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Autore: Sarah Shirabuki    15/05/2013    0 recensioni
TUTTI I DIRITTI VANNO AI RISPETTIVI AUTORI NATURALMENTE
Un demone del passato viene risvegliato nell'anima di un giovane ignaro, la chiave di un piano diabolico progettato nell'oscurità degli inferi...
Riuscirà la nuova generazione di guerrieri, con gli ormai più adulti mezzosangue e gli indimenticabili eroi del passato, ad evitare la fine del mondo?Questa storia narra le vicende accadute dopo dragon ball GT. Spero che vi potrà piacere.
( dalla storia)
Si destò.
L’irreale giaciglio in cui aveva riposato scomparve con una lenta dissolvenza, la sua forza vitale che tornava a ripopolare quell’universo di materia plasmabile in cui sembrava costantemente di nuotare.
Non sapeva dire per quanto avesse dormito. Forse un’ora, o un giorno, forse anche per un milione di anni. Non avrebbe mai potuto usare quel metro di valutazione, giacché, nel mondo in cui si trovava, il tempo non aveva misura. Lì, in quell’universo parallelo dove le anime giungevano inconsapevoli al finire dei loro giorni, il tempo non aveva né inizio né fine, solo un’inafferrabile estensione verso l’eternità.
E lei, a cui sulla Terra era stato dato il nome di Chichi, sapeva bene che anche la sua stessa consistenza era puramente effimera,
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Un po' tutti | Coppie: Bra/Goten, Pan/Trunks
Note: OOC | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Era tutta un’allegria di colori per le strade di Satan City, quella mattina di Maggio.

Il cielo era di una limpidezza estrema, su in alto, a fare da sfondo agli innumerevoli edifici che proiettavano in alto la città, facendo da ombra al viavai di persone che, ormai vestite di abiti leggeri, si incrociavano frettolose davanti ai negozi, agli uffici e alle banche. Ma c’erano anche tanti parchi, a Satan City, tante isole verdi decorate dai deliziosi alberi in fiore che, insieme alla lenta e suggestiva danza di polline, mandavano nell’aria un piacevole profumo.

Ed era appunto il dolce odore di fiori di ciliegio che raggiunse il bel nasino della ragazza, facendola inspirare profondamente, a pieni polmoni. Era un vero toccasana, dopo la quotidiana ora di volo da West City.

Fackel Brief adorava la primavera. Adorava i profumi, i colori, le temperature più calde ma non troppo, i sorrisi più aperti della gente. I suoi coetanei, in più, avrebbero detto di attenderla con ansia anche per l’avvicinarsi della fine di un lungo anno scolastico.

Ma Fackel non l’attendeva con ansia. Per quanto fosse la sua stagione preferita, la sua semplice logica diceva che reclamarla costantemente non sarebbe servito a farla arrivare prima. Le stagioni, come tutte le cose del suo mondo, avevano un ciclo prestabilito, una durata fissa, un inizio e una fine. Variabili, piacevoli o spiacevoli che fossero, da inserire dentro un’ inconfutabile, rassicurante equazione.

Attraversò a passo svelto l’ultimo incrocio, per poi trovarsi davanti agli occhi la lussuosa villa che si stagliava alla fine di quel tranquillo viale residenziale, delimitato da palme.

Qualcuno, dal giorno prima, aveva accuratamente tagliato la siepe del giardino. Fackel sorrise tra se, pensando all’immagine del Campione del mondo, ormai in carica indisturbata da più di vent’anni, in vesti di meticoloso giardiniere, con tanto di forbici e falciatrice. E magari, invece della tuta da lavoro, l’immancabile e simbolica divisa da combattimento.

Suonò il campanello, dall’esterno della bella cancellata in stile barocco, netto ma piacevole distacco dall’architettura moderna che anche quella città aveva assunto negli anni.

Una testa bionda si era prontamente affacciata dal portone, rivolgendo un solare sorriso alla giovane. Era avvolta in una lunga vestaglia blu ed il volto, benché stanco, senza trucco e con i primi piccoli segni di anzianità, conservava ancora la dolcezza e la morbidezza che appariva nelle vecchie foto dei suoi.

“Buongiorno, tesoro” le disse calorosamente, nonostante la voce assonnata.

“Buongiorno, Marron” le sorrise la ragazza. “Turno di notte, ieri sera?”.

“Esatto!” ammise lei, scrollando le spalle. “Nebe arriva subito, ormai si è abituato alla tua straordinaria puntualità!”.

