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Autore: mamie    22/05/2013    8 recensioni
Pagine di un vecchio diario su alcuni luoghi di Parigi.
"Sotto la collina di Montmartre si stendono I campi luminosi della Ville Lumière: vasti e ammiccanti, sfidano il cielo stellato in una parodia dell’orgoglio di Babele. Sopra, così bassa che quasi si tocca, una luna troppo grande incombe minacciosa e rossa, insanguinata dai vapori dell’atmosfera.
Una testa mozza."
Il titolo si riferisce alla famosa aria finale della Traviata.
[Decima classificata al Description Contest di Ellecrz]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota: decima classificata al Description Contest di Ellecrz


PARIGI, O CARA…
 
1. La testa mozza
 
Sotto la collina di Montmartre si stendono I campi luminosi della Ville Lumière: vasti e ammiccanti, sfidano il cielo stellato in una parodia dell’orgoglio di Babele. Sopra, così bassa che quasi si tocca, una luna troppo grande incombe minacciosa e rossa, insanguinata dai vapori dell’atmosfera.
Una testa mozza.
Non quella di San Giovanni, benché sia quasi Mezza Estate; dato il luogo piuttosto quella di San Dionigi[1].
Anche in basso, nei quartieri bohémien dove le romanticherie ottocentesche vengono a galla come pantomime, l’astro senza luce dà un aspetto sinistro alla folla che si aggira per Place du Tertre, come se, negli angoli più bui, pittori dall’aria un po’ fuori moda lasciassero il posto a delinquenti armati di coltello.
Tutte quelle musiche discordanti che tentano di sopraffarsi a vicenda: il ritmo incalzante di un reggae, un lamentoso organetto, il tintinnare soporifero di un’arpa.
Il suonatore d’arpa è giovane e ha una faccia assorta, come quel principe Calaf[2]capace di gettare la vittoria ai piedi della morte soltanto per sfidare un gelido amore.
 
2. Vele
 
Il Louvre: monumentale scrigno di bellezza.
Troppa bellezza.
Le sale immense, calde e ronzanti come un alveare impazzito: scale corridoi, finestre, labirinti e brandelli di ogni epoca passata, di ogni terra conosciuta. Un cimitero dell’umanità dove ciascuno va a rendere omaggio ai resti degli antenati, senza più sapere cosa realmente gli appartiene. Giapponesi attenti tra le statue greche, Indiani maestosi fra i quadri del Rinascimento, biondi Scandinavi fra i papiri egizi, Arabi dalle lunghe ciglia fra i reliquiari inglesi: tutti con lo stesso sguardo smarrito di chi non sa né ritrovarsi né riconoscere l’altro.
La Gioconda, straniato oggetto di culto, che ti sorride beffarda da una posizione inaccessibile. La Joyeuse “che mai non ebbe pari, che muta ogni giorno più di trenta colori”[3]triste nella sua vetrina… e la Nike di Samotracia che sta per volare giù dallo scalone, le ali come immense vele di un mare che ha perduto per sempre.
 
3. Un cuore di tenebre
 
Navigo nella penombra di Notre Dame attirata dalle fiammelle tremolanti dei ceri. Una Madonna gotica, leziosa sul suo pilastrino, sorride ad un mondo che non è più il suo. È fresco, buio, ma tutta questa penombra non ispira pace. È una scenografia un po’ teatrale, adatta forse al romanzo di Hugo, ma dov’è lo spirito che l’ha creata? Tutte quelle fioriture di pietra, quelle vetrate rutilanti… Pare, assurdamente, la brutta copia di un set hollywoodiano.
Notre Dame ha qualcosa di improbabile, forse di mondano, che non si addice alla fede. Un cuore di tenebre che divora la luce dei suoi rosoni; un piccolo nucleo malvagio, antico e indifferente. Tutti i suoi santi di pietra servono forse a tenerlo prigioniero? In un film horror sarebbe così.
 
 
4. Naufraghi
 
Come un naufrago sbattuto dalle onde, disperatamente aggrappato al suo relitto, l’Hôtel de Cluny appare di una solitudine immensa in mezzo al mare ruggente di traffico che lo circonda. Scheggia saltata via da una città che guarda al futuro, le sue pietre immobili, i suoi tesori preziosi sono superati e incongrui. Eppure non meno preziosa è l’indifferenza dei suoi maestosi alberi che mandano un’ombra aromatica e densa.
Dentro, penombra claustrale. Sobrie vetrine con sfondi di velluto e faretti eleganti; scintillio discreto di una Tiffany del passato. I gioielli merovingi brillano nella suprema raffinatezza delle loro forme intrecciate, lasciando luccicare i granati simili a preziose resine fra rami d’oro e d’argento. Le placche d’avorio scolpito sembrano bere la luce per mutarla in un olio morbido e setoso. Gli olifanti riposano, perduti gli echi di battaglie lontane. Gli smalti di Lìmoges accendono di turchese e di azzurro le loro nicchie d’oro sbalzato. Ci sorride ancora dall’antico arazzo la Dame à la Licorne[4], meraviglia di pazientissime mani e d’improbabili cortesie d’amore.
Si respira, in questo luogo, un’aria di sottile meraviglia, come se qualcuno avesse voluto congelare fra i ghiacci eterni un passato di cui nessuno più si cura… eppure LeGoff, Duby[5]e compagni devono pur essere usciti da qui.
Il passato non si può mai del tutto cancellare.
 
