“Respirerò
l’odore dei
granai.
Più grande ti sembrerò
e tu più grande sarai.
Passare insieme
soldati e spose,
ballare piano in
controluce.
Impareremo a camminare
Per mano insieme, a
camminare:
Domenica…”
Zucchero,
“Diamante”
“I knew I loved you
Before I knew you
The hands of time
Would lead me to you.
I knew I loved you
Before I found you
I knew I'd built my world around you
Now all my days
And all my nights
And my tomorrows
Will all begin and end
With you...”
Celine
Dion & Ennio Morricone, “I knew I
loved you”
(Sapevo di
amarti
prima di conoscerti
Le mani del tempo mi
avrebbero portato da te
Sapevo di amarti prima
di trovarti
Sapevo che avrei
costruito il mio mondo intorno a te
Ora tutti i miei
giorni
E tutte le mie notti
E il mio domani
Avranno inizio e fine
Con te…)
07. Remember
La luce che filtra tra la polvere dei
vetri rende
perfettamente giustizia agli anni del luogo.
Non è stato facile entrare: non aveva più la
chiave, perduta
chissà dove, forse volontariamente.
Roy ha dovuto sfondare la porta a spallate e chiamare il
fabbro per una nuova serratura.
Non ha voluto entrare per primo. Ha aspettato che lei
prendesse un respiro profondo è appoggiasse il piede ai
gradini del porticato.
“Sei sicura?”
“E tu?”
Le ha tenuto aperta la porta, per lasciarla passare.
Quindici anni.
Ha scritto il numero con il dito, sullo strato di polvere
grigia del comò all’ingresso.
Quindici anni e nulla sembrava essere cambiato. La casa ha
aspettato, paziente, immutata, lentamente ricoperta dagli strati di
mesi,
giorni, minuti e secondi, che hanno creato la sua corazza contro il
tempo.
Nulla sembra essere cambiato: è come la ricordava.
Grande, silenziosa e severa.
Le assi del pavimento hanno scricchiolato al suo passaggio.
Ha toccato con la mano la maniglia di ottone della prima porta a
destra. Il
soggiorno le è sembrato cupo, come i saloni dei castelli
medievali: il camino
spento, le pesanti tendo di velluto che hanno ostacolato il sole per
tutti
quegli anni, i teli bianchi stesi sul mobilio.
Quando li ha tirati via, la polvere sollevata l’ha fatta
starnutire.
Roy l’ha aiutata a piegarli con cura, ad aprire una dopo
l’altra tutte le stanze, tutti i santuari del passato che
hanno lasciato
sigillato là dentro per tanto tempo.
L’ha aiutata ad accendere il fuoco del camino e a cambiare le
lenzuola del letto nella sua vecchia stanza –
“Dormiamo qui.” Ha chiesto lei. “Solo
stanotte. Dormiamo qui come quando pioveva e avevo paura dei
fulmini.” – ha
spento la luce quando ha sentito i suoi primi singhiozzi e
l’ha stretta forte
nel sonno, le lacrime come le gocce di un temporale annunciato sulla
sua pelle.
Hayate si è raggomitolato sul tappeto, lo stesso dove secoli
prima sedevano a gambe incrociate, lui con i suoi libri di alchimia
sulle
ginocchia, lei con la terrina di patate da sbucciare per portarsi
avanti con i
lavori domestici.
Due giorni dopo il sole invade la
casa con violenza: lei
vaga per ogni stanza, incredula di tanta luminosità, tutta
in una volta,
cercando di ricordare se la casa le è mai sembrata tanto
accogliente.
Gli scatoloni affollano il soggiorno e gran parte del
corridoio.
Ha aperto la camera da letto dei suoi genitori, ha deciso da
che parte stare, dopo una lunga riflessione: in quella di suo padre,
come se
invertendo le posizioni, avesse la possibilità di invertire
anche la storia di
quella famiglia, di quella coppia, di quell’uomo,
sostituendovi la storia di un
altro uomo, un'altra coppia, un'altra famiglia.
Il quarto giorno, la polvere non
infesta più ogni angolo
buio, la porta di ingresso può di nuovo chiudersi, Hayate
scodinzola tranquillo
per tutta la casa, senza più topi in giro.
La sera, Roy torna a casa con due secchi di pittura.
“Per il portico.” Si giustifica.
“L’intonaco è scrostato e
vecchio. Pesavo di toglierlo e passarne una mano
nuova…”
Lei annuisce e non dice nulla. Ma rimane a guardarlo tutto
il tempo mentre lavora.
