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Autore: Sarah Shirabuki    16/05/2013    1 recensioni
TUTTI I DIRITTI VANNO AI RISPETTIVI AUTORI NATURALMENTE
Un demone del passato viene risvegliato nell'anima di un giovane ignaro, la chiave di un piano diabolico progettato nell'oscurità degli inferi...
Riuscirà la nuova generazione di guerrieri, con gli ormai più adulti mezzosangue e gli indimenticabili eroi del passato, ad evitare la fine del mondo?Questa storia narra le vicende accadute dopo dragon ball GT. Spero che vi potrà piacere.
( dalla storia)
Si destò.
L’irreale giaciglio in cui aveva riposato scomparve con una lenta dissolvenza, la sua forza vitale che tornava a ripopolare quell’universo di materia plasmabile in cui sembrava costantemente di nuotare.
Non sapeva dire per quanto avesse dormito. Forse un’ora, o un giorno, forse anche per un milione di anni. Non avrebbe mai potuto usare quel metro di valutazione, giacché, nel mondo in cui si trovava, il tempo non aveva misura. Lì, in quell’universo parallelo dove le anime giungevano inconsapevoli al finire dei loro giorni, il tempo non aveva né inizio né fine, solo un’inafferrabile estensione verso l’eternità.
E lei, a cui sulla Terra era stato dato il nome di Chichi, sapeva bene che anche la sua stessa consistenza era puramente effimera,
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Un po' tutti | Coppie: Bra/Goten, Pan/Trunks
Note: OOC | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Era sempre una tragedia la mattina seguente all’esame. Gli occhi incollati e pesanti al momento del risveglio, le ossa deboli e doloranti, la testa che scoppiava per il repentino rilascio di tensione accumulata.
Lux avrebbe voluto volentieri tornare a letto, dimenticando lo stress dei giorni passati dovuto all’infondato ma straziante timore di non essere all’altezza dell’interrogazione, ma la colazione in famiglia, al mattino, era diventata una sacra consuetudine, essendo uno dei pochi momenti della giornata in cui si ritrovavano tutti e quattro intorno ad un tavolo.
Sapeva quanto ci tenesse suo padre.
Si trascinò pesantemente in cucina, gli occhi ancora socchiusi e una mano a massaggiarsi la fronte. Sua madre era già lì, i capelli lunghi raccolti in una coda, maglietta sbracciata, jeans e comode scarpe da ginnastica. Nonostante avesse già superato i quaranta e vivesse ormai da vent’anni al fianco di uno degli uomini più importanti del pianeta, Pan Son non si sarebbe mai adattata a fare la ricca signora borghese. Lux sorrise tra se alla sola idea, e gli occhi neri di sua madre, notandogli quell’espressione in volto, sembrarono brillare di gioia.
“Ciao, tesoro!” lo salutò con un luminoso sorriso, mentre trafficava nei cassetti dell’angolo cottura. “Dormito bene?”.
“Come un sasso…ero esausto” rispose lui, mentre afferrava al volo tovaglia e tovaglioli e si accingeva ad aiutarla nell’apparecchiare.
“Ho notato che ieri sera sei tornato a casa tardi” disse la donna con naturalezza, sistemando sul tavolo tazze e piattini.
“Già…scusami, mamma…avrei dovuto avvertirti che non sarei tornato per cena”.
“Non fa niente, Lux, e poi dopo tutto lo stress dell’ultimo esame ti fa bene svagarti un pò” lo rassicurò con un sorriso, voltandosi poi verso di lui con quello sguardo intuitivo che solo una madre possiede. “Ma qualcosa mi dice che non hai fatto tardi per festeggiare il tuo voto”.
Lux abbassò lo sguardo, i suoi occhi azzurri non sarebbero mai stati capaci di celare qualcosa a sua madre.
“Sei di nuovo stato sui Paoz, vero?” gli chiese infatti, la voce calma e priva di accusa.
“Sì…” ammise il ragazzo, alzando le spalle. “Mi sono quasi addormentato lì, ho finito per perdere la cognizione del tempo e…”.
Ma Pan aveva momentaneamente abbandonato il suo lavoro, avvicinandosi lentamente a lui, gli occhi trapelanti una leggera apprensione.
“Cos’è che ti piace tanto di quel posto?” gli chiese, con una semplice, sincera curiosità. “Voglio dire…io ci sono cresciuta, è un luogo calmo, pacifico, suggestivo…ma terribilmente solitario ed isolato…cos’è che spinge un giovane come te, nato e vissuto sempre in città, a rifugiarsi là alla fine del mondo?”.