5. Gourmet
 
La prima cosa di cui ti accorgi sono i tavolini dei caffè. Microscopici. Ammassati gli uni agli altri, bisogna stare rannicchiati con i gomiti in dentro per non urtare qualcuno o qualcosa. Poi le vetrine delle pasticcerie e delle gastronomie che sembrano fare concorrenza a quelle di Cartier.  Dai vetri scintillanti occhieggiano capolavori del gusto così raffinati che sembra di fare un peccato soltanto a guardarli.
Le ostriche di Marennes, lucide, leggermente lubriche nella loro conchiglia rosea, offerte in mezzo ad una cascata di diamanti di ghiaccio. Il caviale del Caspio simile ad un cumulo di minuscole e preziose perle nere. I formaggi cremosi venati d’oro o marezzati di verde come un antico broccato e poi gli schieramenti di vini pregiati, cognac, champagne; i cioccolatini posati in scatoline di raso come gioielli e quasi altrettanto costosi.
Una rappresentazione, un teatro, un’accademia del cibo per la cucina più famosa (più buona?) del mondo. Ma il pane – fresco, croccantissimo, lunghissimo – lo puoi comprare a qualunque ora agli angoli delle strade e la birra costa meno dell’acqua in questa estate incredibilmente calda e asciutta, del tutto inconsueta.
Se passeggi per Montparnasse, puoi cambiare ristorante ogni sera: Indiano, Algerino, Cinese, Iraniano… tutti, uno accanto all’altro, intenti a solleticare i tuoi sensi con profumi esotici e stuzzicanti, misteriosi e lontani. Tutti pieni di gente vociante e allegra: ben diversi dall’atmosfera rarefatta dei pochi ristoranti francesi, che saranno anche di una sublime raffinatezza, ma sono inavvicinabili per le nostre tasche. Da guardare solo da fuori, proprio come le vetrine.
 
6. Il futuro anteriore
 
Che effetto potevano fare ai contemporanei i quadri di quei pittori che diedero un calcio definitivo al pompier[6]e decisero di cambiare la pittura per sempre? Una modernità sconvolgente, forse. Un affronto al gusto imperante. Un autentico scandalo e anche un modo nuovo di vedere e di sentire.
Come un cieco che passi le dita su una tastiera, usavano il colore non per colpire il nervo sensibile della vista, ma per riportare a galla quelle sensazioni più profonde che a volte vengono ignorate per incuria o per semplice distrazione. Così, mentre nella basilica del Sacré Coeur, Burne Jones esaltava la linea dei suoi angeli preraffaelliti, le gallerie parigine si riempivano di Monet e di Degas.
L’attimo, il colore, la luce, regnano sulla forma e la scardinano, la rendono fluida, quasi inesistente. I campi di grano, i giardini, i paradisi tropicali: tutto vuole l’uomo (e la donna) come parte indistinta di un insieme più grande. L’uomo e la donna come una foglia, come un albero o un corvo: puro elemento paesistico, colore nel colore. L’uomo come granitico sguardo in un viso folle: Van Gogh. La donna come un frutto dorato di terre lontane: Gauguin. La grazia quasi ingenuamente egizia di una ballerina di bronzo: Degas. L’arroganza rinascimentale della colazione sull’erba di Manet.
Un altro mondo, un altro tempo, un altro secolo. Il nostro futuro del passato.
 
7. E poi…
 
Che cos’è poi Parigi? La Tour Eiffel, un melting pot, un sogno romantico? È la noiosa teoria dei suoi viali e delle sue architetture neoclassiche? È l’ardita immagine della Piramide davanti al Louvre? Si identifica nei suoi spazi immensi fuori e minuscoli dentro, tanto che le mansarde si affastellano una sull’altra come le costruzioni precarie di un bambino? È la ragazza che, nel Métro, tira fuori dalla borsetta il suo ratto da compagnia o il clochard che, all’angolo di strada, strimpella una chitarra scordata per pochi spiccioli?
Non lo so. Mi sono persa. Parigi mi respinge e mi attrae, mi guarda indifferente e mi lusinga. Non sa che farsene di me, eppure, di notte, ancora mi guarda, da sopra l’immensa distesa di luci, la sua luna insanguinata e tonda, la sua luna che non assomiglia alla luna di nessun altro posto, perché è la luna di Parigi. Solo di Parigi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note: Il titolo si riferisce ad un famoso duetto della Traviata.
 

[1]Primo vescovo di Lutezia e patrono di Parigi. Vuole la leggenda che, dopo la decapitazione a Montmartre, se ne sia andato a portare personalmente la propria testa a Saint Denis.
[2]Protagonista della Turandot, opera cui faccio riferimento anche parlando della luna come di una testa mozza.
[3]Verso della Chanson de Roland che parla della spada di Carlo Magno (la Joyeuse).
[4]Famoso ciclo di arazzi fiamminghi del XV secolo.
[5]Importanti studiosi di storia medievale.
[6]Movimento artistico del XIX secolo, fortemente accademico, forse così definito per l’abbondanza di scene storico-mitologiche che hanno come soggetto guerrieri con elmo.




 
  
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