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Autore: KikyoOsama    07/05/2013    1 recensioni
[Prima classificata al contest "Nagagutsu de kanpai da! Hetalia~" indetto da Phantom Lady sull'Axis Powers Hetalia Fan Forum]
Ispirata ad una frase apposta all'inizio di un video (per l'appunto "Warning! Our homes are in danger!"), è una raccolta che ho scritto molto tempo fa. Vi figurano personaggi e situazioni storiche diverse, basati sulle sensazioni dei personaggi sconfitti.Il mio punto di vista non coincide necessariamente con quello dei personaggi, OOC di alcune caratteristiche di Himaruya.
 
“Io credo che tu sia una vittima.”
Gli occhi cerulei di Germania divennero vitrei, in essi era visibile l’emozione di un grido trattenuto. L’altro cercò di incoraggiarlo con un sorriso e procedette.
“Come me, come Polonia, come Russia, come tutti gli altri. Tutto questo ti sembrerà incredibile: sì, ti odiavo profondamente durante la guerra e ci sono ancora molte cose che non potrò mai perdonarti, tuttavia… la guerra è finita."
[Accenni di: Russia\Prussia; America\Germania]
Genere: Dark, Guerra, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: 2p!Hetalia, Allied Forces/Forze Alleate, Altri, Nuovo personaggio
Note: OOC, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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“E’ la tua occasione, te la stiamo offrendo sul piatto d’argento”
Da qualche tempo Feliciano aveva cominciato a considerarsi un adulto. Andare a vivere per conto proprio –non esattamente da solo, considerata la presenza di suo fratello Romano che però non gli era di alcun conforto o giovamento- aveva completamente cambiato il suo modo di pensare, parlare e di agire: là fuori c’erano tante volpi scaltre, tanti lupi pronti a raggirarti ed azzannarti.
Homo homini lupus, suo nonno glielo diceva sempre: era tutto vero.
Là fuori, inoltre, c’era la guerra.
Dalla finestra ogni giorno sbirciava i monti che circondavano la sua casa e vedeva file di soldati partire per i fronte: lui non era certo un cuor di leone e, per inesperienza, vigliaccheria forse, si era illuso che chiudersi in casa sarebbe bastato a preservarlo dalle mostruose atrocità che avvenivano ai confini.
Ma una sera avevano bussato alla sua porta e nulla era stato più lo stesso.
“Ascoltaci: tutti danno Austria per sconfitto, è solo una questione di tempo.”
Austria, ricordò in un sussulto, il suo vecchio tutore: o forse, più d’un tutore, era stato per lui un vero e proprio tiranno; il ricordo di tutte le vessazioni e le umiliazioni che gli erano toccate subire sotto lo schiocco della sua frusta lo fecero immediatamente racchiudere su se stesso, in un gesto che non si accorse neppure di compiere, in virtù di una paura inculcata nel profondo.
“Non hai alcun motivo di affondare con lui.”
Impero Britannico era persuasivo, piccato, essenziale: eppure ogni sua parola lasciava sbigottito il giovane. Dei tre uomini che erano entrati in casa, due erano vecchie conoscenze – e non del tutto piacevoli, per la verità- delle due Italie, l’altro, che stava in disparte ad osservare silenzioso accanto alla porta, Nord ricordava di averlo conosciuto solo di vista: lo aveva sempre immaginato diverso Impero Russo, eppure non riusciva a non provare un moto di soggezione nei suoi confronti.
“Se tu…”
Ad un tratto si intromise Francia, sollevando le mani e avanzando verso di lui. All’interlocutore sfuggì il gesto di intesa che invece i suoi complici colsero, quel lasciate fare a me: di certo lui era il più indicato a trattare con le Italie, nonché il più abile e suadente. In fondo erano vecchi amici, anche se Feliciano in quel momento, a causa dello shock, non era in grado di capire se quella fosse la verità e quanto invece gli avessero fatto più male che bene i suoi migliori amici – come si erano presentati.
“In nome dell’amicizia che ci lega, dovrai mantenere il segreto” addusse quindi l’idea che quello fosse un privilegio che aveva concesso solo a lui e che metteva in pericolo sé e i suoi due alleati – un vero e proprio onore, insomma, del quale Feliciano era obbligato a sentirsi responsabile. “Noi intendiamo liberare le nazioni slave dal giogo dell’Impero Austro-Ungarico, e per farlo crollare abbiamo bisogno di te.”
Feliciano accolse la proposta come una vera e propria congiura e le iridi nocciola si avvelenarono di terrore.
 “Austria si arrabbierà moltissimo quando saprà” dichiarò, con voce sommessa e tremando vistosamente “Sarà furibondo!”
“Il tuo aiuto è indispensabile” incalzò Francia, comprensivo, poggiando una mano sulla spalla dello sciocco e ingenuo ragazzo: gesto che voleva comunicargli la pesantezza di quell’onere, di una cosa che andava fatta, e al contempo instillargli una luce d’orgoglio. Perché lui era unico e insostituibile, indispensabile per la loro scalata al monopolio d’Europa. E Feliciano sollevò gli occhi lucidi, abortendo il vergognoso pianto sul nascere, per la prima volta sentendosi investito di fiducia: solo lui, lui soltanto poteva aiutarlo, e dalle sue mani dipendevano le sorti di tutte le nazioni balcaniche. “Sei la persona più vicina ad Austria: dovrai essere tu a farlo.”
“Ma Austria si fida di me… abbiamo un accordo…” mormorò lui, con voce appena percettibile e poco mordente, ovviamente ignorato dal trio. Forse in quel momento si era misurato e si era reso conto di non essere una nazione capace di agire da sola –come l’avrebbe detto alla sua metà, poi?- , ma la fierezza lo spinse in avanti, desiderando ardentemente di coinvolgersi in una grande impresa che lo avrebbe avvicinato ai grandi. Per essere più simile a Francia, Impero Britannico e Impero Russo. “Cosa?”
“Vieni” la voce chiara ed estremamente ingannevole di Impero Russo interruppe strategicamente la conversazione, sospendendola al suo culmine, e attirò l’attenzione sulla sua persona: Feliciano si voltò, trascurando il dettaglio di aver taciuto e quindi non aver negato subito il coinvolgimento in un vero e proprio tradimento, e gli vide sollevare il braccio in modo da riaprire la porta, con in viso un sorriso disteso. C’era un’altra persona che aspettava fuori, dunque. “Voglio presentarti una persona.”
I passi, trascinati con una pesantezza involontaria, lo portarono fino a lui: era un ragazzo magro, bruno, anch’egli dall’aria inesperta e giovane proprio come lui; indossava una divisa grigiastra con un curioso berretto che ricordava per la sua forma l’interno cavo di una barchetta e aveva nella mano destra una pistola.
“Lui è Serbia.” Impero Russo lo presentò, e lui a sua volta si presentò con uno sguardo indomito che restò ben impresso nella mente di Feliciano: sino ad allora aveva sempre pensato male di lui, in un primo momento che fosse solo una nazione anonima ed arretrata, poi che fosse un terrorista, ma di persona faceva decisamente un altro effetto; riconosceva in parte il suo stesso sguardo in quegli occhi cupi e determinati che sopprimevano la paura innegabile con la fermezza. “Ho pensato di fartelo conoscere: avete tante cose in comune e tante altre di cui parlare, suppongo.”
“Piacere.”
La stretta di mano di Serbia fu serrata e decisa, più forte di quella blanda di Settentrione.
“Piacere mio…”
 