Lux sospirò. Avrebbe tanto voluto dirglielo, confidarsi con lei, ma neanche lui lo sapeva. Neanche lui capiva perfettamente il perché.
“Non so spiegartelo, mamma…è come un richiamo…” mormorò. “E’ come l’istinto che spinge gli animali verso le loro tane sicure. Io sono spinto lì. Qualcosa dentro di me mi dice che malgrado tutto ciò che credo di essere, il mio vero posto non è altro che in quelle terre selvagge”.
Sua madre sembrò lievemente turbata da quelle parole, probabilmente risveglianti sensazioni lontane nel tempo, segregate ma non sigillate nella lista nera dei ricordi, tuttavia alzò gli occhi verso di lui con affetto, accarezzandogli dolcemente una guancia.
“Capisco che tu ti senta bene quando vai lassù da solo, Lux…ma ricordati che la tua casa è qui, che noi siamo qui, e che siamo sempre con te…sempre”.
Il ragazzo le concesse un debole sorriso, non le piaceva vederla così, con quell’espressione preoccupata sul volto. Guardandola tornare indaffarata ai suoi fornelli, sperò di cuore di averla rassicurata.
“Buongiorno, amore” la sentì dire con voce dolce, mentre i suoi occhi si rivolgevano verso l’ingresso della stanza, da cui era appena entrato suo padre.
Completo scuro elegante, cravatta leggermente allentata sulla camicia bianca, il volto ancora perfettamente giovanile nonostante l’età  e i capelli lavanda, interrotti da sporadici ciuffi argento, tirati indietro per la maggior parte.
“Buongiorno, Pan” la salutò con un bacio, ancora in parte assonnato. “Questo nodo, stamattina, proprio non mi vuole riuscire!”.
Mentre sua moglie lo raggiungeva e gli allacciava divertita la cravatta, Trunks si voltò verso il figlio, gli occhi azzurri che incontravano i suoi, mentre gli rivolgeva un paterno sorriso.
“Buongiorno, figliolo”.
“Ciao, papà” lo salutò Lux in risposta, continuando a disporre le ultime stoviglie sulla tavola apparecchiata. Aveva alzato gli occhi solo per un secondo, ma sapeva che suo padre lo stava ancora guardando, probabilmente pensando ad un motivo qualunque per attaccare discorso.
“Buongiorno, famiglia!” .
La voce cristallina di sua sorella aveva prontamente interrotto quel silenzio, precipitandosi giù per le scale e baciando affettuosamente, come avesse ancora cinque anni, la mamma e il papà.
“Allora, ragazzi” iniziò Trunks, sedendosi al tavolo insieme agli altri, mentre Pan versava nelle loro tazze del buon caffè. “Ieri sera sono tornato tardi, ci siamo appena visti. Come è andata la giornata?”.
“Oh, lasciamo perdere, papà!” si lamentò immediatamente Fackel, senza accorgersi che lo sguardo del padre si era rivolto per un attimo al primogenito. “E’ stata un incubo…”.
“Cosa è successo, tesoro?” gli chiese Trunks prontamente, mentre una ruga di ansia gli solcava la fronte. “Hai preso per caso un brutto voto?”.
Lux quasi soffocò nel suo sorso di caffè per reprimere il divertimento. O lo faceva apposta, o suo padre continuava a cadere completamente dalle nuvole. Anche i muri dovevano sapere, ormai, cos’era, o meglio, chi era, che a scuola tormentava la piccola Brief.
“Dì un po’, che ha combinato stavolta la cheerleader?”  le chiese Pan, tagliando corto, mentre si portava la tazza alle labbra.
“Non ci crederete mai!” esclamò Fackel, abbandonando momentaneamente la colazione e gesticolando con le mani. “Ha scarabocchiato il mio armadietto con una scritta indegna, trovando l’ennesima occasione per prendermi in giro”.
“Capirai che novità…” commentò atonale Lux, spalmando distrattamente della marmellata su una fetta di pane tostato.
“Non è tutto!” continuò lei. “Mi ha rubato il progetto di fisica di fine anno, lo ha consegnato al professor Ryan e lo ha spacciato per suo!”.
“Scherzi?” tuonò suo padre, leggermente irato. “Ma non può fare una cosa del genere!”
“E invece l’ha fatto…il professore si è un po’ stupito nel ricevere da lei un elaborato del genere, sicuramente avrà intuito che aveva copiato, ma poi ne è rimasto ugualmente contento e l’ha risparmiata da una sicura bocciatura nella sua materia”.
