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Autore: Marti Lestrange    10/05/2013    5 recensioni
Dal testo:
{È che trovo che racchiuda un mistero insondabile, uno di quegli enigmi indecifrabili fitti come un codice miniato di qualche antico popolo estinto, un testo semplice ma allo stesso tempo arduo. Esito, perché quegli occhi azzurri mi parlano, mi guardano attraverso, quasi volessero comunicarmi qualcosa, il segreto della vita. O l’essenza dell’infelicità.}
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non so che cosa sia. È tutto e niente. È il frutto di quella cosa strana chiamata “ispirazione improvvisa”, che ti becca nei luoghi e nei tempi meno indicati, e quando colpisce è inutile combattere, lei vincerà, sempre. È un qualcosa di particolare. Tutto è nato da una signora che l’altra sera è entrata nel negozio in cui lavoro. Non ci ho parlato, ma mi ha in qualche modo ispirata. Sono quelle persone che hanno una storia, come dico sempre io. E ogni tanto mi viene voglia di immaginare le vite altrui, fantasticando. La narratrice sarei io, piccola precisazione. Non si capisce granché, non fornisco descrizioni accurate, e forse vi sembrerà strano, ma questa storia mi è uscita di getto, senza piani precisi. Spero che vi piaccia! Altre note in fondo.

 
 

What have we found? {The same old fears}

 
 

˜Louisiana, Stati Uniti – agosto 1999

Prende sempre l’autobus numero diciassette. Ogni giorno. Alla stessa ora. Le sedici e trenta spaccate. Proprio come me. Lo sferragliante mostro su ruote risalente forse a qualche decennio fa si ferma davanti al piccolo cimitero, emettendo uno sbuffo di vapore. E lei è lì, il cane zoppo al guinzaglio e uno dei suoi soliti completi neri. Veste di nero anche d’estate, quando il caldo quasi ti soffoca. Veste di nero da più di cinquant’anni, ormai, tutti lo dicono, in città. Da quando suo marito l’ha lasciata. Da quando è morto. E, da più di cinquant’anni, ogni giorno va a trovare una tomba vuota, porta dei fiori di campo e gli parla, gli racconta la sua vita, le piccole cose di ogni giorno.

L’autobus riparte sferragliando, quasi barcollando leggermente sull’asfalto scuro e bruciato. Si siede sempre allo stesso posto, sul sedile in fondo, quello accanto al finestrino. Il cane le si accuccia ai piedi e sospira, il guinzaglio rosa abbandonato sulla sua pelliccia marrone. I suoi occhioni lucenti e grandi mi fissano, quasi vogliano sondare il mio viso. Ogni giorno. E ogni giorno io lo guardo, mi scappa un sorriso e poi, quando è ora di scendere, gli accarezzo la testolina scarna. La sua padrona mi guarda, mi sorride. “Mia cara,” sussurra. “Buona giornata”. L’accento francese è leggero, lo cogli solo se stai attenta.

“Grazie,” rispondo, esitante. Non che mi senta in qualche modo intimorita. È che trovo che racchiuda un mistero insondabile, uno di quegli enigmi indecifrabili fitti come un codice miniato di qualche antico popolo estinto, un testo semplice ma allo stesso tempo arduo. Esito, perché quegli occhi azzurri mi parlano, mi guardano attraverso, quasi volessero comunicarmi qualcosa, il segreto della vita. O l’essenza dell’infelicità.

Prima di scendere esito. Mi volto. Lei è ancora lì seduta, e mi osserva. Al collo indossa una collana con un cameo rosso, che scintilla alla luce del sole che entra dal finestrino polveroso, irradiando il veicolo di riflessi dorati.
“Posso farle una domanda?” le chiedo, aggrappandomi ad un sedile per non cadere.
Lei annuisce.
“Certo, bambina”.
La sua voce è dolce, misurata, quasi vellutata, e mi sfiora le orecchie con delicatezza.
“Dove sta andando?” chiedo, prendendo coraggio. “Ogni giorno prende questo autobus. Alla stessa ora. Torna dal cimitero e sale qui. Dove va?”.
 