E non poteva darle torto. Tutte le mattine, alle otto e trenta in punto, dopo aver volato a media velocità da West City e dopo un indifferente atterraggio in qualche vicolo nascosto della città, dove si aggiustava rapidamente le ribelli ciocche lavanda, era pronta per avviarsi verso il prestigioso liceo Orange Star in compagnia del suo più caro amico d’infanzia.

Piacevole quotidianità.

“Eccomi, sono pronto!” esclamò Nebe, uscendo frettolosamente dal portone, una manica della felpa ancora da infilare e le scarpe sciolte, con i quaderni sotto il braccio che cadevano goffamente a terra per mancanza di sostegno.

Fackel rise divertita, portando una mano alle labbra.

“Rilassati, Nebe! Non perdiamo nessun treno!” esclamò. “Puoi finire con calma di vestirti!”.

Il ragazzo sospirò, appoggiando sul muricciolo laterale il disordinato carico scolastico. Nel volto, che riprendeva in parte il colorito del padre e la delicatezza dei tratti della madre, si delineò un sorriso dubbioso mentre, inginocchiatosi per allacciarsi le stringhe, aveva alzato gli occhi su di lei. Occhi incorniciati da fini occhiali, a parer di lei completamente inutili, visto che in realtà, come il suo fratello gemello, ci doveva vedere benissimo.

“Sei tu che ci tieni a rispettare gli orari, te ne sei dimenticata?” le chiese, senza ombra di scocciatura, ma solo con quella voce bassa e gentile con cui sempre le si rivolgeva. Lo conosceva talmente bene da sapere anche cosa doveva frullargli nella testa in quel momento:

Come cavolo fa Fackel, che abita dall’altra parte del continente, ad esser sempre sveglia e pimpante prima di me che abito a mille metri dalla scuola?

Quello che non capiva, invece, era perché mai Nebe si ostinasse ancora ad adeguarsi ai suoi ritmi che così spesso sembravano gettarlo nel caos. Non gli aveva mai fatto pressioni, eppure ormai era diventata una naturale consuetudine andare a scuola insieme. A dire la verità, era una consuetudine fare insieme tutto, ormai.

Decise di limitarsi a sorridere.

“Zeme è già uscito?”.

“Già…” rispose lui, recuperando i quaderni. “Jogging mattutino…cos’è quello?”.

Il suo sguardo era caduto sul fascicolo bianco che la ragazza teneva in mano, accuratamente rilegato e introdotto da un titolo di copertina che a Nebe fece quasi venire la pelle d’oca.

“Astrofisica applicata” rispose candidamente Fackel, mentre si avviavano lungo il viale. “E’ il progetto di fine anno per il professor Rayan. Ci ho passato la notte a finire gli ultimi dettagli…sai, le equazioni differenziali e le integrazioni tornavano tutte, era l’impaginazione che non mi convinceva!”.

Nebe scosse arrendevolmente la testa. Ormai niente di quella ragazza riusciva più a sorprenderlo.

“Non lo trovi…un po’ elaborato come progetto da studentessa di liceo?” chiese cautamente.

Fackel sospirò, mentre alzava la testa verso la frizzante brezza primaverile.

Diciassette anni, penultimo anno di liceo, e una mente che anche i luminari dei più prestigiosi atenei stentavano a possedere. Era un semplice dono di natura, una facoltà in più dell’essere sajan, qualcosa che poteva facilmente etichettarle l’appellativo di ragazza prodigio. Ma lei non voleva esserlo. Era da molti anni che non lo voleva più. Avrebbe potuto saltare il liceo e passare direttamente all’università, ma tutto ciò che desiderava, in realtà, era solo essere una ragazza come le altre, una studentessa che celava le sue vere capacità dietro una più semplice e comune fama di prima della classe. Voleva solo vivere la sua adolescenza…niente di più e niente di meno.

Ma quella era…

“Quella è la prova per la valutazione finale!” rispose, mentre l’amico scorreva con espressione incomprensibile le pagine del fascicolo. “E quello è il professor Rayan, professore di fisica, che come ben sai è la mia materia preferita. Mi sono solo sbizzarrita un po’…vedrai, non immaginerà mai che quelle deduzioni sono opera mia…penserà che ho fatto solo un’accurata ricerca in rete e una brillante relazione!”.

Continuarono a passeggiare lungo lo spazioso marciapiede, solleticati dal giocoso turbinio di polline, mentre il grande edificio del liceo Orange Star cominciava a stagliarsi dietro l’angolo e le voci dei loro coetanei si levavano alte nell’aria, sovrastando suoni di clacson e motori.

