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Autore: Judith Loe    27/05/2013    2 recensioni
La verità era che lei non sapeva. Aveva vissuto la sua vita fino a quel momento nella più completa ignoranza. Come la maggior parte, per non dire la quasi totalità, del genere umano; era stata tenuta all'oscuro di tutto, protetta da una realtà che avrebbe potuto distruggerla, un mondo complesso, di cui si temeva non sarebbe riuscita a reggere il peso. E chi avrebbe potuto? La verità era che quel mondo sarebbe dovuto restare segreto. Un regno freddo e governato da rigide leggi. L'Illusione era pericolosa. E le ombre che vi si muovevano dentro lo erano ancora di più.
Genere: Avventura, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1 Pioggia.
 
 
 
  Ecco un sabato sera veramente perfetto.
Sdraiata sul pavimento del bagno e abbracciata al wc.
Non mi ero mai sentita così male…tutta colpa di Violett e la sua stupida torta ai mirtilli andati a male, ovviamente.
 
  E’ possibile che quella ragazza non sia capace di fare niente senza correre il rischio di ammazzare qualcuno?! Mi chiesi terribilmente irritata.
 
  Era un’incompetente. Un anno prima Alex, mio fratello, mi aveva regalato un cagnolino per il mio compleanno, che avevo chiamato Duncan ( okay, forse il nome era un tantino infelice). Il povero Duncan, non ha vissuto con noi oltre il suo terzo mese di vita. Violett lo ha investito. Così, sempre Alex - chi altrimenti? Violett non si era neppure scusata! Aveva insistito nel sostenere che la colpa era del cane, che si era  “ buttato” sotto la ruota anteriore destra….Il primo cane della storia a tentare il suicidio – mi aveva comprato un criceto per non farmi sentire la mancanza di Duncan. Adoravo quel criceto, si chiamava Tricky. Violett lo odiava, diceva che non vedeva il motivo per il quale si potesse desiderare di tenere in casa un topo sottovetro. Due settimane dopo, tornata a casa da scuola, trovai la gabbietta vuota. Corsi da Alex e gli chiesi dove fosse finito il mio criceto, fu Violett a rispondere:
 
