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Autore: None to Blame    07/06/2013    5 recensioni
Arthur lavora alla Camelot Cost Reduction di Uther, è una macchina perfetta sul lavoro ed una macchina imperfetta nelle relazioni, ha paura del buio, è ancora un bambino anche se non lo è mai stato e conserva nel cassetto il suo sogno più intimo.
Merlin studia Lettere e scribacchia poesie, vive con Will in una topaia e lavora al Roast Dragon di Gaius, scrive recensioni come free-lance, ha un debole per le caramelle gommose e l'alternative metal.
C'è Londra e c'è la Tube, ci sono animali domestici e tende colorate, fotografie ingiallite e storie della buonanotte;
c'è l'atmosfera bohémien degli artisti falliti ed il pessimismo di quelli esordienti;
c'è un po' di caffè per darsi la carica, perché scavare nell'uomo alla ricerca dell'uomo consuma il cuore.
Ed, in fondo, è sempre meglio tenersi per mano e lasciarsi andare.
Genere: Commedia, Fluff, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Merlino, Principe Artù, Un po' tutti | Coppie: Merlino/Artù
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
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Note introduttive di una miserabile autrice

Penso sia meglio eclissarmi prima che mi uccidiate.
Dunque, non sono molto brava con le scuse. Vi chiedo umilmente di perdonarmi per questo mio esagerato ed ingiustificabile ritardo. E vi ringrazio per le vostre splendide recensioni (a questa e a “A piedi nudi”, alle quali risponderò a breve, non temete) e le vostre affettuose parole nella casella di posta. Non so proprio che dirvi. Non ci sono scusanti.
Spero che questo (sudato, per voi) capitolo vi piaccia. Scusatemi ancora, davvero! Le mie colpe mi opprimono.
 
 
 
 

IV
La cloche fêlée

 
 

 
 
La camera di Morgana sembrava insolitamente morta.

Gli armadi erano aperti ed i ripiani liberi dai suoi preziosi vestiti, le grucce penzolavano miseramente, alleggerite dal peso dei cappotti, nella scarpiera i posti vuoti lasciati dalle Jimmy Choo e Louboutin pulsavano e parevano piangere di nostalgia.
Morgana si era portata via anche il poster di James Dean, che aveva incollato alla parete con cura e dedizione.

Arthur, nove anni (« quasi dieci! ») di pancetta morbida e cosce di pollo, si asciugò con la manica del pigiama i lacrimoni che gli rotolavano sulle guance paffute, tirando su col naso.

Si era seduto a terra appoggiando la schiena al letto. Era il suo posto preferito. In quella posizione, Morgana, stesa su un fianco, gli accarezzava sempre i capelli, infilandoci le dita e massaggiando meccanicamente, mentre parlava. Gli raccontava dei film che ancora non gli facevano vedere, di quello che studiava, dei ragazzi che le piacevano (ed Arthur si ingelosiva, e Morgana si divertiva).

Ogni tanto, Arthur leggeva a Morgana le storie che scriveva quando era certo di non poter essere scoperto. C’era una bambina che si chiamava Alice e aveva capelli neri e pelle bianca ed un leprotto come migliore amico. Sua sorella rideva, a volte si commuoveva. 

Ogni tanto parlavano della mamma.
Ygraine non era la madre naturale di Morgana, ma non importava perché anche lei era cresciuta idealizzando quella donna.

Morgana aveva quindici anni, i capelli in un lucido carré ed un fazzoletto rosa legato al collo, quando se ne andò.

Arthur non capiva cosa fosse successo. L’aveva sentita litigare con Uther nello studio e lasciare casa sbattendo la porta due ore dopo.

Passò una settimana e Morgana tornò.

Scoccò un’occhiata ad Arthur, fermo sulla porta con un sorriso largo e speranzoso, e gli accarezzò la guancia, per poi correre al piano di sopra e chiudersi in camera. Nel vialetto, appoggiato ad una station wagon ultimo modello, stava Agravaine, con i capelli impomatati e l’aria leziosa. Arthur aveva ereditato da suo padre il disprezzo per lo zio e lo zio vedeva nel piccoletto, sotto i capelli e gli occhi di Ygraine, ben troppo di Uther per farselo piacere.

