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Autore: Gun    28/05/2013    3 recensioni
Tra amori impossibili, incesti, figli illegittimi e gelosie un'Hinata che dopo la guerra si trova ad affrontare la perdita di Neji e la possibilità di dover crescere un figlio da sola.
Scelte sbagliate, egoismo ed istinto di sopravvivenza: ma la vera vittima, poi, chi è?
Dal testo:
"Tornai con le dita sul suo mento, ed attirai le sue labbra alle mie: le cose pure non erano fatte per quelli come noi, perché quello che avevamo non era puro, non per gli altri.
Avevo baciato mio cugino.
Neji.
E mi era piaciuto, da morire.
E lo volevo ancora, lo volevo sempre."
Non aspettatevi una storia d'amore tra ragazzi: non lo è.
(Collegata in parte a "Kiss The Rain" -NarutSasu-)
Genere: Drammatico, Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hanabi Hyuuga, Hinata Hyuuga, Kiba Inuzuka, Neji Hyuuga | Coppie: Kiba/Hanabi, Kiba/Hinata, Neji/Hinata
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Incest, Spoiler!, Tematiche delicate | Contesto: Naruto Shippuuden
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L'unica cosa da dire è che il finale è a libera interpretazione, e che è tutto collegato a "Kiss The Rain" , che non è indispensabile leggere per capire ma molto utile.
Enjoy!

 










_______________~ Useless - Mai abbastanza ~______________­_


 

 
 