  “ Mi spiace, ma è morto. Se ne stava lì immobile tra il cotone dentro la sua casetta, anche se io cercavo di farlo muovere, così l’ho buttato.”. Mostro…
 Tricky non era morto. Era andato in letargo! Cavolo erano giorni che gli mettevamo il cotone nella gabbietta e lui, da bravo criceto, e non topo sottovetro, lo prendeva e lo sistemava nella sua casetta, e lei lo avevo buttato?!
  Corsi fuori verso il bidone della spazzatura.
Il bidone era vuoto. Alex cercò di convincermi a comprare un gattino, ma non potevo sopportare l’idea che un altro animaletto dovesse condividere lo stesso tetto di quell’assassina.
  Quindi non è difficile capire perché Violett non mi sia mai andata a genio. 
Lei era l’ennesima ragazza di mio fratello Alex, ed eravamo tutti convinti che sarebbe durata un estate niente più, come al solito del resto; l’aveva conosciuta in un viaggio all’estero in Francia ed era stato (sfortunatamente) amore a prima vista.
La prima volta che la portò a casa per farcela conoscere fu anche l’ultima, perchè dieci giorni dopo si era già stanziata stabilmente nella camera da letto di mio fratello, mostrando a destra e a manca l’anello di fidanzamento – decisamente eccessivo e troppo costoso per quello che guadagnava Alex– ripetendo che si sarebbero sposati entro l’anno. Ero sicura al novantanove per cento che gli avesse rifilato un filtro d’amore o un’altra diavoleria voodoo, ma per ora non c’erano prove.
  All’inizio ero contenta di avere una donna più grande di me in casa, pensavo che avrebbe cominciato lei a sbrigare le faccende domestiche a pulire, stirare, fare la spesa e cose del genere; non sapevo ancora che mi sbagliavo di grosso. Voglio dire, non che di solito tutte queste cose le facessi io - c’era Alex apposta! – comunque se le avesse fatte anche lei, io avrei potuto smettere di fare un sacco di cose che odiavo dover fare. Ma ovviamente, Violett non era capace a fare niente e tutte le volte che, a mio modo, glielo facevo notare, si giustificava sempre dicendo che lei – povera cara!- era stata cresciuta delle domestiche, che i suoi genitori non erano mai a casa perchè lavoravano sempre, che la sua infanzia era stata un inferno….blah blah blah.
  Cavolate, pensavo io! Non aveva voglia di alzare neppure un dito! Tutto qua, non c’era bisogno di tante storie.
Anche io non avevo vicino i miei genitori e con ciò? Non me ne stavo seduta sul divano tutto il giorno ad aspettare che gli altri facessero le cose per me, assillata dalla costante paura che un’unghia mi si potesse spezzare o che la piega fatta la mattina stessa dal parrucchiere si potesse rovinare; certo mi sarebbe piaciuto non fare nulla, ma non potevo. Se le cose non me le fossi fatta da sola non ci sarebbe stato nessuno pronto a corrermi dietro come fosse il mio maggiordomo. Ovvio Alex avrebbe tentato di accontentarmi in ogni modo, lo conoscevo, faceva sempre così, ma era anche una questione di principio. Non mi andava che fossero gli altri a fare le cose per me. Anche se ci fosse stata ancora mamma , l’avrei aiutata in casa. L’avevo sempre fatto.
  Era da Natale che non la vedevo; da quando io e Alex eravamo andati a trovarli in Scozia, dove si erano trasferiti dopo il viaggio per i trent’anni di matrimonio. I signori Dashwood si erano talmente innamorati di quel posto, da decidere di trasferircisi nel giro di un anno. La cosa all’inizio mi parve assurda, e non solo a me. Alex restò inacidito per giorni, andandosene in giro per la casa vuota borbottando e sbuffando, dicendole dietro a non so chi con esattezza e quando lo beccavo a insultare il vuoto attorno a lui, solitamente assumeva la sua espressione da schiaffi, quella che insinuava “ Sei una bambina, queste cose non potresti capirle neppure se te le spiegassi, quindi mi eviterò lo sforzo” e mi faceva restare sempre con il dubbio di essermi immaginata certi suoi atteggiamenti, era sempre riuscito a distrarmi facendomi credere di essere psicopatica. Eppure non aveva cercato di fermarli, non gli aveva posto la questione, per me del tutto valida, che forse io avevo bisogno dei genitori, e che non era il caso di lasciare una ragazzina poco più che quattordicenne sola con il fratello. Non gli disse nulla di tutto ciò. E io ero troppo piccola ed ingenua per oppormi con decisione alla cosa. Mi sembrava forte restare con Alex, e forse ciò era dovuto al fatto che non avevo un grande legame con la mamma, tantomeno con papà. Certamente mi amavano, eppure…c’era qualcosa, o meglio: è sempre mancato un qualcosa.
  Quindi non ci furono grandi discussioni. Sbaraccarono nel giro di dieci giorni di distanza dal mio quattordicesimo compleanno e partirono. Fine della storia. Un bacio ed un abbraccio, un qualche “Vedrai starai bene con tuo fratello” detto tra i denti, velocemente, saluti lanciati dal finestrino dell’auto già in retro sul vialetto e poi il silenzio. La cosa mi era sembrata strana a dir poco e ci rimuginai forse più del previsto. Insomma credevo mi adorassero, la piccola di casa, la bimba perfetta, buoni voti, amicizie solide, fiocchi rosa tra i capelli, una bella dentatura… eppure avevano deciso di andarsene dall’altra parte del mondo, con una velocità che ci sorprese. Beh, forse sorprese solo me. Mio fratello sembrava quantomeno aspettarsela.
  Non c’era rimasto troppo male a parte i borbottii. Oddio, ogni volta che andavamo a trovarli spesso e volentieri li trovavo a litigare sottovoce, ma appena si accorgevano che c’ero anche io, si azzittivano e fingevano che nulla fosse accaduto. Quindi sì, forse Alex si era arrabbiato, ma se loro se ne erano andati di certo non era colpa mia. Passai parecchio tempo a chiedermi cosa potesse avere fatto Alex per farli andare via, ma non capii.
  Comunque c’è da dire in loro difesa che lo fecero un tentativo per non mollarmi da sola. Un timido tentativo e neppure troppo convincente, in effetti, ma ci avevano provato. Mi chiesero l’unica cosa che sapevano avrei rifiutato, l’unica cosa che non avrei fatto per seguirli. Che equivaleva a mollare tutto e di ricominciare da zero, un taglio talmente netto da farmi rabbrividire…no, non sono proprio il tipo. Soluzione: rimanere a casa con Alex, che allora aveva venticinque anni.
  E loro capirono; la cosa non mi sorprese. Alex dopotutto è sempre stato un ragazzo con la testa sulle spalle, mai richiami da parte del preside, mai una multa per eccesso di velocità, mai stato in prigione o cose del genere… era il classico bravo ragazzo, quello di cui tutti si fidano incondizionatamente, quello che si sa non farebbe mai del male ad una mosca. E poi Alex era sempre stato molto protettivo nei miei confronti, quindi ero a posto.
  Ora erano già tre anni che vivevo con lui e da uno si era aggiunta alla nostra vita tranquilla e felice anche “lei”. Dicevano che si sarebbero sposati nel giro di poco… con questa scusa Violett si era praticamente trasferita da noi per sempre.
 
