford.
È ora di conoscere la verità.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Gli easter eggs di questa puntata:
Magg. Jamie Stewart – War Horse
Nick Philips – The Whistleblower
Edmund Talbott – To the End of the Earth
Martin Crieff – Cabin Pressure (insieme alla MJN Air XD)
 
1 – Il Baritsu un’arte marziale da autodifesa, ideata da Edward William Barton - Wright e sviluppatasi originariamente in Inghilterra. Sir Doyle la cita fra le doti di Holmes, che la conosceva e la praticava.
 
2 – Il tagico è un dialetto del farsi, parlato in Iran.
 
3 – Top Gear è un programma televisivo che parla di auto e motori. In Italia viene trasmesso su DMAX e penso che sia uno dei più divertenti che abbia mai visto XD (mi riferisco alla versione UK).
 
4 – Tutto il francese è assai maccheronico, gentilmente tradotto da Bing per sopperire alla mia ignoranza linguistica.
   
 
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