Nebe camminava silenzioso, gli occhi fissi sui suoi piedi con sguardo vagamente pensieroso. Rallentò infine il passo, voltandosi lentamente verso di lei.

“Fackel…” mormorò. “Ma non è che tu…che tu hai una…”.

“Una cotta per il professor Rayan?” lo anticipò lei, divertita dalla sua stessa risposta.

Nebe, figlio del famoso Ub, era al pari di suo padre straordinariamente prevedibile. Era per questo che si era sempre trovata bene con lui.

“Andiamo, non dire sciocchezze!” continuò la ragazza, ridendo, mentre lui allontanava lo sguardo. “Non nego che sia un uomo affascinante, ma ciò che mi interessa è solo il giusto riconoscimento alle mie teorie…visto che ancora non posso pubblicarle in riviste scientifiche!”.

Nebe accennò un mezzo sorriso, aggiustandosi distrattamente gli occhiali sul naso, mentre dall’interno della scuola, puntuale come un orologio, risuonava la musica metallica delle prima campanella.

 

La grande aula magna dell’università di West City era delicatamente accarezzata da tiepidi raggi solari, che, filtrando timidamente attraverso le tapparelle delle alte finestre, creavano una piacevole atmosfera ovattata nella voluta semioscurità della stanza. Solo la spaziosa cattedra di legno rifletteva la fluorescenza dell’enorme schermo a parete a lato di essa, sul quale si alternavano complesse formule matematiche, mentre il pubblico di studenti, distribuito nelle ultime e più alte file dell’aula circolare, era solo debolmente rischiarato dalle sporadiche macchie di luce, nascondendosi da esse nell’ansiosa attesa del proprio turno d’esame.

Il professor Ross, uno dei più pretenziosi e severi docenti della facoltà di ingegneria, annuiva con interesse, seguendo l’esposizione del giovane studente al di sopra degli occhiali scivolati sulla punta del naso. Uno dei due assistenti, che sedevano alla cattedra ai lati del professore, fissava con stupore la risoluzione del problema che, attraverso un semplice proiettore, veniva trasmesso allo schermo gigante, mentre l’altro scarabocchiava distrattamente il foglio che aveva davanti, consapevole che, ai suoi tempi, difficilmente avrebbe saputo rispondere ad una domanda del genere.

“Può bastare così, signor Brief” annunciò infine l’anziano professore. “Il suo esame è stato più che soddisfacente. Un altro trenta e lode a confermare il suo ottimo curriculum accademico”.

Il ragazzo sorrise debolmente, alzandosi in piedi e stringendo la mano del professore e degli assistenti, che si preparavano ad annotare il suo voto sul libretto universitario. Non il sorriso entusiasta ed eccitato di chi ha avuto un piacevole successo, come sarebbe stato per la maggior parte degli studenti dietro di lui nell’ottenimento di un risultato del genere, ma l’espressione consapevole di chi, fin dall’inizio, sa che l’unica conclusione accettabile è solo e solamente quella.

Perché era così che Lux Brief concepiva i progressi negli studi. Non un successo personale, non un traguardo da sfoggiare con orgoglio, ma solo, né più né meno, l’adempimento del proprio dovere. Solo un modo come un altro per far degnamente parte di quel maledetto mondo.

Si allontanò dalla cattedra, mentre un altro studente veniva chiamato e si accingeva a raggiungere timidamente il trio di esaminatori. Una volta fuori dall’aula, richiusosi dietro le spalle la grande porta, aprì di nuovo il suo libretto universitario, sfogliandolo con una rapida occhiata.

In un anno e mezzo aveva macinato più esami di quanti il suo piano di studi prevedesse, creandosi una media invidiabile, nota ormai a tutti i docenti. Di questo passo si sarebbe presto laureato con il massimo dei voti, e le strade che si sarebbero aperte davanti a lui sarebbero state infinite.

Già vedeva la faccia di suo padre alla sua futura tesi, radioso nel suo completo elegante, orgoglioso di presentarsi come il padre della nuova promessa dell’ingegneria aerospaziale. Lo vedeva avvicinarsi a lui, abbracciarlo sorridente, poi chiedergli perplesso:

Non sei contento, Lux?

E lui, rispondergli mentalmente:

Scherzi, papà…perché non dovrei essere contento? Ho atteso tutta la vita per essere guardato da te in questo modo, per compiacerti il più possibile! Perché per me non è facile come per la tua Fackel, sai…a me non basta sfogliare distrattamente un libro di fisica per capire immediatamente di cosa tratta, io non ho l’intuito eccezionale di tua figlia, io devo metterci l’anima nello studio, devo passarci nottate insonni, giornate stanche, terribili emicranie…e tuttavia l’ho fatto, papà, l’ho fatto al meglio che potevo. Perché desideravo solo questo momento.