Il ricordo più bello che ho di Neji risale a quando mi baciò per la prima volta.
Era notte fonda, tornavamo da una piacevole serata tra amici.
“Hinata-sama…” mi disse, mentre camminavamo silenziosi e forse anche parecchio imbarazzati dalla situazione: non siamo mai stati soli se non durante gli allenamenti.
“Voi… tu, sei innamorata di lui, vero?” Sapevo in che direzione andasse quel “lui”, eppure chiesi spiegazioni comunque.
Sempre poco chiaro, il mio Neji.
“Intendo Naruto…” mi disse, puntando lo sguardo all’asfalto del vicolo.
Per infiniti istanti trovai gli alberi di ciliegio la cosa più interessanteal mondo, poi tornai con lo sguardo a lui: la luna si rifletteva sui lunghi capelli, e non mi sfuggì sul suo viso una pallido rossore misto all’inquietudine dei suoi occhi.
Mi avvicinai, intrepida come non mai, tradita da un leggero tremore alle ginocchia.
Ad un passo dal suo viso, ebbi lo sfacciato coraccio di prendergli il mento tra le dita: mi vergognai di me stessa.
“Niisama…” gli sussurrai appena, sicura… almeno all’apparenza.
“Non ne sono sicura… ma lo ero, fino ad un’ora fa’…”
Mentii.
Vidi i suoi occhi velarsi di malcelata irritazione, prima di soppesare le mie parole una ad una.
“Vuoi dirmi che lo amavi fino ad un’ora fa’, o che ne eri sicura allora?” mi chiese, pretendendo tempo per pensare.
“Niisama, qualora ancora lo fossi, sarebbe il mio amore qualcosa di cui vergognarmi?” feci, con fare indagatore, mentre il suo viso sfuggiva al mio controllo ed i suoi occhi andavano a cercare i miei; non potei trattenermi dal lanciare uno sguardo furtivo alle labbra, schiuse e pronte a ribattere.
“No, Hinata-sama… no di certo.” Mi rispose lui; falso, canzonatore.
“Oh, Niisama, se tu conoscessi la vera me, sapresti che le cose pure sono quelle che più disprezzo.” Gli risposi io, con un velo di superbia di una donna vissuta che insegna al mondo: quasi non mi riconobbi in quel frangente.
“Per quale motivo, Hinata-sam-“
“Ti prego di mettere le onorificenze da parte quando siamo soli, Neji.” Mi guardò confuso dalla mia presa di posizione, prima che continuassi il mio ragionamento.
“Le cose pure sono per i puri di cuore, per chi sa tenerle pulite e lucide, non per quelli come noi.”Lo vidi irrigidirsi alla mia affermazione, e trattenni un ghigno di soddisfazione.
“Noi… chi, Hinata?” mi chiese, confuso o solo in cerca di conferme.
“Me, e te, Neji. Vuoi farmi credere che sei il bravo ragazzo che ti sforzi di sembrare?”
“Tu non mi conosci.”
“Ma sono curiosa di sapere fino a quale limite sei disposto a superare.”
“E lei, Hinata-sama? Dove vuole arrivare?”
“Dove tu sei disposto a guidarmi, Neji.”
Lo vidi sorridere soddisfatto, prima di abbassarsi alla mia altezza, lentamente; troppo lentamente.
Tornai con le dita sul suo mento, ed attirai le sue labbra alle mie: le cose pure non erano fatte per quelli come noi, perché quello che avevamo non era puro, non per gli altri.
A due millimetri dal paradiso vidi Neji cercare di sfuggire alla mia presa, per poi prendere a guardarmi dall’alto. Dopo nemmeno un secondo la sua bocca era poggiata avaramente sulla mia. Mi chiedeva, mi desiderava ed io mi donavo inerme, abbandonata in quel limbo tra finzione e realtà.
Poi scoccò la mezzanotte e l’incantesimo si spezzò: Neji si sottrasse dal mio tocco come ferito: lo guardai indietreggiare e darmi le spalle.
“Non possiamo, Hinata-sama. Non è giusto… questo è… un oltraggio. Alla memoria di mio padre e alla volontà del suo.”
Lo guardai imbarazzata mentre prendevo coscienza dell’accaduto.
Avevo baciato mio cugino.
Neji.
E mi era piaciuto, da morire.
E lo volevo ancora, lo volevo sempre.
Guardai ancora il cemento, mentre sentivo le mie guance invase da un’innaturale calore.
Neji voltò il viso nella mia direzione, guardandomi turbato.
“E’ stato un errore, Hinata-sama. Mi dispiace, non sa quanto.”
Le sue parole mi trafissero le spalle costringendomi a raddrizzare la schiena e spalancare gli occhi.
Errore.
Sapevo che lo fosse, ma sentirlo dire da lui stesso era diverso.
“Errore… un… Errore.”
Un kunai immaginario che partiva dalla pelle del petto: squarciava i tessuti, bucava la pelle, separava le costole, bucava l’organo, spezzava le ossa e fuoriusciva tra le scapole. Faceva male.
 Continuai a ripetere quella parola come fosse una preghiera, uno specchio sul quale arrampicarmi, un mantra: volevo sentirgli dire che non era un errore, ma l’unica risposta alle mie preghiere fu il suo sguardo piantato ancora una volta al suolo.
Mi avvicinai, adirata, e lui si voltò per affrontarmi.
Gli puntai l’indice al petto con fare accusatorio, quasi come se avessi voluto infondergli lo stesso tipo di dolore che provavo io.
“E’ un errore, Niisama? Un errore?!” lo vidi sbarrare gli occhi dallo stupore per mio gesto.
 “Hinata…” impietosito o sinceramente dispiaciuto?
“No, Neji, tu non capisci. Tu non sai.” E non avrei mai voluto piangere.
“No, Hinata… Va’ tutto bene.”
Mai una volta in quindici anni Neji aveva provato anche solo ad appoggiarmi una mano sulla spalla per infondermi coraggio; eppure quella volta la sentii bene, la sua mano che mi stringeva forte al suo petto, e le dita ad accarezzare i capelli e la nuca.
“Mi dispiace, Neji, mi dispiace. Ed ho provato ad amarlo davvero, Naruto, ci ho provato. E dopo lui Kiba, ma non posso, Niisama, non posso. Non posso se quello che voglio sei tu, e non posso averti.”
Tremò, Neji, alla mia confessione; tremò ed io affondai ancora di più il viso nel suo petto, piangendo ancora.
 