La donna mi guarda, mi studia. È attenta.
Sorride ancora una volta.
“Tu dove vai? Ogni giorno. A quest’ora. Scendi di fronte al centro commerciale. Per andare dove?”.
“Al lavoro,” rispondo automaticamente. “Nel piccolo negozio di libri accanto all’uscita”.
Lei annuisce.
“Io semplicemente vado, bambina. Non importa dove e per quanto. Da cinquant’anni, sono come sospinta su questa terra da una forza invisibile. Sono viva, ma sto aspettando che quella forza mi riporti a casa”.
Nelle sue parole colgo l’ineluttabilità. La morte. Una velata tristezza che oscura il sole e mi riempie il cuore di paura. È così, allora? È questa la vita? L’attesa della morte?
 
Annuisco e mi guardo le scarpe, un vecchio paio di Converse All Star gialle, scolorite dal sole e dai ricordi.
“Il cimitero…” comincio, riacquistando coraggio. “È lì che è sepolto, vero? Il suo amore”.
“Sì, sta lì. Il suo corpo non c’è, perso chissà dove nelle acque francesi. Ma la sua anima è sempre con me. Stare davanti a quella lapide grigia mi fa sentire protetta. È come un luogo che conosci, che ti è caro, e al quale sei cosciente di appartenere”.
“Non è triste?” le chiedo. “Andare lì tutti i giorni, portare dei fiori che appassiranno dopo poche ore, fissare quella pietra…”.
La mia voce si spegne.
Lei alza le spalle.
“È la vita, bambina”.
La guardo e mi convinco che è vero, che la vita è così, ti toglie tutto, spogliandoti anche del cuore, per lasciare solo carne e ossa e muscoli, e tu sei lì, in attesa di qualcosa, quando sai benissimo che quel qualcosa potrebbe non arrivare mai.
 
“Sei felice, bambina?”.
La domanda mi coglie alla sprovvista. E la risposta che esce dalle mie labbra mi stupisce ancora di più.
“Non lo so”.
Lei annuisce con fare pratico, comprensiva. Poi allunga una mano verso di me e mi fa cenno di avvicinarmi. Io obbedisco, pietrificata. Mette una mano rugosa, dalle unghie smaltate di rosa, sulla mia. La sua pelle di cartapecora è scura, grinzosa, così diversa dalla mia, liscia e pallida.
“Allora devi continuare ad andare, tesoro. Sempre. Solo così capirai”.
L’autobus si ferma davanti al centro commerciale.
“Ora va’,” mi sussurra amorevolmente facendomi l’occhiolino. I suoi occhi brillano.
Io la guardo e non riesco a spiccicare parola. Scendo dal bus come un automa, mi trascino sul marciapiede e lo guardo scorrere via, per poi scomparire dietro la curva.
 

˜

 
Il giorno dopo, lei non c’è. La fermata davanti al cimitero è deserta, spoglia, c’è solo il sole con i suoi raggi micidiali a riscaldare la terra. A bruciare le ore.
Delusa, mi accascio sul sedile, e la musica mi fa compagnia per un po’, fino a quando anche la voce di David Gilmour* mi diventa insopportabile.
E le sento. Le due vecchie casalinghe pettegole sedute nei sedili di fronte, ingioiellate e profumate per la settimanale gita al centro commerciale.
“Sì, è morta, l’ho sentito stamattina,” dice una, quella bionda con la cofana sulla sinistra.
“Davvero? Non ci credo! E da chi l’hai saputo, Christie?” esclama la sua amica, i capelli lunghi e scuri stretti in uno chignon aristocratico.
“Da Megan, la parrucchiera. A dire il vero, è passato Tom il postino a portale delle lettere e ha informato tutte noi lì presenti. L’hanno trovata a casa, nel suo letto. Il cane uggiolava da ore, quella bestia pulciosa, e i vicini hanno chiamato lo sceriffo, sai com’è. E, quando Bob è arrivato, ha sfondato la porta e beh… hai capito”.
“Povera donna, mi dispiace,” commenta quella con lo chignon, che mi sembra la più ragionevole delle due.
“Beh, era vecchia, Taylor, avremmo dovuto aspettarcela tutti, la sua morte prossima”.
“Lo so, è che mi ha sempre fatto tenerezza, con quel suo sconfinato amore per il marito morto, le sue visite quotidiane al vecchio cimitero, quel cane triste che si portava appresso…”.
“Sei una romantica malinconica senza speranza, Taylor, ecco cosa sei,” commenta la bionda tirando fuori dalla piccola borsetta che tiene in grembo uno specchietto dorato, che apre per controllare l’andamento del suo maquillage.
Abbasso lo sguardo, per evitare che veda il mio riflesso nello specchio e mi scopra ad origliare.
 