  Che palle…
 
  Un rumore colse la mia attenzione. Sentii un motore che si spegneva e poi due portiere che sbattevano. La porta principale si aprì.
 
  “Emily! Siamo a casa!” era la voce di Alex che proveniva dall’ingresso al piano di sotto. Era uscito un quarto d’ora prima per andare in farmacia a comprarmi qualcosa per far scendere la febbre.
 
  “Come stai?” chiese cauto, mentre sentivo che cominciava a salire i gradini seguito dallo sgradevole suono che facevano i tacchi dodici di Violett. La strega aveva deciso di accompagnarlo, tutto pur di non restare con me.
 
  “Male…” risposi io mentre la porta socchiusa veniva aperta.
Feci per alzarmi, certamente troppo in fretta e il mio stomaco non resse. Un altro conato e fui costretta a accasciami sulla tavoletta con la testa praticamente dentro il water. Una scena patetica.
 
  “Decisamente male!” corresse Alex correndo al mio fianco.
 
  “Ce la fai ad andare a letto? “ chiese l’avvelenatrice con una nota di dispiacere – fasulla – nella voce. Probabilmente le serviva il bagno.
 
  “No” risposi brusca senza degnarla di uno sguardo.
 
    “Okay…” fece Alex fulminandomi per il modo in cui avevo risposto al suo amore. Era stranamente convinto che fossi io la principale causa dei dissapori che c’erano in casa. Sosteneva che se soloio avessi permesso a Violett d’avvicinarmisi, lei si sarebbe mostrata per quello che davvero era, cioè una ragazza adorabile ed amorevole che mi avrebbe trattata come una sorella. Io, personalmente, quel lato zuccheroso in Violett proprio non riuscivo a scorgerlo, ma forse era perché proprio non c’era nulla da scovare. Ero sicura che se avessi scavato in Violett avrei trovato solo altra stupidità e vanità, e potevo benissimo risparmiarmi la fatica. Eppure Alex sembrava avere le fette di prosciutto sugli occhi, per lui lei sarebbe rimasta sempre una dolce, deliziosa ed adorabile principessa. Bah… Dio li fa e poi li accoppia, giusto? Senza dubbio Dio doveva aver avuto una svista. Una di quelle madornali.
 
  “Allora vediamo un po’…” disse appoggiandomi la mano sulla fronte. “La temperatura mi sembra scesa, ma sei ancora molto calda.”.
Andò al lavandino riempì un bicchiere d’acqua e me lo porse con una pastiglia.
 