Restarono a guardarsi, sotto quella pallida cappa estiva peculiare di Londra, e poi il bambino richiuse la porta con uno scatto. Non raggiunse sua sorella, ma si ritirò nella sua cameretta.

Morgana riuscì a riunire nell’ingresso tutte le sue cose in poche ore ed Agravaine le caricò in macchina. La ragazza aprì la portiera e tentennò prima di salire. Sollevando lo sguardo, vide il volto del fratello corrucciato dietro la finestra. Gli sorrise, come a scusarsi, e salì sull’auto.

Dovette tamponarsi il trucco con un cleenex perché non si sciogliesse lungo la strada.
 
 
 
**
 
 
 
La Renault frenò, scricchiolando sulla ghiaia. I fari pulsarono un ultimo attimo e poi si spensero. Quasi simultaneamente, le portiere si aprirono ed i quattro passeggeri uscirono. Will scese dalla postazione di guidatore, guardandosi sospettosamente in giro e strofinandosi le braccia per riscaldarle un po’.

«Levati dal cazzo, moccioso. Torna in macchina. »

A richiamarlo fu un uomo dalla stazza pesante e tozza, radi capelli rossi e gli occhi porcini. Rispondeva al nome di Ronnie, detto “la Volpe”, e si portava dietro una pessima reputazione. Joe “Manolunga” Prickley – un metro e novanta di peli sulle braccia e accento americano – lo spintonò, ammonendolo, mentre si sistemava una 7mm nella cintura dei pantaloni, nascosta sotto la giacca in finto camoscio.

Will annuì, ricacciando in un angolo remoto della mente il familiare timore, ed inserì la chiave nella toppa, facendola scattare.

« Ragazzo »  lo richiamò il terzo, facendo schioccare la lingua. Sembrava il più anziano del gruppo, i capelli sale e pepe e le folte sopracciglia grigie, la mascella squadrata ed uno sguardo quasi da saggio o filosofo sopra un perenne sorriso minaccioso.
La testa di Will scattò in alto. Era terrorizzato. Benny “la Fava” non gli parlava mai.

« Stai andando bene »  disse Fava, senza dargli la soddisfazione di incrociare i suoi occhi. « Devi solo controllarti meglio. »

« D- d’accordo, signore » balbettò l’altro in risposta. Fava sghignazzò e fece un cenno agli altri. Manolesta prelevò dal bagagliaio le borse ed una valigetta metallica. Si allontanarono lentamente, dirigendosi verso il disastrato casolare scelto come luogo d’incontro.

Will attivò l’autoradio. Ed aspettò.
 
 
 
 
 
 


 

« … cazzo è? »

« Africa, sono io » la voce di Will tremò.  « Quelli non sono tornati. Non sapevo cosa fare, cazzo. Sono andato là dentro ma non c’era nessuno, neanche i clienti. Non c’erano macchine o che cazzo so io, porca puttana. Africa, mi sto cagando sotto. Quelli magari li hanno ammazzati. Cazzo, il capo mi uccide, il capo mi uccide… »

La voce di Will si ridusse ad un sottile piagnucolio. Dall’altro capo del telefono, l’Africano sospirò. In sottofondo, si udivano distintamente voci agitate e toni litigiosi.

« Benny, Manolunga e Volpe hanno tagliato la corda. I clienti li pagati visti ieri. Oggi dovevano vedere un tizio che poteva piazzare la roba. Si sono fumati tutto. Senti, tu dove stai? »

« Cos- io? Dove? Addlestone, non mi ci sono mosso. Ma questo- »

« Questo è un bel casino. Le scimmie si sono sguinzagliate per tutta la città, ma quelli non stanno da soli e di certo non stanno qua. Sono trecento milioni, porca merda »  Africa sospirò di nuovo nella cornetta. « Promettimi una cosa: qualunque cosa, non tornare a casa. Vai da qualche parte, da un amico e non aprite a nessuno. Il capo non ce l’ha ancora con te, ma potrebbe venire a cercarti e tu lo sai come finiscono ‘ste cose… »

« Io… »

« Non tornare a casa. Non è un posto sicuro. »
 
 
 
 
 
 
 



La ragazza mise lo scooter sul cavalletto e, con movimenti agili, estrasse il cellulare dalla borsa, rispondendo all'insistente chiamata.