“E tu sei stata lì a fartela fare sotto il naso?” chiese Lux, con un mezzo sorrisetto. “Fackel Brief, il genietto di West City, che si fa fregare da una cheerleader!”.
“Beh…è stato un momento di distrazione” si giustificò lei, senza cogliere il tono leggermente cinico nelle parole del fratello. “Ormai era fatta, non volevo fare una scenata davanti al prof…non mi restava che consegnare il mio progetto di riserva, sempre ottimo ma non interessante come l’altro”.
“ Ma questo non è giusto, tesoro! E’ questione di principio! Se vuoi telefono io al tuo insegnante e…”.
“Trunks!” lo calmò Pan. “Peggioreresti solamente le cose, facendo proprio il gioco di Ramen! Ascolta, Fackel, le tipe come lei meritano solo di essere ignorate! Fattelo dire da una che alla tua età le avrebbe certamente cavato un occhio!”. 
“E’ una parola…” mormorò Fackel, poco convinta, mentre riprendeva arrendevole a mangiare.
“E tu, Lux, cosa mi dici?” chiese Trunks al figlio. “Ho saputo che hai superato brillantemente l’esame, ieri. Complimenti davvero, figliolo”.
Suo padre non mancava mai di rivolgergli quotidiane attenzioni, stimolandolo ed invitandolo di continuo alla conversazione, seppur con modesti risultati. Ma erano ormai tredici anni che ci provava imperterrito, attento a non dare niente per scontato, a non centellinare i complimenti, a non ripetere lo stesso, indimenticabile errore. A volte, suo malgrado, risultava innocentemente patetico.
“Grazie, papà” gli aveva risposto con un debole sorriso, mentre l’uomo, orgoglioso, gli dava una paterna pacca sulla spalla.
“Sai, Lux, pensavo che…sarei molto felice se…volessi fare il tuo tirocinio pre-tesi da me, alla Capsule Corporation…è solo un’idea, la scelta è tua, ma credo che lavorare lì sia proprio quello che hai sempre desiderato…che ne dici?”.
Era sorprendente vedere con quale difficoltà suo padre, brillantissimo uomo d’affari, avesse pronunciato quella frase, come se quella domanda fatidica potesse finalmente segnare uno storico punto di svolta, che avrebbe per sempre cambiato le cose tra di loro o conservato per sempre quel sottile strato di indistruttibile vetro.
Non era tutto così semplice. Non era semplice come porre al figlio quella domanda retorica, quella dimostrazione di fiducia e di stima che aveva sempre desiderato e che aveva atteso con ansia. Non lo era neanche come aspettarsi una parimenti scontata risposta, che avrebbe fatto finalmente e indiscutibilmente tutti contenti.
Si limitò a sorridergli. Un sorriso che poteva voler dire tante cose, e, allo stesso modo, poteva non voler dire proprio nulla.
 
Quando Golden tornò a casa, quella mattina, sua madre doveva essere già uscita per andare a lavoro, dal momento che la sua aerodinamica aircar non era più parcheggiata nella piccola piazzola di sosta a lato della casa. Suo padre, invece, sicuramente sarebbe stato ancora sotto le coperte per via del pub, ma il ragazzo preferì ugualmente attraversare il giardino ed entrare dalla porta sul retro, di gran lunga meno in vista.
Entrò in casa con un sospiro di sollievo, i capelli ancora scarmigliati e i vestiti del giorno prima abbottonati male. Quasi sobbalzò di sorpresa alla vista di suo padre, seduto tranquillamente in poltrona in maglietta bianca e pantaloni del pigiama, che lo fissava con assoluta naturalezza.
“Buongiorno, Golden” lo salutò. “O dovrei dire buonanotte, visto che, a quanto mi risulta, non sei ancora andato a letto?”.
Il giovane colse nella voce del padre una punta di noioso rimprovero. Non ci credeva, sua zia Pan, quando le diceva che suo padre riusciva ad essere estremamente asfissiante e ficcanaso. Sosteneva addirittura che, probabilmente, non stavano parlando dello stesso Son Goten.
“Ho passato la notte a Satan City” lo liquidò frettolosamente, avviandosi su per le scale trasparenti. “Credo di essere abbastanza grande per permettermelo senza dover dare spiegazioni, non ti pare?”.
“Certo, Golden, ma…dimmi, chi è la fortunata, questa volta?”.