  “E’ per lo stomaco” specificò guardandomi con apprensione.
 
  “Grazie” dissi io ingoiando a fatica l’enorme ( lo era davvero!) pastiglia.
La sentì grattare nella gola…ahi…
Poi mi abbandonai contro il calorifero. Eravamo a settembre, quindi era freddo, ma appoggiandoci la fronte mi dava sollievo.
 
  “Vuoi che restiamo?” chiese Violett con un tono talmente lagnoso, che per poco non le tirai addosso il bicchiere. Si salvò giusto perché non avevo neppure la forza di portarmi il bicchiere alla bocca. Immaginarsi scaraventaglielo addosso!
 
  Non vorrei che tu restassi neppure se fossi in punto d morte.
 
 Optai per un più innocuo “No, grazie. Preferisco che non ci sia nessuno ad assistere a questo spettacolo.”.
 
  “Sicura?” Alex non era troppo convinto dalla mia minimizzazione. Ero un’ottima attrice solitamente, certo la febbre ed il mezzo ettolitro di bile nel water non aiutava il mio sorrisino tirato.
 
  “Sai che c’è? Restiamo a casa.” fece cambiando idea già pronto a togliersi la giacca. Violett gli si appese ad un braccio, iniziò a piagnucolare ancora prima che io potessi aprire bocca.
 
  “Amore!” si lamentò corrugando la fronte e sporgendo il labbro inferiore. Alex iniziò a lanciare occhiate prima e me, poi a lei combattuto. Violett, indispettita dalla sua indecisione, picchiò un piede a terra con tanta violenza che credetti avesse piantato direttamente il tacco dodici nelle piastrelle del pavimento. “Ma io voglio andare!” la sua vocetta stridula mi dava sui nervi.
 
  “Sto bene Alex, dammi dieci minuti e la pastiglia avrà fatto effetto, altri cinque e cadrò in stato comatoso. Non sarà divertente fare la guardia ad uno zombie” ridacchiai. Lui, già inginocchiato accanto a me, si sporse per guardarmi meglio in faccia, mi rimise una mano sulla fronte. Non era per niente convinto. Violett sbuffò infastidita.
 
  “Portala fuori prima che le faccia del male, o che si metta a distruggere il parquet del corridoio” bofinchiai a mezza voce così che lei non potesse sentirmi. Alex mi lanciò uno sguardo di rimprovero, ed io risposi con una smorfia. “Sto bene” ribadii allontanandolo.
 
  “Visto? Non ha niente di serio. Forza dobbiamo sbrigarci Cindy e Will ci staranno già aspettando!” afferrò Alex per un lembo della giacca e lo cominciò a tirare verso di sé. Le lanciai una maledizione silenziosa e Alex se ne accorse dalla mia espressione, ma non si arrabbiò.
  Ridacchiò e mi baciò la fronte.
 
  “ Allora noi andiamo. Il film non dovrebbe durare troppo….un paio d’ore e siamo a casa. Chiamami se hai bisogno” alzò la voce in modo da marcare la sua richiesta, mentre Violett se lo trascinava dietro. Feci di sì con la testa solo per liberarmene. Stavo troppo male per reggere una conversazione, volevo solo che se ne andassero tutti.
 