Ma allora perché il suo viso restava impassibile, senza nessun sorriso ad illuminare i suoi tratti?

Attraversò stancamente il corridoio, zaino in spalla, testa bassa, i capelli corvini che gli coprivano parzialmente gli occhi di un azzurro luminoso, che risaltavano come gioielli sul suo abbigliamento decisamente scuro. Voltato l’angolo, poco lontano dalla portineria, un ragazzo e una ragazza, suoi colleghi di corso, distribuivano volantini.

“Lux Brief, vero?” chiese il ragazzo, avvicinandosi a lui nel tentativo fallito di porgli uno dei colorati annunci. “C’è una festa universitaria stasera al West club, biglietto d’ingresso a metà prezzo per gli studenti, che dici amico ti interessa?”.

“No, grazie. Mi dispiace” rispose educatamente, con un mezzo sorriso.

“Sei sicuro?” insisté la ragazza. “Domani neanche c’è lezione…ci sarà da divertirsi!”.

“Davvero, non posso. Grazie lo stesso” concluse Lux, mentre i due alzavano le spalle arresi.

Chissà perchè si ostinavano ancora a fargli inviti del genere. Probabilmente non lo conoscevano abbastanza. Probabilmente non avevano ancora capito che ad uno come lui non piacevano le feste. Troppa gente, troppa confusione, troppe relazioni sociali da gestire.

E uno come lui non desiderava altro che la pace. Uno come lui, che prendeva trenta ad ogni esame ma che passeggiava sempre solitario nei corridoi dell’università, non desiderava altro che uscire da quel moderno edificio rotondeggiante, guardare il cielo aperto e prendere una buona boccata d’aria fresca.

 

Il corridoio dell’Orange Star High School si era appena riempito di studenti, mentre le rispettive aule si svuotavano per la breve pausa di metà mattina.

Fackel, le braccia colme di libri e quaderni, attraversò la fiumana di gente che si incamminava verso il cortile interno, dirigendosi verso la fila di armadietti che fiancheggiava il corridoio, dove avrebbe trovato Nebe già lì ad aspettarla, uscito dalla classe superiore.

Ma il ragazzo non era appoggiato al muro ad attenderla pazientemente, si stava invece avviando a passo svelto verso di lei, il volto contratto in un’espressione di leggero panico.

“No!” le disse protettivo, le mani protese in avanti a bloccarle figuratamene il passaggio. “Non andare agli armadietti…andiamo in cortile, vuoi…?”.

La ragazza lo guardò, inizialmente divertita dal suo incomprensibile atteggiamento, poi la sua espressione si fece perplessa, mentre il suo sguardo, proiettato oltre la spalla dell’amico, raggiungeva il suo armadietto.

“Fackel…aspetta…”.

Ma lei lo aveva già superato, i libri stretti con forza al petto, gli occhi nerissimi fissi con disgusto verso lo scempio che era stato fatto sulla rettangolare lamina di metallo, proprio sotto l’etichetta con il suo nome:

CHIOMA  ROSA  STINTA !!!

Fackel sospirò, stringendo i denti mentre apriva con sdegno l’armadietto. Questa volta, invece che un banale rossetto, facilmente cancellabile, era stato usato un indelebile pennarello nero che risaltava terribilmente sulla vernice arancione.

“Mi dispiace…” mormorò Nebe, sconfitto. “Avrei voluto riuscire a eliminarlo prima che potessi vederlo, ma…”.

Uno sbuffo di insofferenza uscì dalle giovani labbra del ragazzo, mentre, risollevati gli occhi corvini, capì che il peggio doveva ancora arrivare.

La scena, come ogni mattina, sembrava svolgersi quasi al rallentatore, mentre tutti gli studenti che affollavano il corridoio si aprivano istantaneamente ai due lati, lasciando al centro lo spazio per una inusuale passerella. Tre delle elette del liceo, esibendo gli sfavillanti colori della scuola nei loro costumi minimali dalle scollature vertiginose e dai corti gonnellini svolazzanti, facevano la loro pomposa traversata, muovendo con perfetta sincronia i fianchi e le braccia ad ogni singolo passo, come se anche quella fosse una delle loro stupide coreografie. Ed al centro lei, in posizione leggermente più avanzata delle altre due, i lunghi capelli lisci, lucidi e rossi come una fiamma che ondulavano insieme al corpo, le lunghe gambe perfette che solcavano il corridoio, il prosperoso seno che ondeggiava leggermente ad ogni passo, strappando languide e bramose occhiate alla popolazione maschile circostante.