« Sì? »

« Freya, sono io. Sai cosa sta succedendo? »

« Will! Cavolo, ero così preoccupata! »

« Taglio corto, non ho tempo. Non posso farmi vedere a casa mia. Puoi ospitarmi da te? »

La ragazza rimontò sullo scooter, incastrando il cellulare nel casco.

« Ma sei scemo? Ci scoprirebbero subito. Dove sei? »

« Knightsbringe, sto passando la- »

« Fermati lì. Ho un posto perfetto, andremo da una mia vecchia amica. E sta’ attento, coglione! » gridò ad uno che gli stava tagliando la strada.

Will fece un verso dubbioso. « Dev’essere una persona fidata, Freya, non possiamo rischiare- »

« Ah, tranquillo! Di Morgana mi fido come di me stessa. »
 
 
 

**

 
 
merlin ti prego questa notte non tornare a casa. se sei a casa vattene. vai da lance o da gaius, vai in un motel.
non mi chiedere spiegazioni. ti dirò tutto ma non ora. ti prego!
NON TORNARE A CASA
 
- will
 
 
 
 


**
 
 


 
La CCR era come un corpo umano. Felice la mente, sano il resto del corpo.

L’associazione mentale era venuta spontanea ad Arthur mentre assisteva miracolosamente al cambiamento che comportava un po’ di allegria e buonumore in un gruppo di persone così eterogeneo. Aveva attraversato la zona degli uffici vicini con un sorriso contagioso ed irreprimibile (neanche il disgustoso caffè della macchinetta al piano terra che sorseggiava riusciva ad abbatterlo), irradiando di contentezza chiunque gli fosse vicino. Gwen lo aveva squadrato a lungo sospettosa, ma poi l’epidemia era arrivata anche alla sua scrivania ed aveva smesso di farsi domande.

Avevano lavorato con leggerezza e precisione per tutta la mattina, Percival aveva concluso con successo numerose trattative, Leon aveva dimenticato perché si sentiva così abbacchiato (un disguido familiare) e Gwaine riuscì ad organizzare un appuntamento con una sua collega centralinista.

La vita era bella ed Arthur era…

« … in ritardo! »

Si alzò di scatto, rovesciando la sedia e facendo cadere la matita sulla moquette. Guardò più attentamente l’orologio, nel caso si fosse sbagliato, ma i numeri indicavano che le due erano passate da cinque minuti. L’ora di pranzo era finita da un pezzo e lui non se n’era accorto. Si passò una mano fra i capelli, in uno stato di profonda disperazione, quando qualcuno bussò leggermente alla porta.

« Avanti »  disse bruscamente. Elena, i capelli biondi raccolti in alto in una coda penzolante, entrò nell’ufficio, richiudendosi la porta alle spalle.

« Arthur, tutto bene? »

Quello sospirò. « Ho dimenticato la pausa pranzo. » 

La ragazza scoppiò in una risata cristallina. « Oh, andiamo, sei l’amministratore! Puoi permetterti una mezz’ora per mangiare un boccone! »

Arthur la fissò con un’espressione indecifrabile. Elena lo raggiunse dietro la scrivania, strattonandolo per la manica della camicia.

« Andiamo insieme, eh. Guarda, io ho il pomeriggio libero, perciò non c’è problema. Possiamo starcene un po’ insieme, che ne dici? »

« Ehm, immagino di sì. »

Elena squittì. « Fantastico! Avevi in mente un posto? »

Lui espirò pesantemente. Forse non tutto era perduto.

« Sì, è un locale un po’ rustico, giusto qui dietro… »
 
 
 
 
 
**
 
 
 


Merlin non apparteneva a quel genere di persone che si lasciano atterrare dalle preoccupazioni e dalle paranoie, interpretando ogni capello fuori posto come un segnale di pericolo. Semmai, era l’esatto opposto.
Stavolta, però, la questione era differente.