  Sentii la porta richiudersi.
Bleah… Come era possibile stare così tanto male tutto in una volta?
Sospirai e restai in silenzio.
  Fuori pioveva. Provai a sedermi sul water avevo bisogno di muovere le gambe, che cominciavano a formicolare in modo fastidioso.
Con fatica e cercando di ignorare i lamenti dello stomaco, ci riuscii. Spostai la tendina e guardai fuori dalla finestra abbandonano la testa contro il vetro. Osservai la macchina di Alex mentre faceva manovra per uscire dal vialetto, seguendola sulla strada di fronte casa, e cercando di sorridere a Alex che ansioso lanciava sguardi alla finestra. Quando scomparvero dietro l’angolo, sospirai.
  Era impossibile capire che ore fossero; il cielo era completamente nero e pioveva a dirotto. Mi piaceva la pioggia. Mi era sempre piaciuta. Però non quel piacere del tipo: “Ti piace la pioggia?” e ti rispondono: “Certo, quando sono a casa”.
Non voglio dire che non sia bello starsene in casa a guardare fuori dalla finestra la pioggia cadere, osservare le pozzanghere danzare in un moto circolare, guardare gli ombrelli colorati e le persone che stanno attente a non bagnarsi. Però a me la pioggia piaceva viverla. Starci sotto, sentire le gocce infrangersi sul viso e scivolare sul collo, sentire i capelli che si appesantiscono e che, ad ogni movimento, creano una doccia di diamanti che cadono a terra. Ascoltare la musica della pioggia, la sinfonia in continua evoluzione, con le sue pause e i suoi ritmi lenti o tempestosi; il suono del vento, i suoi ululati e le sue raffiche che ti riempiono d’energia. I tuoni che ti fanno sobbalzare e ridere senza un motivo preciso, seguiti dai lampi che ti accecano e illuminano il cielo in un momento per poi scomparire. Attimi.
  Sin da bambina sapevo con precisione quando e se avrebbe iniziato a piovere semplicemente annusando l’aria, perché la pioggia ha un profumo tutto suo, che racchiude al suo interno altri mille odori che rapisce dai posti in cui passa, per portarli poi in tutto il mondo e arricchirli di nuove sfumature. E i colori della pioggia mi fanno impazzire. Non è tutto solo grigio! Ci sono altre mille sfumature che si nascondono dietro il grigio che, troppo timide per mostrarsi, aspettano che gli animi più sensibili le vadano a scovare. Così si svelano in tutta la loro bellezza a coloro i quali si dimostrano aperti versi di loro e che non le criticheranno perché troppo complicate da capire.       
È innegabile che la pioggia non sia affascinante e, per me, bellissima. Anche il sole è bello, non metto in dubbio, ma la pioggia è capace di portare con se antichi misteri che si celano dietro le sue ombre.
  Sospirai. Iniziavo a fare pensieri strani. E complicati.
Un lampo di luce illuminò il cielo con talmente tanta intensità che mi costrinse a chiudere gli occhi. Era sembrato più un flash dritto negli occhi. Che cosa sciocca! Cercare di farmi una fotografia proprio mentre me ne stavo mezza morta con la faccia premuta contro il vetro. Dovevo essere venuta uno schifo. Per mezzo secondo me ne preoccupai seriamente, prima che i pensieri si ridistendessero e tornassi lucida. Mi ripetei che no, nessuno mi stava fotografando. Era solo il temporale, ricordi Emily?, la pioggia, quella che ti piace. Oh sì ricordo. Mi piace la pioggia, e il vento, e i tuoni. Dopo il monologo nella mia testa ed il mio tentare di rassicurarmi da sola mi sentii meglio. Ma uno sguardo di fronte casa lo lanciai lo stesso. In strada non c’era nessuno.
 
  Il tuono arrivò all’improvviso squarciando il silenzio.
  Una fitta sembrò volermi aprire in due la testa. La presi tra le mani e chiusi gli occhi stringendoli forte. Un altro flash mi attraversò a mente. Ma era più un ricordo, non c’era stato un vero lampo. Doveva essere colpa della febbre che tornava. Flash bianchi ed accecanti continuavano a balenarmi davanti gli occhi scivolando sotto le palpebre chiuse. Una volta passati riuscii ad aprire nuovamente gli occhi. Tutto era scuro.
  Diressi il mio sguardo verso il parco che c’era davanti casa mia.
Non era un granché. Giochi per bambini, un paio di altalene, e qualche panchina circondata da alti alberi. Durante le estati passate, io e i miei migliori amici, Tyler e Annabell, ci passavamo le ore ad inventare storie e a giocare a fare i “grandi”. Non era il posto più bello del mondo, ma per noi era mitico. Un altro flash attirò la mia attenzione verso un lampione. Sorprendentemente funzionava. Era quasi tutto distrutto dai vandali, eppure quel lampione aveva resistito… anche se ero convinta fossero tutti rotti. Strano.
  Guadai verso le panchine immerse in una sottile nebbia. Un’ombra vi si muoveva dentro. C’era qualcuno. Come? Sotto la pioggia e senza ombrello? Osservai meglio. Era un uomo. No, doveva essere un ragazzo sui vent’anni; completamente zuppo, che fosse stato lui a cercare di fotografarmi? Bel deficiente! Cercai di aguzzare lo sguardo per capire se tenesse qualcosa in mano , ma sembravano vuote, allora cercai attorno al collo, ma ancora nulla. Lo guardai dritto in faccia e...
 