Ramen, capo cheerleader della squadra di baseball del liceo, nonché la più grande scocciatura che Fackel Brief avesse mai avuto il dispiacere di incontrare.

“Buongiorno, secchioni” disse con un sorrisetto di superiorità, mentre si fermava davanti a loro e incrociava al petto le toniche braccia. “Perché non andate a studiare in classe invece di stare qui a bloccare il passaggio?”.

Fackel la ignorò completamente, mentre continuava con calma a sistemare il suo armadietto, quasi non si fosse nemmeno accorta della sua presenza.

“Ehi, Brief, ti sei lavata le orecchie stamattina? O forse non hai gradito la speciale sorpresa che ti ho riservato personalmente?”.

L’armadietto di Fackel fu richiuso con un metallico colpo secco, mentre la ragazza si voltava di scatto verso l’avvenente cheerleader. Per qualche attimo nel corridoio scese l’assoluto silenzio, le facce incuriosite tutte voltate verso le due compagne che, l’una di fronte all’altra, si fissavano con sfida.

“Ma guarda” rispose infine Fackel con calma, ma spazientita. “Non avevo dubbi che quella pessima calligrafia fosse la tua”.

Nebe si mise arrendevole una mano sul volto, abbassando la testa. Ormai era iniziato, e niente avrebbe potuto fare per fermare l’ennesimo confronto tra le due.

“Non te la prendere, Chioma Stinta” ribattè Ramen con un risolino. “Era solo un omaggio ai tuoi originali capelli…ma dimmi, come hai fatto ad ottenere una tonalità così bizzarra, hai messo la testa in lavatrice ed hai sbagliato lavaggio?”.

Le altre due cheerleader scoppiarono a ridere all’unisono, mentre qualche risatina soffocata si sollevava anche dalla numerosa folla che si era fermata intorno a loro.

Fackel guardò la rivale con compassione, non era che Miss Cosce Al Vento avesse poi tanta fantasia nelle sue battute, ma sembrava trovarci gusto lo stesso. Era antipatica e impertinente con tutti, costantemente rimarcante la propria superiorità contro la nullità della vittima di turno, ma ultimamente aveva bollato lei come bersaglio prediletto, nel tormento della quale sembrava provare un’incomprensibile, gustosa soddisfazione.

“Può anche darsi” rispose infine Fackel, stando al gioco, seppure controvoglia. “Ma tu, invece, ti sei direttamente centrifugata il cervello!”.

Altre risa tra la folla, mentre anche le due cheerleader, leggermente arretrate, trattenevano a stento il divertimento.

Ramen, che invece non sembrava affatto aver apprezzato la battuta,  posò le mani sui fianchi, piegandosi leggermente in avanti, gli occhi ridotti ad una fessura minacciosa e le labbra rosse a formare un sorriso beffardo.

“Ascolta, Brief, io se voglio ti distruggo, sai?” sibilò tra i denti, il viso a pochi centimetri da quello di Fackel. “Credi che mi ci vorrebbe molto a…che diavolo è questa roba?!”.

Le aveva rapidamente strappato, con un abile gesto, il fascicolo che stringeva al petto, leggendone incuriosita l’intestazione ed accingendosi a sfogliarne le pagine.

“Ma guarda un po’…il progetto per il professor Ryan…ma che bel lavoro…di cosa parla?” chiese odiosamente la cheerleader, simulando un profondo interesse.

Attrazione gravitazionale come effetto delle variazioni della geometria dello spazio” rispose prontamente Fackel, cogliendo al volo l’occasione. “Ma non sforzare troppo le meningi, Ramen, non ci sei abituata…limitati ad agitare il didietro davanti ad una folla di tifosi”.

“Senti un po’, sciacquetta!” l’apostrofò rabbiosamente lei, puntandole minacciosamente davanti alla faccia il fascicolo arrotolato, nonostante l’espressione dell’altra fosse rimasto imperscrutabile. “Io non ci tengo affatto ad essere una secchiona noiosa come te, dalla vita sociale inesistente e che si porta sempre al guinzaglio il suo amichetto di fiducia!”.

Questa volta fu Nebe a reagire, frapponendosi tra Fackel e la cheerleader, fissando quest’ultima con profondo disprezzo e con il gran desiderio, mai realizzato, di riuscire a dirgliene quattro.

“Ehi, ragazzi, vi vedo su di giri!” sentì esclamare dal suo stesso timbro di voce, sebbene non avesse ancora aperto bocca.