Mi sono innamorata di Neji quando ancora eravamo bambini, quando le divergenze tra la casata cadetta e quella principale erano ancora longeve dall’essere spianate.
Mi sono innamorata della sua freddezza, della pacatezza, del suo “non mostrare emozioni”, così lontano da Naruto, da quel sorriso caldo e quella forza di volontà sempre costante.
Ho provato ad amare Naruto, l’opposto del mio Neji.
Ho provato ad amarlo solo per non dover sopportare il peso di un amore impossibile, sia da dimenticare che da vivere.
C’è stato un momento in cui ho creduto davvero di amarlo, ma vedere Neji spingersi sempre più verso Tenten faceva male lo stesso.
Amavo di Neji quello che lui decideva di mostrarmi, quello che credevo di poter vedere solo io.
Eppure, quella sera conobbi il vero Neji.
Ho amato lui allo stesso modo o forse più.
 
Piangevo ancora tra le sue braccia quando sentii un frusciare innaturale tra le foglie, non gli diedi peso. Se solo avessi saputo…
Neji mi distaccò con garbo dalla sua presa, mi prese il viso tra le mani e mi guardò incerto. Poggiò la sua fronte sulla mia e chiuse gli occhi. Sospirò, mentre aspettavo la sua risposta come un carcerato aspetta la sua sentenza.
Portai le mie mani alle sue: mi sentii così piccola e fragile, in confronto a lui… Sempre forte e forse irraggiungibile.
Gli accarezzai le dita piano, non smettendo di attendere lo schiudersi dei suoi occhi. Gli stavo facendo male, lo sentivo bene, eppure sorrisi.
“Lascia che accada, Niisama” gli dissi solo, e contai i millesimi di secondo mentre le sue labbra si piegavano in un sorriso di approvazione; annuì piano e si allontanò da me il tempo necessario per riprendere la mia bocca.
La mia sentenza arrivò con quel bacio: mi aveva condannato ad una vita all’inferno senza nemmeno saperlo.
O forse ero stata io, quella che aveva condannato entrambi?
Avrei voluto dirgli che no, non amavo Naruto, né Kiba, né nessuno che non fosse lui.
Lo feci solo mesi dopo, quando una notte rimanemmo soli in camera mia.
Lo feci tutte le notti seguenti, quando entrava dalla finestra, mi dava il tempo di amarlo e poi spariva di nuovo.
Avrei voluto poter guardare l’alba sorgere con lui dopo ogni visita furtiva e non ho mai potuto, perché nessuno mai doveva sapere di quell’amore malato che consumavamo ogni notte.
Malato, per il mondo troppo avvelenato da poter scorgere nel peccato il più bello dei desideri.
Ed io mi sono sempre dovuta accontentare di averlo per un’ora o due nel mio letto e sentire poi la sua mancanza per tutta la notte. L’unica alba che ho guardato con lui è stata durante la guerra: inutile dire che non ho potuto mai dirgli che lo amavo mentre facevamo l’amore, eppure glielo confidai lo stesso con gli occhi e lui fece lo stesso con me.
E poi successe tutto così in fretta.
Fu un attimo, e quello dopo ero sola.
Fu un attimo e rividi nitidamente tutti i momenti con lui con la consapevolezza che non sarebbero mai tornati.
Quant’è ironica la vita a volte.
L’altro ieri guardavo Neji da lontano col timore di avvicinarlo, ieri lo amavo nel mio letto, oggi lo piango ad una stupida commemorazione per i caduti in battaglia.
E domani?


                                                                                 
                                                                                                                         
   _______  ~°~  _______

 
 
Che non fossi mai stata sola per tutto il tempo da quando Neji mi ha lasciata infondo l’ho sempre saputo.
Lo capii davvero solo quando alla commemorazione con una mano reggevo l’ombrello nero e con l’altra mi sfioravo il ventre momentaneamente piatto.
Me ne sono fatta una ragione in quel momento, e capii presto di dover trovare una soluzione: mio padre non doveva sapere.
Non ero mai stata la figlia perfetta, questo lo so.
Ho provato a diventare il ninja che lui voleva che io fossi: la verità è che non sono mai stata forte abbastanza da farlo, e sinceramente dopo aver capito che quel compito non spettava a me ho rinunciato all’idea di accontentare mio padre.
C’era Hanabi.
La perfetta Hanabi.
La forte Hanabi.
La grande, Hanabi.
 