  Oddio!
 
  Mi ritirai immediatamente, appiattendo la schiena contro il muro.
 
  E sta guardando proprio verso di me!
 
No, non poteva vedermi! La luce era troppo debole, da fuori la stanza sembrava buia. Io potevo vederlo perché era proprio sotto un lampione…ma lui…
Forse mi stravo sbagliando. Guardai meglio, nascondendomi il più possibile.
  Allora, senza dubbio era un ragazzo. Ne ero sicura. Indossava un paio di jeans e una felpa grigia, che con la pioggia aderiva completamente al corpo. I capelli bagnati dalla pioggia sembravano neri; mi feci coraggio e guardai il suo viso.
Era buio e non vedevo un granché, ma i suoi occhi li vidi come se fossero in fiamme; erano molto belli e…e…mi stava proprio guardando!
  Distolsi immediatamente lo sguardo e lasciai che la tendina tornasse al suo posto.
Sentii il viso avvampare per la vergogna. Un altro lampo squarciò il cielo.
  Ecco, la giornaliera figura da imbecille mi mancava ancora.
  Chi cavolo era? Chi è così pazzo da uscire con un tempo del genere e senza ombrello per giunta?!
Feci un respiro profondo e sollevai solo un angolo della tendina per sbirciare.
Ma non c’era più nessuno. Il ragazzo era sparito.
  Boh.
Tornai a fissare una mattonella davanti a me. Sentii il rossore lentamente andarsene fino a scomparire del tutto. Mi lasciai cullare dal suono melodioso della pioggia.
  Pochi momenti dopo mi addormentai, ero troppo stanca per pensare a chi fosse quel ragazzo.
 