Si erano ritrovati l’uno di fronte all’altro, come un’immagine che si rifletteva in un invisibile specchio. Ma mentre il primo indossava jeans, felpa e occhiali da vista, il secondo sfoggiava un’attillata divisa da baseball, berretto con la stella del liceo e un’espressione indubbiamente più rilassata.

“Che sta succedendo, baby?” chiese con curiosità a Ramen, mentre metteva un braccio intorno alle spalle della ragazza e si sollevava leggermente la tesa dagli occhi.

“Lascia perdere, Zeme…” l’aveva anticipata arrendevolmente Nebe, ansioso di mettere definitivamente fine a quella stupida disputa. “Non ne vale la pena…”.

“Su, fratellino, un po’ d’allegria!” aveva esclamato l’altro a gran voce, dandogli una pacca sulla spalla, mentre la sua ragazza si faceva scappare un risolino divertito. “Hai un muso lungo…”.

Nebe alzò lo sguardo, poco convinto. Ed eccola lì, la coppia più popolare del liceo, che fissava tutti gli altri dall’alto verso il basso. E Zeme, capitano della squadra di baseball nonché campione ammirato ed acclamato da ormai molto tempo, guardava perfino suo fratello con quella sua superficiale, giocosa superiorità.

La campanella risuonò forte nel corridoio, strappando alla folla di studenti qualche esclamazione di disappunto, mentre tornavano nelle rispettive classi.

“Non avrei mai pensato di arrivare ad odiare qualcuno!” esclamò esasperata Fackel, seguendo con lo sguardo la rossa cheerleader che si allontanava soddisfatta, avvinghiata elegantemente al suo indiscusso campione.

“Almeno non si tratta di tua sorella…” mormorò appena lui, ma Fackel neanche lo sentì, tanto era rimasta allibita nel guardarsi le mani incomprensibilmente vuote. “Cosa c’è?”.

“Il fascicolo di fisica…” balbettò Fackel, mentre un’amara realizzazione le invadeva la mente. “Non ce l’ho più…”.

“E chi ce l’ha, allora…?”.

 

Si era dileguato a passo svelto, i ribelli capelli corvini ancora bagnati per la rapidissima doccia, il borsone da palestra caricato alla bell’e meglio su una spalla. Era sgusciato con aria indifferente dallo spogliatoio, aveva raggiunto l’uscita tramite una facile scorciatoia e si era lasciato definitivamente alle spalle la palestra di arti marziali di Satan City, prima che la voce di Pan potesse richiamarlo stizzita al suo dovere.

Dove credi di andare, Golden? Devi sostituirmi per la lezione di sumo!

E figuriamoci se aveva voglia di passare le successive due ore a dare istruzioni inutili ad un gruppo di ciccioni che neanche riusciva a sollevare il proprio sedere. Lui, Son Golden, uno degli eredi di un prestigioso impero finanziario, poteva passare le giornate in modo molto più interessante.

Neanche ricordava perché si era messo a lavorare come aiuto istruttore nella palestra della sua zia acquisita. Non aveva certo bisogno di denaro, lui, ma trovarsi un lavoretto part-time metteva a tacere il paparino senza tuttavia richiedergli troppo impegno: oltre a poter avere tutti i benefici di una palestra rigorosamente gratis, a volte era persino divertente insegnare judo o karate, specialmente quando le allieve erano belle ragazze in tute attillate le cui pose da combattimento andavano accuratamente guidate.

Senza contare che, lavorando per la palestra, aveva una scusa per andare a Satan City. Perché se West City era il regno della tecnologia e dell’alta finanza, questa era la città della vita.

Della bella vita.

Alla lezione di sumo ci avrebbero pensato gli altri assistenti, si disse mentre raggiungeva lo spazioso parcheggio sul retro, e pazienza se Pan, la volta successiva, lo avrebbe probabilmente accolto con in mano un nunchaku.

Non poteva far aspettare la sua piccola, l’unica creatura che fosse riuscita a rapire il cuore di Son Golden. L’unica di cui non si sarebbe mai stancato, e che avrebbe sempre trattato come una vera signora.

“Ciao, Lady Car” le sussurrò dolcemente, accarezzando la lucida vernice rossa metallizzata. “Ti sono mancato?”.

Già…la sua amata non era altro che una fiammante decappottabile vecchio modello, quelle che ancora solcavano le strade invece che il cielo.