E poi c’era Hinata.
La debole Hinata.
La fragile Hinata.
Mai abbastanza, Hinata.

Ero abbastanza per Neji e questo mi bastava, sì, ma già allora Neji non c’era.
La verità è che ero sola, con un figlio da crescere.
E non c’era nemmeno Naruto,  una delle tante vittime della guerra: se l’era portato con sé, Madara; insieme a Sasuke.
 
Forse non era tanto il giudizio di mio padre a spaventarmi: alle sue critiche ed al suo odio ormai avevo fatto l’abitudine da tempo.
Era la stessa Hanabi, il vero problema.
Era dover vedere la soddisfazione nei suoi occhi dopo avermi distrutta completamente.
E forse anche la delusione di Kiba.
Gli ho sempre voluto bene come se ne vuole all’unico fratello che si ha, e mi spaventava doverlo guardare negli occhi e leggervi disprezzo.
Fu quando mi resi conto di questo che trovai la soluzione al mio problema: Kiba mi amava;  io avrei amato un solo uomo in tutta la mia vita, se non il figlio che mi cresceva dentro, sì, ma Kiba mi amava davvero.
Forse avrei potuto fingere di farlo anch’io, per tutta la vita.
L’avrei fatto solo per il mio bambino, dovevo.
Sposando Kiba gli avrei assicurato un avvenire sicuro: gli Inuzuka erano uno dei Clan più importanti di Konoha, dopo gli Hyuga e gli ormai estinti Uchiha.
E Kiba, per quanto bene gli voglia, non ha mai brillato per intelligenza: in questo mi ricorda molto Naruto, così ingenuo, così manipolabile.
Fu estremamente facile architettare il tutto: avevo perso mio cugino e l’uomo che amavo in guerra.
Triste, sola, indifesa Hinata.
Lui, migliore amico sin dall’infanzia, compagno di Team.
 
Mi avvicinai a lui un pomeriggio di luglio.
O forse sarebbe meglio dire che si avvicinò lui a me, quando mi vide sola appoggiata all’albero dov’erano incisi i tempi di corsa suoi e di Naruto, dove ero solita allenarmi prima della guerra.
Il mento poggiato alle ginocchia, sentii piano la sua mano accarezzarmi i capelli.
“Non sei sola, Hinata. Non lo sei mai stata.”
Sorrisi soddisfatta tra me e me a quell’affermazione: di questo ne ero certa.
“Kiba, quando smetterà di bruciare?” gli chiesi, e quasi riuscii ad ingannare perfino me stessa.
La sua carezza leggera si fermò e mi voltai a guardarlo. Si sedette accanto a me e mi cinse le spalle con un braccio, prendendo poi ad accarezzarmi il viso con l’altra mano.
Si avvicinò piano, quasi come se aspettasse di vedere il minimo cenno d’esitazione da parte mia.
Avrei esitato, se non avessi  ripassato la mia parte a memoria mille volte.
Avrei esitato, se Neji fosse stato vivo e non fossi stata incinta.
Chiuse gli occhi piano e sospirò prima di incontrare la mia bocca a metà strada, io invece continuai a guardarlo per tutto il tempo.
E mi feci schifo, sì, tanto.
Un po’ per aver tradito Neji, un po’ per aver tradito Kiba.
Ma era necessario.
Passammo una settimana intera a baciarci sotto quell’albero prima che gli permettessi di andare oltre.
Kiba era ed è tutt’ora bellissimo, solo una pazza non l’avrebbe desiderato; sta di fatto che stare con lui fece mille volte più male che baciarlo, ma il tempo era mio nemico e mancava poco prima che i segni della gravidanza cominciassero a manifestarsi.
Mi consolò per tutto il tempo il pensiero che sarebbe stata l’ultima volta, per i nove mesi successivi.
Un mese dopo andai da lui con le lacrime agli occhi: quando seppe del ritardo rimase stravolto.
Mi guardò incredulo, e quasi pensai di sognare quando cominciò a sorridere.
Mi strinse forte e cominciò a piangere con me; lui di gioia, però.
“Ma ci pensi, amore? Avremo un figlio…” continuava a ripetere con lo sguardo sognante. Dopo nemmeno due minuti eravamo seduti su una panchina a progettare un futuro felice quanto falso.
 