*
  Quella notte feci un sogno bizzarro.
Ero sicura che fosse un sogno, perché del mal di pancia non c’era traccia e anche perché sentivo la voce della mamma che canticchiava spensierata, mentre lavava i piatti in cucina. Eppure era un bel sogno e stetti ben attenta a non far nulla per farlo finire. Restai immobile tentando di non pensare al letto sul quale ero sdraiata e facendo attenzione a non pensare proprio a nulla. Lasciai che le immagini continuassero ad inondarmi la testa. Fu più facile del previsto. Normalmente appena mi accorgevo di star sognando il sogno svaniva, lasciandomi solo una scia di ricordi confusi nella testa, mentre ora anche se avevo capito che era tutto finto, il sogno procedeva senza intoppi. Sorrisi.
  Mi trovavo seduta sul dondolo in veranda, altro indizio che stessi sognando. Il dondolo dipinto di bianco anni prima da papà e Alex, si trovava ancora in veranda, ma era rotto. Una delle due catene che lo tenevano sospeso da terra si era spezzata un giorno di inverno, esattamente il ventisei febbraio, giorno del mio tredicesimo compleanno, mentre mi ci dondolavo sopra, e per ora nessuno l’aveva ancora aggiustato. Probabilmente doveva essere stato completamente ricoperto dall’edera che mamma si era impegnata a far crescere sul lato sinistro della casa, per coprire una grossa macchia rossa che dei ragazzini avevano fatto un Halloween lanciando contro la casa un palloncino pieno di vernice. Un rosso molto cupo, effettivamente, lugubre e che non era colato sulla parete. Sembrava una cosa gelatinosa e densa, come se fosse apparso da dentro le mura della casa. Quando mamma mi aveva trovato di fuori con il naso in su a fissare la strana macchia, chiedendomi che stessi facendo risposi semplicemente che qualcuno doveva aver ferito la parete, proprio sotto la mia finestra, vedi mamma? E gliela avevo indicata. Mamma per poco non era svenuta. Poi mi aveva portato in casa e fatto promettere di non farne parole con nessuno. Per quanto mi fosse sembrata una richiesta quantomeno bizzarra, tenni la bocca chiusa. Ma a quanto pare non bastò, perché per un bel po’ mi fu impedito di uscire di casa da sola. Potevo uscire solo se con me c’era anche Alex. Forse temevano che i ragazzini dello scherzo potessero tornare ad infastidirmi. Mamma diceva sempre che un gruppo di bulletti ce l’aveva con me, ma io non mi ricordavo di nulla di tutto ciò, di nessuno scherzo, non ricordavo che qualcuno avesse lanciato quel palloncino pieno di vernice vicino alla mia finestra, non ricordavo che qualcuno avesse cercato di bucarmi le gomme della bicicletta, né che dei ragazzini avessero tentato di mettermi sotto con un’auto. Eppure c’era ancora la macchia rossa, ben nascosta sotto l’edera rinsecchita, la mia vecchia bicicletta era ancora in garage con le gomme tagliate, ed avevo una cicatrice sul braccio destro che mi ricordava che se non fosse stato per Alex, che mi aveva afferrato appena in tempo e buttato sul marciapiede, sarei rimasta spappolata sulla strada a causa di un pirata della strada.
  E il sogno per un attimo tremò. Non volevo che svanisse, era tanto bello. Mi faceva sentire felice. Non so perché, ma mi sentivo a casa.
  Mi concentrai sul mio corpo e su quello che provavo. Il sole era caldo e mi scaldava la schiena con i suoi raggi, mentre una brezza leggera tipica dei mesi primaverili, mi accarezzava il viso scompigliandomi i capelli. Chiusi gli occhi deliziata da quella dolce atmosfera, era molto piacevole.
Il cigolio delle catene che reggevano il dondolo mi faceva compagnia, mentre puntavo regolarmente i piedi a terra per darmi una leggera spinta necessaria a non far fermare il moto dell’altalena. Avanti, indietro, avanti, indietro… se non fossi stata sicura di stare dormendo, mi sarei appisolata.
 
  “Mi senti?” chiese piano una voce. Aprii gli occhi.
Mi guardai attorno, ma non c’era nessuno. Mi feci attenta, ascoltando meglio i suoni che mi circondavano: l’altalena continuava a dondolare, quindi c’era il cigolio delle catene, mamma era ancora in cucina e canticchiava mentre l’acqua scrosciava dal rubinetto del lavabo sotto la finestra, il vento soffiava facendo vibrare le foglie dei cespugli sotto la veranda. Era tutto normale. Probabilmente me lo ero immaginata. Richiusi gli occhi con un sospiro lasciandomi andare contro lo schienale del dondolo, sperando di non dovermi svegliare troppo presto. Era tutto così reale.
 
  “Emily” mi chiamò nuovamente la voce, con più decisione. Questa volta scattai all’istante. Mi drizzai e spalancai gli occhi. Feci per aprire la bocca e chiedere chi mi avesse chiamato, ma temevo che così facendo mi sarei svegliata, quindi restai immobile con la bocca aperta a scrutare il giardino apparentemente silenzioso.
 
  “Sono qui!” m’incitò con dolcezza senza pari, la voce vellutata. Dal tono avrei detto che chiunque mi stesse chiamando fosse felice, eccitato all’idea di essere lì con me, in quello strano sogno. Mi alzai e scesi lentamente i gradini della veranda, sorridendo, emozionata da quella strana caccia al tesoro. Esaminai velocemente il vialetto, ma non c’era nulla dietro il quale ci si sarebbe potuti nascondere, quindi mi voltai e costeggiai il profilo della casa.
 