Non era stata certamente una domanda complice tra padre e figlio, quella, avrebbe anche potuto sembrarlo se Golden non avesse conosciuto l’opinione di suo padre riguardo al genere di donne che frequentava, ma quello era solo un modo fuorviante per fargli un altro dei suoi rimproveri.
Decise comunque di approfittarne e stare al suo gioco, anzi, la cosa lo divertì a tal punto da tornare indietro sui suoi passi, finendo per sedersi scompostamente proprio nella poltrona davanti a suo padre.
“Oh, papà, era uno schianto, non immagini neanche!” iniziò, fingendo di rivolgersi ad un comune amico, mentre fissava sognante il soffitto. “Sapessi che corpo…e che ardore…sai, io ce l’ho messa tutta, ma lei sembrava non averne mai abbastanza…”.
“Credo di essere rimasto indietro” lo interruppe Goten, cambiando discorso, evidentemente, pensò il ragazzo, la strategia di fare l’amico come scusa per dirgliene quattro non solo non funzionava, ma poteva anche essere piuttosto imbarazzante. “Ero convinto che uscissi con la figlia di Roger Magnus, il ricco imprenditore di Satan City…o almeno, è quello che sostiene la stampa”.
Gli lanciò una delle riviste di sua madre che erano sull’ovaleggiante tavolino di cristallo, la pagina aperta ad una sua foto notturna e sfocata che, con un alto ingrandimento, lo immortalava abbracciato ad una deliziosa biondina all’uscita di un galà dell’alta società.
“Violet Magnus? Sono uscito solo un paio di volte con lei, non le devo niente!”.
“Chissà se sarà d’accordo quando vedrà sui giornali le tue foto con un’altra, appena tre giorni dopo…mi sembra che i giornalisti ci abbiano preso gusto ad andare a scoprire chi sarà la tua prossima fiamma” disse Goten con rassegnazione.
“E allora?” si giustificò il ragazzo. “Io non faccio promesse a nessuna di loro. Ci divertiamo, e se i paparazzi ci beccano, tanto meglio. Un po’ di pubblicità reciproca non fa mai male”.
“Pubblicità per che cosa? Per l’azienda di tuo zio?” chiese il padre sconvolto. “Mi sembra che abbiano lanciato un’adeguata campagna pubblicitaria per questo, senza bisogno di qualcuno della famiglia particolarmente egocentrico che andasse in giro a far parlare di se e della sua sfrenata vita mondana, non ti sembra?”.
“Ma che vuoi saperne tu di come funzionano le cose in quest’ambiente!” si difese Golden, alzandosi spazientito dalla poltrona. “A te non sono mai piaciuti i riflettori, e non dovrai preoccupartene, visto che di certo non andranno mai a puntare la loro luce su di te!”.
Goten incassò con amarezza l’ennesima sconfitta, non per ciò che gli era stato detto, sapeva che erano solo parole, ma semplicemente amareggiato dall’ennesima dimostrazione della strafottenza e della superficialità di suo figlio, delle quali, seppure inconsapevolmente, l’unica vittima era solo lui stesso.
 
“Uova, carne o pesce, signorina?” chiese senza troppo garbo la vecchia signora della mensa, i capelli grigi raccolti in una retina e il grembiule sporco di sugo.
“Pesce, grazie” rispose senza troppi dubbi Fackel, mentre già la fila interminabile di studenti dietro di lei la pressava noiosamente, ognuno impaziente di ottenere il proprio turno. Per fortuna, Nebe aveva già occupato due posti ad uno dei tavoli della spaziosa stanza.
“Oh, finalmente!” gioì la ragazza distrutta, appoggiando sul tavolo il vassoio e sedendosi davanti all’amico. “Ogni giorno fare la fila per pranzare è un vero incubo!”.
“Almeno fosse buono il cibo!” aveva osservato il ragazzo con un rassegnato sorriso.
In realtà, a Nebe non importava un bel niente se la mensa era disgustosa, o se per avere il proprio pasto dovevi fare a botte con gli altri studenti. Non se poi il risultato era sedere lì insieme a lei, per una buona mezzora, chiacchierando, scherzando, raccontandosi come avevano passato la mattina…
Non c’era niente di più gratificante del semplice guardarla sorridere, parlare, mangiare. Starle accanto e condividere il suo tempo con lei. Bastava questo, a Nebe, per veder spuntare il sole anche in una giornata piovosa.
Esultanti gridi maschili richiamarono l’attenzione di tutta la sala mensa, mentre i giocatori della squadra di baseball facevano rumorosamente il loro ingresso nella stanza, accompagnati da un festoso quintetto di cheerleaders.