Quella sera mi portò a casa sua: facemmo sedere sua madre ed Hana al tavolo della cucina e gli dicemmo tutto: entrambe ebbero più o meno la stessa reazione di Kiba.
Eppure Akamaru sapeva, ne ero sicura. I cani hanno quel certo sesto senso…
La mattina dopo toccò ai miei e non mi sono mai aspettata di più dalla loro reazione:
Mio padre mi chiese quando ci saremmo sposati.
Mia madre mi abbracciò, felice.
Hanabi si congratulò con il solito falso sorriso ed un abbraccio di legno.
Un mese dopo Konohamaru stava celebrando il nostro matrimonio: il giorno più brutto della mia vita.
Piansi, piansi tanto quella notte e quella prima; piansi mentre abbracciavo la mia pancia rigonfia convulsamente.
Ci trasferimmo nella nuova casa quel giorno stesso: lasciai decidere a Kiba ogni cosa liquidandolo con un “Mi fido di te” ad ogni domanda: la verità è che non me n’è mai importato niente di che colore dovessero essere le tende o di dove andasse la camera del bambino.
L’unica pretesa che avanzai fu’ quella di avere una foto di Neji in ogni stanza, era il mio modo per averlo sempre accanto in quel castello vuoto.
Ne volli una anche nella stanza di mio figlio, perché lui potesse guardare il viso di suo padre ogni notte prima di addormentarsi.
Perché potesse, un giorno, diventare come lui.
Kiba non fece obiezioni e mi lasciò sistemare le foto incorniciate come meglio mi pareva,
penso che l’unico momento in cui abbia obbiettato su qualcosa fu’ quando gli dissi di aver scelto il nome del bambino da sola, già da tempo.
Era inverno ed eravamo abbracciati di fronte al fuoco del camino, sul divano in salotto.
Ha sempre avuto il vizio di accarezzarmi la pancia durante ogni gravidanza, Kiba, e lo stava facendo anche quella notte.
“Hinata, non abbiamo mai parlato di che nome dargli, sai?” mi disse, sereno.
“Se fosse una femmina, mi piacerebbe chiamarla Tsume, se invece fosse un maschio mi piacereb-“
“Neji.” Lo interruppi, guardando dura nel vuoto.
“Come scusa?” mi fissò lui, incredulo.
“E’ un maschio, amore, e si chiamerà Neji.” Potetti sentire i suoi muscoli tendersi e la colonna vertebrale irrigidirsi.
“E tu come fai a saperlo?”
“Una madre queste cose le sente.” Gli risposi solo, tranquilla.
“Qualche problema, Kiba? Non ti piace il nome che ho scelto?” Gli chiesi, col solito sorriso falso.
“Non è quello il problema, Hinata. E’ il fatto che tu lo abbia fatto da sola.”
“Non pensavo ti interessasse.” Dovetti irritarlo parecchio perché si alzò e mi diede le spalle.
“E’ anche figlio mio, Hinata. Anche se sembra che tu a volte te ne dimentichi. Sempre chiusa nel tuo mondo, non ti rendi nemmeno conto di quanto male fai a chi ti sta accanto.”  Detto questo se ne andò in camera da letto e non è il caso di raccontare cosa feci per fami perdonare quella notte.
Che mi rendessi conto o meno di chi avevo attorno poco contava, la mia vita non esisteva più. Andavo avanti per una cosa ed una soltanto: Neji. Entrambi, i Neji.
 