Era appena uscito dal Roast Dragon quando aveva ricevuto l’sms di Will. Lo stomaco gli si era serrato per il terrore, la paura che si fosse cacciato in qualche guaio. Aveva tentato di telefonargli, ma non aveva avuto successo, la linea era staccata. Pensò perfino di chiamare la madre di Will, ma poi un’ondata di buonsenso gli fece capire che forse non era il caso di far preoccupare anche loro.

La scusa che aveva rifilato a Lance nel chiedergli di ospitarlo non reggeva, eppure lui l’aveva accettata, leggendo fra le righe.

L’amico gli aveva preparato il divano affinché dormisse comodamente, assicurandogli che l’avrebbe svegliato in tempo per il turno del giorno dopo, ma Merlin non era riuscito a chiudere occhio. Si era rigirato sui cuscini del sofà, ansimando in fugaci morse di panico.

Intorno all’alba, Merlin era riuscito a stabilire un certo controllo delle proprie reazioni, allentando la tensione muscolare e respirando più lentamente. Gaius stentava a sopportare il suo servizio quand’era di buon umore, figuriamoci che sarebbe successo se si fosse presentato nervoso e preoccupato! No, non poteva permettersi gaffe, anche perché un campanellino nel retro del cervello cercava di ricordargli che quello era un giorno importante.

A Merlin tornò in mente il motivo e scattò a sedere, un’espressione terrorizzata in volto.  

Arthur.
 

Probabilmente, ovunque fosse, Will aveva percepito la maledizione dell’amico.
 
 
 
 
 
 
 
 




« … e così gli ho detto: “Guarda, se proprio vuoi ascoltare i Backstreet Boys, fallo mentre mi faccio il tuo amico nel bagno.” Dovevi vedere la sua faccia! »

Elena scoppiò in una risata sguaiata, coprendosi la bocca con una mano ed asciugandosi le lacrime con l’altra. Arthur sfoggiò un sorriso stentato e si mosse a disagio sulla sedia, mentre Merlin seguiva a ruota la ragazza in una risatina dal suono fasullo.

Merlin aveva iniziato a sperare che Arthur Pendragon si fosse dimenticato del loro appuntamento. Anche perché non era un appuntamento – per niente. Si erano solo detti che sarebbe stato bello vedersi di nuovo, non significava necessariamente che uno dei due, o entrambi, intendessero approfondire la loro relazione. Rapporto – di amicizia. No, conoscenza. Vaga conoscenza.

Sostanzialmente, non si sentiva in grado di reggere la tensione che accompagna gli incontri, di qualsiasi natura. Controllava il cellulare ogni tre minuti (con grande disappunto di Gaius, che aveva iniziato a minacciarlo con turni extra), sobbalzava al minimo rumore imprevisto, ad ogni faccia da poco di buono.
Poi, quando non ci sperava più, quando aveva iniziato a ringraziare il Cielo perché l’ufficio aveva divorato il giovane Pendragon, i marziani l'avevano rapito o qualcosa del genere, i campanelli sulla porta tintinnarono con un’allegria degna di un film horror.

Arthur, dorato e splendente e rosso in viso, fece il suo ingresso nel locale, piantando il suo sguardo in quello di Merlin, al suo posto dietro la cassa (fece di tutto per ovattare il fischio assordante nella sua mente e per reprimere quel delizioso brivido che gli saliva lungo la schiena). Artigliata al suo braccio, stava una giovane e bellissima ragazza, una coda molleggiante di capelli biondi ed un viso cordiale, genuino.

Merlin restò sorpreso, ma non lo diede a vedere. Si fiondò sulla coppia, sorridendo apertamente (gli facevano male le guance, perché è faticoso fingere di essere spensierati) e scortandosi ad un tavolo libero. Prese le ordinazioni senza incrociare lo sguardo con quello di Arthur – poteva percepirlo mentre studiava il suo volto, si augurò che non vi notasse nulla.