Si lanciò con un balzo al posto di guida, senza nemmeno aprire lo sportello, accese sorridente il motore e poi via, veloce come un lampo, con il vento tra i capelli. Non c’era niente di più sublime che assaporare l’ebbrezza della strada, vedere il tachimetro macinare chilometri e l’indicatore della velocità salire in picchiata, mentre l’impianto stereo emetteva della buona musica rock. Emozioni forti, sensazioni intense, che compensavano quelle che aveva accettato di reprimere per il mancato uso del suo potere.

Imboccò il lungo viale che portava alla Satan City dei quartieri alti, fermandosi poi con un leggero sbuffo al semaforo rosso che si era trovato davanti. Mentre aumentava il volume della radio, cercando di ingannare l’attesa, una decappottabile color argento si fermò alla sua destra, nella corsia di fianco. Alla guida, una bella donna sui quaranta, vestita con eleganza, i capelli biondi sciolti sulle spalle e le rosse labbra carnose.

Con discrezione ricambiò lo sguardo compiaciuto del ragazzo, spostando poi gli occhi verso l’auto.

“Bella macchina” commentò, la voce sensualmente roca.

“Già” rispose Golden, con un sorriso invitante. “Anche la tua non è male…vediamo che sa fare”.

Il semaforo divenne verde, e istintivamente le due auto sgommarono per la rapida partenza, mentre i rispettivi autisti schiacciavano con forza l’acceleratore e lasciavano una scia di fumo sull’interminabile rettilineo.

Per un po’ Golden dette vantaggio alla donna, rimanendo più o meno al suo fianco, illudendola di poter competere con lui, poi schiacciò il pedale fino in fondo, superandola in un secondo e facendole mangiare la propria polvere, mentre dallo specchietto osservava la sua faccia allibita farsi sempre più lontana.

Eh sì, non c’era niente da fare. Poteri o non poteri, il re della strada rimaneva sempre lui.

 

Aveva volato attraverso il continente, dritto verso est, dove il sole stava già tramontando, assaporando il calore degli ultimi raggi dorati che si perdevano dietro all’orizzonte.

Non c’era tramonto più bello in tutto il globo di quello che si poteva ammirare dalle colline dei Paoz. Lì, in quelle incontaminate distese verdi, non c’era nessun grattacielo a interrompere il panorama, nessun motore ad inquinare quel mistico silenzio. Solo l’immensità della natura, e la vastità del cielo sopra la sua testa, sfumato di colori come in un delizioso acquarello riscaldato da tinte rosee ed arance.

Lux si abbandonò sulla morbida distesa erbosa, respirando profondamente l’aria genuina delle vicine montagne. Finalmente la pace che ogni giorno, dopo la sua frenetica vita in città, reclamava con ansia.

Perché lì, su quelle colline, la terra gli scivolava tra le dita soffice come zucchero, così diversa dalla durezza del cemento metropolitano, maledettamente immobile e ostile, che solo con l’intervento dei suoi poteri avrebbe potuto sbriciolare.

E perché in quei boschi vivevano solo creature che, proprio come lui, amavano allontanarsi dal caos che portava l’umanità. Gli si avvicinavano senza timore, lo raggiungevano nel suo letto di fiori, giovani cerbiatti, marmotte, scoiattoli e colorati uccelli, che lo guardavano con interesse dai loro piccoli, nerissimi occhietti selvatici. Sostenevano lo sguardo più di qualsiasi essere umano che Lux avesse mai conosciuto, perché il loro cuore era puro, immacolato, senza segreti, senza l’ombra di quel pizzico di peccato celato da ogni uomo.

Con loro non servivano le parole. Loro erano capaci di guardarti dentro. Di sapere chi eri.

E loro sapevano. Sapevano che lui era diverso.

Sapevano che il suo sangue non era lo stesso che scorreva negli uomini di quel mondo, sapevano del suo disagio nel fingere di essere uno di loro, sapevano che spesso avrebbe voluto fuggire via da tutto quello, ma che no, non poteva, non poteva…

E, inevitabilmente, dovevano sapere anche di quel bozzolo di marcio che aveva cercato di rifilare in un angolo sperduto del suo cuore, che aveva tentato di eliminare ma che non sarebbe mai scomparso, tornando a tormentarlo indesiderato…

Erano passati ormai tredici, lunghi anni. E quell’odioso polipo era ancora là, da qualche parte, ad inquinare la sua anima come i gas di scarico della metropoli.

Ma quegli animaletti innocenti continuavano a stargli vicino, a fissarlo senza ombra di timore.

Andate vie, creature innocenti del bosco…statemi lontano, più lontano, voi credete di sapere chi sono, ma vi sbagliate…io non sono solo ciò che credete di vedere…io sono capace di cose orribili…so essere veramente spregevole con chi mi circonda…

E ho quasi ucciso mio padre, una volta.