 
Il bambino nacque mesi dopo, in regola con i conti che io portavo.
Kiba non accennò nulla sul fatto che il bambino fosse nato all’ottavo mese, e non il nono, secondo i suoi calcoli.
L’unica cosa che mi è rimasta dentro di quel giorno –dolore a parte- è stato il momento in cui l’infermiera mi adagiò Neji tra le braccia.
“Complimenti signori Inuzuka, è un bellissimo maschietto. Avete già scelto il nome?” chiese lei, cordiale, e non feci nemmeno caso a Kiba che provò a risponderle prima di affermare il solito “Neji” forse sussurrato più tra me ed il bambino, che come risposta alla donna.
Aveva gli occhi di suo padre già appena nato, il mio Neji.
E con la crescita non si smentì per nulla: i capelli, le mani, i gesti, la voce, il modo di fare, la camminata, il portamento, era lui.
Era Neji.
Il mio Neji.
 
Non sarei una madre degna di questo nome se non dicessi che ho amato ed amo i miei figli allo stesso modo, ma è inutile negare che in Neji ho riposto una parte di me –forse la principale- che non ho mai donato a nessun’altro.
 
Quelli dopo la nascita di Neji furono anni pieni di novità: mio padre morì quattro anni dopo, e a nemmeno tre mesi di distanza fu’ annunciato il matrimonio di mia sorella Hanabi con niente poco di meno che il settimo Hokage, Konohamaru Sarutobi.
Mi sono a lungo interrogata sul come abbia fatto ad accaparrarsi l’Hokage, che all’epoca sembrava essere sul punto di sistemarsi con la sua vecchia compagna di team, Moegi, poi non ho avuto più troppo tempo per pensarci: dopo un mese dal suo matrimonio ero incinta della mia secondogenita, Tsume.
La madre di Kiba è vissuta giusto il tempo di veder nascere Tsume, morì quella notte stessa, nella stanza d’ospedale di fianco alla mia: una volta Kiba mi ha confessato di pensare che Tsume sia la reincarnazione di sua madre, per quanto le somiglia. Lo stroncai subito quando gli dissi che anche Neji era uguale a mio cugino, ma non per questo dovevamo avere solo parenti reincarnati.
Povero Kiba, la perdita di Akamaru e sua madre gli è stata nociva.
 
La vita dopo la nascita di Tsume corse tranquilla; quello fu’ forse uno dei pochi periodi sereni o quantomeno tranquilli nella mia vita: avevo due figli splendidi, entrambi destinati a diventare shinobi di prim’ordine -con il Byakugan di Neji e le doti del Clan Inuzuka di Tsume – ed inoltre non potevo di certo lamentarmi di mio marito.
Ero serena; non felice, ma serena, ed era più di quanto avessi potuto sperare: avevo rinunciato alla felicità il giorno in cui dissi addio a Neji.
Così passarono dieci anni.
Dieci anni di successi in accademia da parte dei ragazzi, e quando Neji diventò jonin ad appena quattordici anni non mi sorpresi più di tanto: gli sorrisi felice, lo abbracciai forte e gli sussurrai all’orecchio “Quello che ci si aspetta dall’erede di tu padre, Neji.”
Non penso che mio figlio abbia mai capito che quella era più che altro una confessione.
Dopo poco Neji diventò capitano di un suo team, nel quale c’era Naruto: quarto ed ultimo figlio di Kakashi e Sakura.
Mi sono sempre chiesta se dare ai nostri figli i nomi di persone care e ormai scomparse sia stato un vizio del dopoguerra: perfino Temari e Sai avevano chiamato loro figlio Gaara. Se avessimo continuato di questo passo la nuova generazione di Konoha sarebbe stata composta solo dai vecchi nomi di un tempo.
 
 

_______  ~°~  _______

 
 
Ho pensato spesso alla notte in cui io e Neji ci confessammo.
Spesso è dire poco, lo sogno ogni notte da quando Neji se n’è andato.
Penso di ricordare a memoria ogni singolo dettaglio: dal cielo nuvoloso al viale di ciliegi, dal vento primaverile al suolo di mattoni.
Ricordavo tutto anche all’epoca, eppure non mi sono mai chiesta chi ci avesse visto, quella notte.
Lo notai, quel fruscio irregolare tra i rami. Lo notai e non gli diedi peso.
Sbagliai.
Ne avrei pagate le conseguenze dopo anni.
 