Quando si presentò al cospetto di Austria non era più lo stesso.
Gettò il secchio a terra, con fare provocatorio, e l’acqua torbida e avvelenata prese a scorrere sul marmo bianchissimo del palazzo, infiltrandosi tra le fessure candide: Austria, avvertendo lo schianto, sollevò appena lo sguardo su di lui, per nulla impressionato; immaginava si trattasse della solita maldestra distrazione da parte del suo vecchio subordinato ma, quando si accorse che Feliciano gli scontrò quello sguardo ardente e che quindi qualcosa era cambiata, finse di non vedere nulla.
“Raccatta e pulisci” sentenziò con disprezzo, poi tornò a voltargli le spalle ma non vide dal riflesso del finestrone lucido il ragazzo chinarsi, tutt’altro: era ancora in piedi, per giunta osava alzare il mento e fare lo sfrontato con lui. Austria decise di non essere disposto a tollerare oltre.
Si voltò, dunque, accogliendo la ribellione del ragazzo come una dichiarazione di guerra.
“Allora?”
Attese, gelido e sottilmente irato, che scattasse qualcosa: un altro gesto insolente, una parola rabbiosa repressa in tanti anni di sofferenza, ma per lungo tempo non vi fu altro che il silenzio. L’altro si sforzò di non chiudere gli occhi, di non indietreggiare, di puntare dritto al suo orgoglio.
“Perchè l’hai fatto?”, aveva chiesto a Serbia la notte precedente riguardo alla manovra che aveva trascinato il suo paese e l’intera Europa in guerra come prezzo della sua mancata sottomissione, e lui gli aveva risposto “Perché sono nato libero.”
Si sfilò allora dalla testa il fazzoletto candido che aveva adoperato in quanto membro della servitù e lo strinse forte nella mano, mostrandolo ad Austria.
“Non sono più il tuo servo!” sentenziò poi con disprezzo e stizza e lo gettò a terra come se fosse stato il più immondo e misero straccio. Austria aprì bocca per dire qualcosa, ma gli si mozzò quasi il respiro a quella vista e calò di nuovo un tagliente silenzio. “Dovrai fare a meno di me.”
Poi si allontanò, sapendo che Austria non avrebbe mai capito.
Quella stessa sera, con le mani ben accorte a coprire il fono dell’apparecchio telefonico in modo da non importunare il sonno di Romano, chiamò Francia e pronunciò una sola parola.
“Accetto.”
  
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