Chiuse gli occhi, stanco, e si addormentò. Ad ovest, gli ultimi fiochi raggi venivano risucchiati al di là dell’orizzonte.

 

L’insegna al neon del Blue Moon brillava ad intermittenza in quella fresca notte stellata, richiamando decine di avventori che, parcheggiando poco lontano le loro auto di lusso, si preparavano a trascorrere una notte dorata nel locale più alla moda di Satan City.

Golden lasciò al parcheggiatore una mancia extra, affinché la sua Lady fosse trattata nel migliore dei modi.

L’interno del locale era piacevolmente tiepido, non pregno dell’odore di alcol o di fumo come nei locali di seconda categoria, ma profumato di pulito e dei suonanti bigliettoni che i clienti lasciavano alla cassa d’ingresso. Perché era lì che si ritrovava il fior fiore della città, giovani nobili, ricchi borghesi, divi del cinema, che in quella pista psichedelica, con l’aiuto dei drink e dell’alta musica martellante, ormai si scatenavano senza ritegno, sperando che qualche paparazzo non gli sorprendesse proprio nel momento in cui avrebbero vomitato la cena in uno dei lussuosi bagni intarsiati di marmo.

Golden attraversò la pista affollata, passando con piacere sotto i cubi delle ballerine seminude, raggiungendo poi senza troppa fatica l’angolo bar.

“Il solito, Henry” chiese al barman, vestito con un elegante smoking bianco.

“Subito, signor Son” sorrise l’uomo con un leggero inchino, mentre, sorreggendo la bottiglia ghiacciata di vodka con un panno bianco, ne versava una buona dose nel bicchiere del ragazzo.

A circa un metro da lui, una giovane donna, caschetto di lisci capelli corvini, occhi di ghiaccio e corpo longilineo messo in risalto da un tubino nero, era appoggiata al bancone con espressione annoiata, sorseggiando distrattamente dal suo calice di champagne.

“Non si diverte, signorina?” l’abbordò Golden, facendo un passo verso di lei e appoggiando con naturalezza un gomito sul bancone di mogano.

La ragazza si voltò lentamente, il volto magro apparentemente gelido, gli occhi che lo scannerizzavano con noncuranza.

“Non come vorrei” rispose fredda, riportando il bicchiere alle labbra fini. “Il mio agente vuole già riportarmi a casa. Dice che una modella non dovrebbe fare le ore piccole, fa male alla pelle. E lei, invece, si sta divertendo, signor…?”.

“Son Golden” la anticipò lui con orgoglio. “Ma puoi chiamarmi semplicemente Golden, se ti va”.

La ragazza si voltò verso di lui con maggiore interesse, spalancando gli occhi chiari.

Quel Golden?” chiese sorpresa. “Il figlio di Bra Brief della Capsule Corporation?”.

“Esatto” confermò il ragazzo con un sorriso compiaciuto. “Ci conosciamo?”.

“Beh…sai, ho sfilato per la linea di moda di tua madre, l’anno scorso…lavoro interessante…mi piacerebbe rifarlo…”.

“Davvero?” le sorrise maliziosamente lui, avvicinandosi di più a lei, sfiorandole appena la schiena nuda con il dorso della mano. “Chissà…chi può dire che non lo rifarai…”.

La ragazza abbassò lo sguardo con un mezzo sorriso, ma Golden sapeva che le era piaciuto, che il suo corpo era stato scosso da un piacevole brivido. Eccome se le era piaciuto…

“Il mio agente…” farfugliò la modella, guardandosi intorno.

“Oh, andiamo…” la persuase lui, sensuale sussurro proprio all’ altezza dell’orecchio. “Molla quella palla al piede, finchè sei in tempo…vieni via con me…conosco il padrone del Grand Hotel, qui vicino…mi riserva la suite ogni volta che voglio…”.

La ragazza ormai si stava gradualmente struggendo, ma dovette lasciarle sulle labbra il dolce sapore della vodka per far crollare definitivamente tutte le sue difese, simulazioni di inutile dignità che dovevano esentarla dall’andare a letto con il figlio della sua datrice di lavoro.

“Andiamo” la incitò, guidandola verso l’uscita del locale. “La notte è nostra…sta aspettando solo noi”.

 

Continua…

Un grazie a tutti coloro che mi hanno recensita e che seguono la mia storia ** spero vi piaccia ;) aspetto impazientemente le vostre recensioni! Kiss Kiss 

SARAH

  
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