 

_______  ~°~  _______

 
 
Erano passati ormai sedici anni dalla morte di Neji: avevo trentadue anni quando Kiba mi chiese un terzo figlio, ed io glielo concessi.
Mi sono sempre sentita in colpa con lui per tutto quello che gli ho fatto, quindi mi sono ripromessa di non negargli niente di tutto quello che mi avesse mai chiesto nel corso degli anni, e come non gli ho negato Tsume nemmeno Alhena è tardato ad arrivare, in contemporanea con la prima gravidanza di mia sorella.
Al tempo mi chiesi perché ogni avvenimento importante della vita di mia sorella sia sempre stato collegato ad una mia gravidanza: al suo matrimonio decidemmo di avere Tsume, ed alla sua prima gravidanza Alhena; ora se ci ripenso mi sorprendo della mia stupidità.
 
E’ risaputo che dopo anni di matrimonio le cose non vanno come al primo giorno: la passione si spegne (se ce n’è mai stata) e comincia a sentire il proprio coniuge come componente della famiglia, e non innamorato… non che Kiba lo sia stato mai.
Sapevo anch’io che prima o poi Kiba si sarebbe stancato di me, e a dirla tutta non me n’è mai importato poi tanto: avevo i miei figli, ero incinta del terzogenito ed ero soddisfatta di questo.
Eppure non potetti fare a meno di notare quell’assurdo cambiamento in lui.
Da un giorno all’altro mio marito prese a guardarmi con occhi diversi: non era più quel ragazzino innamorato del dopoguerra o quel marito adorante che era stato fino a poco prima: era freddo, distaccato, sprezzante.
Arrivai al punto di chiedermi se lo fosse stato mai, se non mi fossi immaginata tutto, se la mia presunzione non mi abbia giocato brutti scherzi facendomi vedere un ragazzo innamorato dove invece c’era solo un amore impossibile.
La risposta mi arrivò un inverno.
Eravamo seduti ancora su quel divano dopo anni, nella stessa posizione di sempre, con il fuoco del camino acceso; eppure sentivo i suoi pensieri distanti davvero per la prima volta: allora capii.
“Da quando?” chiesi solo, certa che avrebbe capito.
Non provò nemmeno per un’ istante a fingere, anzi, sembrò sollevato alla mia domanda: io sapevo, finalmente.
“Da sempre, Hinata. Sempre.”
Confessò come se fosse stata la cosa più naturale del mondo dire alla propria moglie che mentre diceva di amarla in verità cercava solo di rimpiazzare sua sorella minore.
“Ho sempre amato Hanabi, ma la differenza d’età è troppa, tuo padre non le avrebbe permesso mai di… E poi c’eri tu.”
Rimasi impassibile alle sue parole, l’unica cosa che mi bruciava da morire era l’orgoglio: Hanabi aveva vinto, ancora.
“In tutti questi anni mi hai usata come rimpiazzo. E dimmi, Kiba, il fatto che le nascite dei nostri figli combaciano con quella del matrimonio e gravidanza di mia sorella è una coincidenza?”
Hanabi vinceva sempre.
“Abbiamo cercato di farci male a vicenda per tutti questi anni, Hinata. Io mi sposavo, lei seduceva l’Hokage. Io avevo un figlio, e lei ci andava a letto. Nasce Tsume e lei si sposa. Alhena, e lei rimane incinta.”
Hanabi, con mio padre.
Hanabi, con mio marito.
Hanabi, nel mio letto.
Hanabi, sempre Hanabi.
Solo Hanabi.
Sempre Hanabi.
E Neji era l’unico che non vedeva la brutta copia del piccolo genio, quando guardava me.
Io non sono Hanabi.
 
Sono Hinata.
Solo, Hinata.
La debole Hinata.
La fragile Hinata.
Mai abbastanza, Hinata.
E non è abbastanza, non lo è mai.
Perché c’è Hanabi.
C’è Hanabi e non c’è Neji.
Non c’è Neji e c’è Hanabi.
Sempre sempre sempre.
 