“Non ti voltare, Fackel” le consigliò Nebe, a bassa voce, che era seduto in direzione dell’ingresso. “Ma stanno arrivando le scocciatrici…”.
La ragazza si girò invece istantaneamente, incrociando per un paio di secondi gli occhi azzurri della sua odiosa rivale dai capelli rossi, un breve ma intenso sguardo che sembrò emettere scintille in tutto il suo percorso. Tuttavia, per il momento, Ramen e le sue compari sembravano occupate ad acclamare i loro campioni.
Zeme lanciò un altisonante ululato di gioia, agitando in aria il berretto, mentre i sorridenti compagni di squadra, tutt’intorno, sembravano idolatrarlo con improvvisati cori.
“Urrà per il nostro capitano! E per la qualificazione in finale dell’Orange Star! Urrà urrà!!”.
Le cheerleaders batterono vivacemente le mani, mentre Zeme stringeva a se la sua ragazza e le stampava un festoso bacio sulle labbra, invidiato da buona parte dei ragazzi ai tavoli che, abbandonato momentaneamente il loro boccone, si erano incantati a guardare la scena.
“Poveri illusi…” commentò tra se Fackel, sbocconcellando distrattamente il suo pesce. “Cosa ci troveranno in una come lei…che oltre ad essere tutta scena e poca sostanza, ti guarderà sempre dall’alto in basso a meno che tu non sia vincente e popolare!”.
Nebe aveva sorriso, la conosceva troppo bene per non notare che, oltre ad un inevitabile odio, doveva provare anche una punta di infondata gelosia nei confronti della cheerleader.
“Fammi indovinare, Nebe…in questo momento sta scegliendo il menù più dietetico, con le sue insalatine scondite ed i suoi yogurt magri…sta già bloccando la fila da un paio di minuti, ma nessuno oserà mai dirle niente…e poi, con il suo passo sicuro e lo sguardo alto, si avvierà verso il tavolo d’elite delle cheerleaders e dei giocatori di baseball, dal quale non verrà sollevato un solo argomento, con un minimo di spessore, che andrà oltre a palle, mazze e saldi di primavera…”.
“Come è finita poi tra te e Ramen, per l’incidente dell’altro giorno?” le chiese lui con sana curiosità.
“Non è finita…” rispose lei, con una strana luce negli occhi che preoccupò leggermente il ragazzo. “Non è affatto finita…”.
Nebe preferì non immaginare cosa avrebbe potuto fare la dignità ferita di una ragazza che, nonostante l’indole calma e razionale, dopo un anno di frecciatine, di dispetti e di piccole sfide quotidiane, si vedeva anche derubata, attraverso il progetto scolastico, della propria mente, ritenuto unico vantaggio nei confronti dell’altra e definitiva goccia in grado di far traboccare il vaso.
Non avrebbe voluto immaginarlo, ma, suo malgrado, non dovette attendere molto per scoprirlo. Solo il tempo che impiegò Ramen per attraversare, munita del suo vassoio, lo stretto corridoio che separava due file di tavoli, a sinistra della quale sedevano lui e Fackel. Successe tutto molto in fretta, ma nel momento in cui la Brief allungò la gamba di lato appena davanti ai piedi della cheerleader, Nebe desiderò con tutto se stesso che quella scena stesse avvenendo esclusivamente nella sua mente, al sicuro da conseguenze.
Ma non fu così. Ramen venne proiettata immediatamente in avanti, finendo a peso morto su uno dei tavoli già occupati, il viso spiaccicato sul contenuto del vassoio, schizzato in buona parte sui vestiti dei malcapitati studenti.
Quando infine si rialzò lentamente, nella stanza scese un immediato, allibito silenzio: la capo cheerleader della squadra di baseball, nonché reginetta dell’anno e la studentessa più invidiata, temuta e popolare del liceo, aveva la faccia gocciolante di yogurt, i capelli zuppi di chissà quale disgustosa minestrina e la parte superiore della divisa macchiata di sugo, con pezzi di pane e foglie di insalata catturate dalla generosa scollatura.
Zeme, poco lontano da lei, non seppe trattenere un’innocente risata, che immediatamente contagiò qualche altro giocatore, rincuorato dalla rischiosa iniziativa del loro capitano.
“Non è affatto divertente!” sbottò la ragazza verso di lui, per poi girarsi di scatto verso Fackel e indicandola minacciosamente con un dito. “Tu!” .
Fackel la fissò con indifferenza, un divertito risolino nascosto dal boccone di pane che stava masticando.