Quando era tornato con salmone e sandwich al tonno, Elena aveva fatto in modo che anche lui entrasse nella vivacissima conversazione, insistendo perché si sedesse con loro – « meriti anche tu una pausa, caro ragazzo! »

E così erano finiti a parlare di bizzarri tentativi di rimorchio e disastrosi appuntamenti. Ironia della vita.

Merlin prese un’oliva dal piatto della ragazza. « Ma come hai fatto a dire di sì a uno che ascolta una boy band? Non è che ci vuole un genio per capire che abita nella gay land, no? »

La risata di Elena fu così violenta che alcune teste dei tavoli vicini si voltarono. Il locale si era praticamente svuotato, era pieno pomeriggio ormai. Arthur ridacchiò sotto i baffi e Merlin gli scoccò un’occhiata penetrante. L’espressione del primo si addolcì e sarebbero rimasti a fissarsi se la ragazza non li avesse interrotti.

« Merlin, che lavoro fai tu? » domandò.

« Ehm, sto qui. Al Roast Dragon. »

Elena si schiaffeggiò la fronte. « Cavolo, che scema! Hai ragione! »

Merlin fece spallucce. « In realtà, ho anche un altro lavoro. I soldi non bastano, l’università costa un bel po’, così sbarco il lunario scrivendo recensioni per svariate testate. »

« Di film? Libri? Che genere? Magari ho letto qualcosa di tuo! »

« Ecco, sono »   il tono si fece imbarazzato al ricordo dei titoli che Morgause amava rifilargli   « letture settoriali. Spazio tra diversi generi, come medicina e teorie new age. »

Arthur si sporse in avanti, sollevando un sopracciglio, e l’altro maledisse la propria incapacità nel mentire.

« E quale libro ci consiglieresti? » chiese, in tono provocatorio. Merlin arricciò le labbra, fissandolo minaccioso.

« Non ti facevo un tipo da libri, Arthur. »

« Non ti facevo uno che sta sulla difensiva, Merlin. »

« Era per non farti perdere la faccia davanti alla tua amica, babbeo. »

« La mia faccia non ha nulla da perdere. »

« Quello che hai detto non ha senso. »

« Neanche la tua faccia * » si interruppe, godendosi la vittoria di una discussione, incurante della spettatrice interessata. Poi, notò qualcosa.

« Cosa c’è che non va, Merlin? »

Quello sussultò ed Arthur sgranò gli occhi. Merlin abbassò lo sguardo, temporeggiando, poi scattò in piedi, riponendo i piatti vuoti sul vassoio sotto l’espressione stupita degli altri due.

« Si è fatto tardi, devo andare » disse, a mo’ di scusa. Elena concordò, annunciando che sarebbe stato il caso di tornare in ufficio e si diresse alla cassa, con l’intenzione di pagare.
Merlin fece per seguirla, ma Arthur gli afferrò il braccio.

« Arthur, devo- »

« Te la sei presa perché ho portato anche lei? » chiese, diretto.

« Cos- no! Perché dovrebbe darmi fastidio una tua amica? No, è che oggi è una giornata… strana. Mi sono svegliato male. »

Arthur sospirò, allentando la presa. « Io ed Elena stiamo insieme, ma non è niente di serio. Sto giusto pensando di- »

« Non credevo fossi fidanzato. »

« Non abbiamo mai avuto occasione di parlare normalmente, Merlin, te l’avrei detto. »

« Tu vuoi parlare normalmente? »

« Più di ogni altra cosa al mondo. »
 
 
 
 
**
 
 
 


Arthur si fece solecchio con la mano, guardando con malcelato disgusto la folla di turisti che si dirigeva verso il Market o si sporgeva dal ponte per rimirare il Regent’s.

Camden aveva la capacità di appiccicarsi alla pelle, insieme al sudore e ai tatuaggi temporanei, e aveva quell’odore pungente di fritto, piscio e tabacco che doveva essere solo peculiarità di città come NYC o Los Angeles, non di una come Londra.