Lo vede fermarsi solo un momento, con il pennello a
mezz’aria, appena sopra l’architrave della porta
d’ingresso.
“Per quanto io vada indietro, i miei ricordi si fermano
sempre qui, sulla soglia. Prima è come
se…”
“…come se non ci sia nulla che valga la pena
ricordare?”
Le sorride, riprendendo ad accarezzare il legno con le
setole intrise di vernice bianca.
“Già. Come se fossi nato qui, a diciotto
anni…”
Il quinto giorno la sorprende in
bilico su una sedia, mentre
pulisce i vetri della veranda.
“Scendi subito!” le urla, tanto da farle quasi
perdere
l’equilibrio per lo spavento.
“Stavo solo…”
“Sei impazzita? E se fossi caduta? Hai idea cosa avrei fatto
se…”
“Scusa.”
Non riesce a tenerle il broncio a lungo. L’espressione
agitata scivola via con un sospiro lungo e profondo.
“Devi stare attenta. Ora devi stare più
attenta…”
Le accarezza la pancia, lasciando che un sorriso ponga
definitivamente fine all’arrabbiatura., prima di toglierle
dalle mani lo
strofinaccio e riprendere il lavoro interrotto.
Il sesto giorno è lei ad
aprire il vecchio studio di suo
padre. Roy la osserva dal corridoio, mentre fissa meglio le assi
scricchiolanti
dei gradini della scalinata antica.
Non vedendola uscire dopo un quarto d’ora si affaccia
titubante.
La trova seduta sulla sedia intarsiata, la stessa su cui il
maestro non lasciava sedere nemmeno il suo allievo, la sua
sedia.
Lei si appoggia allo schienale, facendo aderire ogni vertebra
ai motivi e alle volute rigide e lucide.
Una mano sulla pancia e un’altra sulla superficie della
scrivania.
Una sul passato e una sul futuro.
Non ci sono più tracce di sangue, i libri polverosi e
sbiaditi
sono perfettamente allineati sugli scaffali. Roy torna al suo lavoro,
senza
disturbarla.
Quando lei esce dalla stanza, il borbottio della pentola sul
fuoco la avverte che la cena è pronta.
Il settimo giorno l’ultimo
scatolone rimasto è quello delle
cose da buttare via, delle cianfrusaglie inutili, dei ricordi
più spiacevoli.
Roy la prende per mano, la guida fin sulla soglia, fino al
punto di partenza che ora è il traguardo da cui ricominciare
una nuova corsa.
Prima di appoggiare l’occhio all’obiettivo, la
guarda
sorridere senza che abbia dovuto chiederglielo.
“Sei davvero sicura?”
E’ la stessa domanda del primo giorno. E sa già
che avrà la
stessa risposta.
“E tu?”
Mentre le scatta una foto – una mano sempre sulla pancia un
po’ più rotonda, la spalla appoggiata allo
stipite, i capelli sciolti e lo sguardo
placido che da un po’ a questa parte le deforma i lineamenti
severi nei momento
più impensabili – pensa che se ha deciso ti
ritornare in quel luogo, di
ripartire proprio da lì, di allevare il loro futuro dove il
loro passato ha
avuto inizio, non può che aver accettato ciò che
la vita ha offerto loro
proprio lì, sulla stessa porta, quando un ragazzo dagli
occhi scuri ha
incespicato nelle parole, quando un ragazzina timida gli ha chiesto
cosa
desiderasse affacciandosi da dietro lo stipite.
“Scusi, è questa casa Hawkeye?” Ripete
come tanti anni fa,
prima di varcare la soglia e seguirla in casa. Invece che nascondersi
dietro la
porta aperta, lei sorride ancora e lo abbraccia, nonostante il pancione
ingombri più spazio del previsto.
“No. Questa è casa Mustang.”
Scusate il
ritardo:
altro parziale di storia in mezzo ai piedi che ha risucchiato le mie
energie
vitali nell’ultima settimana… Sigh, ho bisogno di
coccole e taaaanto Royai per
tirarmi su!
Scusatemi se non
rispondo una per una, ma davvero non ho tempo (è incredibile
come 24 ore
possano sembrare ridursi drasticamente alla metà ,quando si
va dia fretta! O_O)
Ringrazio comunque per
le recensioni e le belle parole che mi riservate sempre: grazie davvero
di
cuore (ogni tanto mi commuovo, i fazzolettini sono sempre vicino al
pc…).
Questo capitolo è
stato uno degli ultimi che ho scritto: un’altra ispirazione
fulminenante di cui
vado abbastanza fiera… Mi saprete poi dire.
Un bacione a tutte,
alla prossima! ^^