“Qualche problema, Ramen?” le chiese candidamente, con un sorriso gentile, mentre Nebe, portando le mani al volto, avrebbe volentieri voluto entrare sotto al tavolo.
La rossa cheerleader strinse i denti con rabbia, mentre afferrava un piattino di dolce dal primo vassoio a portata di mano e lo scaraventava in direzione della Brief. Ma questa abbassò la testa prontamente, e la fetta di torta finì sulla nuca di un ragazzo del tavolo dietro.
“Ehi!” protestò questo, mentre il ripieno di crema gli scivolava sul colletto della maglietta. “Ma chi è stato!?”.
Senza trovare il diretto responsabile, lo studente approfittò per scagliare il suo pranzo verso il gruppo di giocatori di baseball, che continuavano a ridacchiare divertiti, i quali non accolsero certo la provocazione senza un’adeguata risposta di gruppo.
In men che non di dica, nonostante gli scandalizzati ammonimenti della signora della mensa, la stanza si trasformò in un vivace e chiassoso campo di battaglia, dove le munizioni di cibo volavano indisturbate nell’aria ad imbrattare progressivamente tutti e trecento gli studenti, nascosti invano dietro ai tavoli velocemente disposti a mo’ di barricate.
Fackel cercò di dileguarsi velocemente dalla sala, cercando di raggiungere la porta senza essere casualmente centrata da bignè alla frutta o da uova sode, ma la sua maglietta fu improvvisamente trattenuta da dietro.
“Dove credi di andare, Chioma Stinta!”.
La cheerleader, il viso e gli indumenti ancora parzialmente imbrattati, l’aveva fronteggiata con sguardo talmente raggelante che, per un momento, Fackel pensò che stesse quasi per stringerle le mani al collo. Ma non lo fece.
“Tu sei finita, Brief, sei morta!” le promise, occhi negli occhi, a pochi centimetri dal suo volto. “Io…io…”.
Ma non riuscì nemmeno a finire la frase, giacchè, in quello stesso momento, il preside del liceo spalancò le porte della sala mensa con gli occhi fuori dalle orbite, mettendo rapidamente fine a tutto quel trambusto.
“Ma che diamine sta succedendo, qui??” sbraitò, scioccato. “Chi sono i responsabili di tutto ciò?”.
Le facce degli studenti, ammutolite e seminascoste, si fissarono tutte in direzione delle due ragazze che, in piedi l’una di fianco all’altro a pochi passi dal preside, abbassarono gli occhi con imbarazzo.
 
* * *
 
Bulma assistette allibita al repentino spegnimento del computer, mentre le luci dell’archivio, con un sibilo soffocato, lo imitavano arrendevoli. Una silenziosa oscurità scese lenta nella stanza, lasciandola completamente al buio.
Che ci fosse stato un guasto nel generatore di antimateria? Avrebbe anche potuto ripararlo, se solo fosse riuscita a trovare lo scouter, in grado di permettere la visione ad infrarossi…
Mentre lo cercava frettolosamente a tastoni sulla disordinata scrivania, qualcuno la sorprese da dietro, cingendole la vita con forti braccia.
Aveva gridato d’istinto, prima che una mano le coprisse frettolosamente la bocca e una voce familiare le sussurrasse qualcosa all’orecchio:
“Sshhh! Vuoi che Enma riesca a sentirti fin dall’altra parte del palazzo?!”.
Rassicurata, era scivolata allora in quella stretta, ma non prima però di rimproverarlo:
“Vegeta! Mi hai fatto spaventare! Piombare qui al buio e sorprendermi alle spalle!”.
“E chi credevi che fosse? Non sarai mica diventata paranoica come il namecciano!”.
“Ma no! E’ che…ti sembra il caso…staccare la corrente e distrarmi dal mio lavoro! Se lo sa Enma, ti spedisce di nuovo a spalare carbone!”.
“Ma se non hai niente da fare! E poi, non mi va che quell’energumeno possa averti a disposizione tutto il giorno!”.
Bulma aveva sorriso, accarezzando, al buio, i tratti marcati del volto del suo principe, fino ad arrivare ai folti capelli corvini e alle infernali protuberanze che ora gli uscivano dalle tempie.
Quanto le era caro quel contatto…
Anche se i loro corpi non erano altro che un parto della loro forza di volontà, scaturito dall’energia vitale che le loro anime possedevano, le sensazioni che la loro vicinanza le trasmetteva avevano un sapore buono, piacevole, quasi più profonde ed appaganti di quelle che si potevano provare in vita.