“Andiamo, Hinata, non vorrai dirmi che sei gelosa.”
Freddo, Kiba, come mai prima; un coltello tra le scapole.
E poi capii: era tutta colpa mia, infondo.
“Eri tu, quella notte.”
“…Sì, ero io.”
Una doccia di ghiaccio nel mese di febbraio.
“Tu sapevi tutto, fin dall’inizio.”
Parlavo da sola ormai, nemmeno sentivo la voce di Kiba deridermi.
Per tutti quegli anni aveva recitato una parte perfino più convincente della mia.
Per una volta, una soltanto, avevo davvero creduto di aver vinto.
Contro Hanabi, contro il destino, contro la vita e la morte stessa.
La verità è che io ho perso, per tutto il tempo.
Ho giocato una partita senza tener conto degli assi nella manica dell’avversario.
“Dovrei rimanere a guardare mentre ti scopi mia sorella in casa mia, Kiba?”
Bruciava, il mio orgoglio; bruciava nelle fiamme più nere dell’Amaterasu degli Uchiha e faceva male da morire.
“Hai alternative, Okusan? O vuoi che si sappia che Neji Inuzuka è in verità figlio di Neji Hyuga, cugino della madre? Rovineresti davvero la vita del tuo bambino? E che figura ci faresti tu, la rispettabile Hinata Hyuga?”
 “E’ anche figlio tuo, Kiba.”
Temetti la sua risposta per infiniti secondi, e quando sentii la sua lingua schioccare contro il palato quasi ebbi un sussulto.
“Figlio mio, Hinata? Ora che ti è comodo? No, cara, è figlio tuo. Tuo e di Neji, sebbene io l’abbia cresciuto ed amato come ho amato i miei figli.”
“K-Kiba…”
Riuscii a stento a sussurrare il suo nome, prima di guardare in faccia la realtà.
“Hai perso, Hinata.”
Ho perso.
 Per tutto il tempo, ho perso.
Sempre, ho perso.
La debole Hinata.
La fragile Hinata.
Mai abbastanza, Hinata.
E per una volta, una sola, avevo pensato di avercela fatta.
La mia maschera cadde quella notte, ed assieme alla mia quella di Kiba.
Ho perso.
La mia dignità, l’amore della mia vita, il rispetto di mio marito, i miei figli, la rivincita su mia sorella, tutto.
Ho finto per anni.
Non è servito a nulla.
Sono morta, sebbene il mio cuore continui a battere.
Sono morta quando Neji se n’è andato.
Sono sopravvissuta grazie alla batteria di riserva, il mio secondo cuore.
Neji.
Solo Neji.
Sempre Neji.
 
Perdonami, padre, se non sono mai stata come tu mi avresti voluto.
Perdonami, madre, se hai dovuto guardarmi cadere.
Perdonami, sorella, se non sono mai stata forte abbastanza da essere la tua roccia.
Perdonami, marito, se non ti ho mai considerato tale.
Perdonami, Tsume, se ho ripetuto gli errori del passato.
Perdonami, Alhena, se non ti ho mai accettato come mio figlio.
Perdonami, Neji, figlio mio, se ho fallito ancora.
Perdonami, Neji, se alla fine non sono stata abbastanza nemmeno per te.
 
Sono solo Hinata.
La debole, Hinata.
La fragile Hinata.
Mai abbastanza, Hinata.
Hinata.
Solo Hinata.
Sempre Hinata.

“Hinata?”
“Hinata…?”
“Hinata!”
“Hinata…”

















 



Note per la comprensione (che dovrei scrivere nel caso riuscissi a capire me stessa) :

Okusan: è una versione "dispregiativa" di moglie che rimane a casa come una serva, e non una vera e propria "signora della casa".

Il finale è a libera interpretazione, Hinata potrebbe essersi svegliata da un incubo, potrebbe essere morta, potrebbe essere in coma o perfino aver immaginato tutto: a voi le conclusioni.

Critiche e correzioni sempre ben accette.
Grazie per il tempo speso in qualsiasi caso. :)

-Gun.
  
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