  “Em!” continuai a camminare nel giardino cercando dietro i cespugli e camminando in mezzo alle aiuole – se mamma se ne fosse accorta mi avrebbe ammazzato – ma non c’era nessuno.
Alzai lo sguardo e lo puntai verso la chioma della quercia che era cresciuta in giardino chissà quanto tempo prima che la nostra casa venisse costruita. Mi portai una mano sulla fronte per ripararmi dal forte sole che sembrava una palla di fuoco rossa nel cielo, e strizzai gli occhi per vedere meglio. Eppure nulla.
 
  “ Proprio qui” mi chiamò nuovamente. Lanciai un’ultima occhiata al cielo. Il sole stava cominciando tramontare e le nuvole si stavano tingendo di sfumature rosee assieme al cielo che assunse nel giro di pochi secondi un colore simile all’arancione.
  Uscii dal giardino scavalcando una staccionata che non ricordavo ci fosse vicino a casa mia, attraversando una siepe spessa, e m’incamminai lungo una stradina tutta bianca, fiancheggiata dall’erba alta. Sentii il fruscio della siepe che si richiudeva dopo il mio passaggio.                                  
  Dove ero finita? La siepe continuava infinita alla mia destra ed alla mia sinistra, uno spazio sconfinato ed estraneo. Mi voltai. Deglutii e cacciai via il groppo che avevo in gola. non dovevo avere paura. Continuai a camminare rassicurata dalla certezza che stessi sognando.
Camminai sulla stradina di ghiaia candida per quelle che mi sembrarono ore, ed il cielo nel frattempo si fece buio. Scuro, nero e senza stelle. Fui costretta a fermarmi quando non vidi più la strada sotto ai miei piedi. Adesso ero spaventata. Non c’era più neppure una luce ad illuminare il paesaggio attorno a me. Il cuore mi batteva violento nel petto, picchiando contro il costato.
 
  Ora mi sveglierò, di sicuro.  Pensai speranzosa.
 
Inspirai sperando che la cosa potesse aiutarmi a ritrovare la strada verso la superficie, cercai di muovere il mio corpo, quello vero, in modo da sentire la consistenza morbida delle lenzuola sotto di me, o del cuscino soffice sotto la testa. Ma nulla. Non c’era nulla. Io ero immersa nel nulla.
Serrai gli occhi e strinsi a pugno le dita quando mi sembrò di sentire qualcosa sfiorarmi una guancia. Spalancai la bocca pronta ad urlare con quanto fiato avevo in gola, ma non ne uscì nulla. Non riuscivo ad emettere neppure un suono, non un sibilo, né un mormorio….figurarsi urlare.
  Di nuovo qualcosa mi toccò. Tremai terrorizzata. Perché non mi svegliavo?
Poi quando sentii chiaramente due mani prendermi il viso per tenerlo fermo aprii gli occhi.    
  Ansimavo.
Arrancai atterrita dalla consistenza pesante del buio che premeva contro il mio corpo, tentai inutilmente di muovermi, il viso era ancora stretto tra le mani di qualcuno che non riuscivo a vedere.
  Eppure sapevo che dovevo sforzarmi, che era importante, dovevo trovarlo. Mi aveva chiamato prima. Era stato dolce, la sua voce rassicurante. Non mi avrebbe ferita. Così, improvvisamente, li vidi.
Erano i suoi occhi, non potevo sbagliarmi. Ne ero certa.
Grandi e azzurro ghiaccio. Bellissimi.
 
 
 
 
 
NOTE AUTORE
 
Okay….questa è la prima storia che pubblico. Parto dal presupposto che amo ogni mio singolo personaggio, e vorrei che anche i lettori vi si affezionassero. Ogni recensione, commento, consiglio positivo o negativo che sia sarà ben accetto J Graaaaazie!
   
 
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