Morta.
Andata.
Per sempre.
Un groppo mi sale in gola dallo stomaco, o forse da un luogo più remoto e oscuro dalle parti dell’anima, e rimane lì, inespresso, pesante e inesorabile.
Non l’avrei rivista mai più. Anche lei sarebbe stata solo più una pietra grigia e fredda in un piccolo cimitero di provincia.
L’unico pensiero che mi assale, mentre evito deliberatamente la mia fermata e rimango seduta al mio posto, e osservo le due pettegole scendere ridacchiando come bambinette, è che sia tornata finalmente a casa.
 

˜

 
Il sole oggi non è bollente. Riscalda leggermente l’aria, mentre nuvoloni grigi si addensano all’orizzonte, forieri di un temporale in arrivo da ovest.
Il cimitero è tranquillo. Le tombe di famiglia sono tutte raggruppate in fondo, ed evito di guardarle, perché non sono lì per me, per i miei nonni o per qualche zio di terzo grado di cui nemmeno ricordo la voce.
La trovo quasi subito. La tomba è fresca e la lapide è quasi sbilenca, piantata con irregolarità nella terra smossa.
 
 
 

Julie Dumont
7 maggio 1917 – 7 luglio 1999

 
 
Una vecchia foto in bianco e nero è stata inserita nella piccola cornice. Ritrae Julie da giovane, probabilmente nel periodo della guerra. Indossa l’uniforme bianca delle infermiere e dietro di lei si intravede una barella improvvisata. Sorride. Era bella. Molto. Bella e felice, nonostante la guerra, le devastazioni, la morte.
 
Accanto, la lapide grigia e identica di suo marito è adagiata sotto un vecchio platano. Mi sposto e osservo la fotografia. Un giovane ufficiale dell’esercito francese, in uniforme, in fila insieme agli altri commilitoni, pronto per combattere. E per morire.
 
 

Gustave Dubois
Tenente dell’esercito francese – sezione fanteria.
Nato a Lille il 9 agosto 1915 -
morto a Dunkerque il 1° giugno 1940.

 
 
Un leggero uggiolio mi raggiunge da dietro un albero. Mi riscuoto dai miei pensieri e distolgo lo sguardo dalla lapide del capitano Dubois.
Il cane di Julie avanza verso di me, titubante, il guinzaglio che striscia a terra. Io mi chino e gli accarezzo la testa. Sotto il collo indossa una piastrina.
Lady**, eh?” leggo sorridendole. “Certo, il guinzaglio rosa. Avrei dovuto capirlo”.
Lady mi lecca la mano.
Mi rialzo e agguanto il guinzaglio.
“Dai, Lady, andiamo via,” dico. “Andiamo a casa”.

 
 
 


Marti’s
Bene, eccomi qui.
Note obbligate:

  • Il titolo è tratto dalla splendida “Wish you were here” dei Pink Floyd, la mia canzone preferita.
  • Cito David Gilmour, voce dei Pink Floyd, un piccolo omaggio a coloro che ho ascoltato ancora prima di nascere. Grazie, papà.
  • Ladyè un evidente omaggio e riferimento – che solo i fan di ASOIAF e di GOT coglieranno – al metalupo di Sansa Stark nella saga “Le cronache del ghiaccio e del fuoco” di GRR Martin. Sansa è uno dei miei personaggi preferiti, se volete saperlo. Chiudo parentesi.
  • Per quanto riguarda le date, ho calcolato tutto con attenzione. Le info sulla data riportata sulla lapide del tenente Dubois, quella che si riferisce a Dunkerque, rimanda ad una della fasi finali e salienti della battaglia contro i tedeschi.
  • Ovviamente, i nomi sono di mia totale invenzione. Ho immaginato due giovani ragazzi, nati in Francia, che si sposano. Gustave muore a Dunkerque e Julie se ne va in America al termine della Guerra Mondiale, decidendo di stabilirsi in Louisiana – antica colonia francese, giusto per rimanere in tema – e facendo “installare” una lapide per Gustave nel piccolo cimitero del paesino nel quale abita, che è anonimo e sconosciuto e ho deciso di non specificare.

 
Niente, io avrei concluso questa parte barbosa.
Per qualsiasi chiarimento, e/o insulto, e/o domanda, sono qui, as usual.
 
Love love love, M.
 
 

   
 
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