Aveva abbandonato tutto pur di potergli stare accanto di nuovo…lei, la sua immagine, il suo senno, il suo lavoro, la sua famiglia…la famiglia che, per quanto bizzarra, era tutto ciò che desiderava, immortalata da quel vecchio scatto, quello che lei aveva definito la foto perfetta, nel ritrovamento della quale aveva investito alcune delle sue ultime energie, gli ultimi sprazzi di una ragione ormai perduta…
Ma quella famiglia perfetta aveva smesso d’esistere, nel momento stesso in cui l’uomo che amava le era stato portato via. E chi incolpare per questo? A chi rivolgere la propria rabbia, quando non c’era più un vero colpevole per quell’irreversibile perdita?
Il suo Trunks…lui l’aveva già perdonata, ma mai avrebbe perdonato se stessa per non avergli detto addio…
“Tu, oscuro peccatore, non dovresti stare qui ad infastidire un’anima celeste!” lo rimproverò bonariamente. “Sono le regole!”.
“Stupidaggini!” sbuffò il sajan, stringendola di più. “Sai che me ne sono sempre fregato delle regole!”.
Le loro labbra si incontrarono nell’oscurità, assaporando quell’unione tanto attesa, mentre un fastidioso trillo interrompeva bruscamente quel contatto.
“Che diavolo c’è, ora?” sbraitò Vegeta, afferrando il cercapersone dalla tasca dei pantaloni. “Quegli incapaci! Vogliono che li raggiunga nell’ultimo girone, dicono che è un’emergenza!”.
“Oh!” esclamò Bulma, stupita. “E’ meglio che tu vada, allora! Sai già di che si tratta?”.
“No, ma sicuramente è in corso l’ennesima insurrezione ad opera dei dannati, e come al solito, se non intervengo io, gli altri non sanno dove mettere le mani!”.
 
Il girone era calmo, insolitamente tranquillo, le anime infernali silenziose nelle loro nicchie buie, ad attendere con rassegnazione il loro turno nell’espiazione delle pene più gravi.
Al limitare del cerchio intravide tre luminose aureole, più un paio di corna al di sopra di lisci capelli biondi. Crili, Yamcha, Tensing e 18, il quartetto che, per l’ennesima volta, gli doveva delle esaurienti spiegazioni.
“Allora, quale sarebbe l’emergenza?” chiese loro, fulminandoli uno ad uno con lo sguardo. “Non vedo nessun problema!”.
“Ecco…” rispose timidamente Crili. “Il problema è…lui!”.
Aveva seguito lo sguardo incerto del nanetto, finendo per imbattersi in una figura ancora più piccola, che avvicinandosi nemmeno aveva notato, e che ora si stringeva nelle spalle ai piedi di Yamcha e Tensing, che lo controllavano a vista.
Un rivoltante mostriciattolo giallognolo, che adesso lo guardava dal basso con gli occhietti tondi che sbattevano confusi.
“Babidi??” chiese, sgomento. “Ma che diavolo…”.
“L’abbiamo trovato aggirarsi in zona proibita con fare sospetto” gli spiegò Tensing, lanciando occhiate minacciose al maghetto, dall’alto della sua statura.
“Era all’ingresso del Cocito” precisò Yamcha. “Sembrava voler trovare un modo per entrare!”.
“No, no, non è vero!” negò Babidi, rivolto supplicante in direzione di Vegeta. “Io stavo solo passeggiando, e sapete come succede, cammina, cammina, ho smarrito la strada!”.
“Taci!” lo zittì 18, il pugno abbassato verso di lui ed il grande desiderio di tirare un calcio in quella testa rugosa.
Babidi si fece ancora più piccolo, sparendo quasi all’interno del suo lungo mantello.
Vegeta si avvicinò di qualche passo, ma il suo sguardo tagliente era indirizzato, più che al mago, al quartetto di shinigami.
“Qualcuno vuole di grazia spiegarmi cosa mi avete chiamato a fare??” chiese irato, il tono di voce che cresceva ad ogni sillaba.
I quattro si guardarono dubbiosi, per poi lasciare la parola a Yamcha:
“Pensavamo che stesse architettando qualcosa! Se fosse entrato là…”.
“Già, se fosse entrato là? Per sua sfortuna si sarebbe trovato in mezzo all’enorme ghiacciaio perenne, e se anche per caso fosse riuscito ad attraversarlo, beh, non credo che avrebbe apprezzato ciò che c’è dopo!”.
Babidi annuì vigorosamente, mentre un sorrisetto sollevato si faceva strada sul suo volto da insetto:
“Sì, sì, infatti! Io stavo solo cercando di capire dove mi trovavo!”.
“Ma insomma!” protestò Tensing, ormai agitato. “Non mi sembra normale che un dannato come lui si aggiri liberamente per gli inferi!”.
“Bene, allora riportate il microbo nel suo settore! C’era bisogno di chiamare me per farlo!?”.
Mentre Tensing si allontanava scuotendo la testa e 18 afferrava Babidi per il mantello con poca delicatezza, Yamcha incrociò le braccia al petto, borbottando tra se:
“Già! Peccato che quando non viene chiamato abbia lo stesso da ridire!”.
Ma Vegeta, a cui non era sfuggita la frase, tornò davanti allo shinigami, guardandolo con superiorità:
“Ti ha forse interpellato nessuno?”.
 
* * *
 
Una piccola lampada da tavolo a basso consumo, solo quella ad illuminare le pagine ingiallite di quel vecchio manoscritto, lasciando gli angoli più lontani della stanza immersi in una cupa oscurità. Da fuori, arrivavano ovattati i rumori serali della città, voci lontane o motori passanti, mentre l’ostello studentesco già riposava silenzioso dopo il puntuale annuncio del coprifuoco.
Anche le sue due coinquiline dovevano già dormire, nelle quiete camere attigue, ma lei, nonostante la leggera stanchezza, vegliava insonne su pagine ormai lette e rilette:
Non ci credo ancora. L’ha fatto entrare in casa sua. Gli ha dato da mangiare, da bere, perfino un letto per dormire. Lei sembra sicura di quello che fa, ma io sono preoccupato…
Non dovrebbe condividere lo stesso tetto con un individuo del genere.
Quello era stato solo l’inizio, pensò, mentre saltava qualche pagina. Sapeva a memoria quali fossero state le conseguenze di quella follia. Eppure, adesso aveva un gran bisogno di rileggere quelle righe, scritte con la calligrafia un po’ trasandata di chi, in vita, non ha mai avuto un gran bisogno di usare una penna:
Era stato come un boato, un’esplosione improvvisa. C’eravamo precipitati immediatamente là, verso quell’ammasso di macerie che restava del lavoro di mesi. Anche prima di arrivarci, sapevamo già chi ne fosse l’artefice. E infatti eccolo là, violabile e indifeso come mai avevo avuto occasione di vederlo, un’immagine così inusuale che, per un momento, quasi non mi sembrò trattarsi della stessa persona presuntuosa ed arrogante che mi ha sempre guardato come fossi un insetto.
Ma poi, ecco che lei gli va incontro, da crocerossina compassionevole…ed era proprio compassione quella che vedevo nei suoi occhi, quella che l’ha spinta poi a vegliarlo giorno e notte per tutta la convalescenza. Gli stava vicino, pericolosamente vicino…
Io ho tentato di metterla in guardia, ma erano solo parole gettate al vento, perché lei ormai non mi sentiva più…
Nei suoi occhi, adesso, non c’era più soltanto compassione…
Passò di nuovo oltre, gli avvenimenti che seguivano erano ormai più che scontati. Ma c’era una cosa che non capiva ancora, una frase datata qualche anno dopo, sul finire di quel vecchio quaderno, in apparente contrapposizione a tutti i sentimenti che quelle parole avevano precedentemente trasmesso:
Sembra felice. E’ strano, probabilmente non capirò mai come possa appagarla un rapporto del genere, o un erede in cui per metà scorre il sangue di un pericoloso alieno dalla statura limitata, ma non sta certo a me dare giudizi. Io ne ho perso il diritto già da molto, e, devo ammettere, me lo sono proprio meritato.
Forse non condividerò mai le sue scelte, ma non per questo la odierò. Tutto ciò che posso fare, adesso, è concedere il mio aiuto qualora ce ne fosse bisogno, intervenire sempre al fianco di coloro con cui, nel bene e nel male, ho condiviso segreti ed esperienze.
Non sarà molto, ma è mio dovere.
Chiuse il manoscritto, sbuffando leggermente.
No, non era affatto giusto. Quella era stata una resa, una sconfitta accordata, un’umiliazione troppo grande, inflitta da chi aveva preteso di prendersi ciò che non gli apparteneva.
Chi aveva scritto quelle pagine aveva lasciato correre passivamente, non avrebbe potuto fare altrimenti, ma ora, anche a distanza di molti anni, le cose si sarebbero aggiustate, il torto scontato.
La giusta vendetta veniva finalmente realizzata.
 
Continua…
  
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