Detestava quel quartiere, ma forse lui era un po’ di parte. Quella mattina, si era svegliato con la luna storta ed una bizzarra determinazione nelle ossa. Aveva aperto il cassetto della scrivania e aveva estratto la chiave, infilandosela nella tasca dei pantaloni mentre telefonava a Gwen per avvertirla del ritardo in ufficio.

Nonostante Camden Town, il suo buonumore tornò al ricordo del giorno prima. Era un soleggiato e tiepido giovedì ed aveva rimediato un vero appuntamento con Merlin.
Beh, più o meno. Riteneva che “appuntamento” fosse una parola grossa, perché loro volevano solo stringere amicizia. Nient’altro.
E il venerdì sera è perfetto per due amici che vogliono solo conoscersi un po’.

Non riuscì a trattenere un sorriso, che gli affiorò sulle labbra più luminoso che mai.

Perso nei suoi pensieri, non si era reso conto di aver sorpassato la PharmoBiotech che era il suo punto di riferimento. Dovette tornare indietro sui suoi passi per ritrovare il portone rosso accanto alla vetrina della farmacia.
Si attaccò al campanello che recitava “Concierge” (perché forse “portinaio” sembrava troppo provinciale) e la serratura scattò.

Il portone cigolò sui cardini quando Arthur lo spalancò, entrando lentamente e guardandosi intorno. Il corridoio era buio e le pareti necessitavano di una buona intonacata. Sulla sinistra, un montacarichi con le porte faceva finta di essere un ascensore. Le scale erano in buono stato, probabilmente ricostruite dopo un crollo o l’infortunio di un condomino. Sulla destra, un piccolo archivio in ferro ed una scrivania, con telefono e quant’altro, dovevano costituire la postazione abituale del portiere.

« E lei chi è? » tuonò una voce da sotto la scrivania. Arthur si abbassò per vedere l’interlocutore, ma lui gli risparmiò la fatica tornando in piedi, in un’imponente figura dalla pelle rattrappita, naso adunco ed una grigia criniera leonina. L’uomo era incredibilmente vecchio eppure incuteva un timore reverenziale, quasi paralizzante, nonostante la camicia di flanella a quadri ed i chiari pantaloni a coste.

« Buongiorno. Sono qui per vedere l’interno 29A. Ho la chiave »  la tirò fuori dalla tasca, lucida e intonsa, per farla vedere al portiere. Lui assottigliò le palpebre dietro gli occhiali, sospettoso, scrutandolo in volto.
Infine, si lasciò cadere su uno sgabello, che scricchiolò pericolosamente, ed indicò le scale.

« Terzo piano, corridoio a destra. Le consiglio di andare a piedi. L’ascensore fa brutti scherzi. »

Arthur ringraziò e guardò le scale, ma non fece un ulteriore passo. Rimase fermo lì, davanti alla scrivania, congelato.

Il portiere appoggiò i gomiti sul tavolo, osservandolo. « Sei suo figlio, non è vero? »

Arthur sobbalzò. « Come? »

« Ygraine Wledig. Tu sei suo figlio. »

« Ma… »

Il portiere si alzò, girando intorno alla scrivania e porgendo la mano all’altro. « Sono Mr Garrah, concierge di questo condominio dall’inizio dei tempi. Puoi chiamarmi Kill, ragazzo. »

Kill Garrah non aspettò che gli stringesse la mano e tornò dietro il banchettò, iniziando a spalancare i cassetti dell’archivio. Arthur fissava il vuoto, ancora immobile nella sua posizione.

« Per tutti gli anni che è stata qui, miss Ygraine l’ho trattata come una figlia. Una cara ragazza, ma così fragile! Il suo appartamento è rimasto così come l’ha lasciato. Da qualche parte dovrei avere un suo quadernetto… A-ah! Trovato! »

Si voltò con un sorriso raggiante, sventolando un consunto taccuino rosso.

Arthur se n’era andato.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 
 
 

 
* piccolo tributo a Scrubs. ^^
 
Nda
 
Poco Merthur in questo capitolo, lo so… Ed Arthur è già la seconda volta che chiude il capitolo scappando sene. Ah, che codardo,così poco cavalleresco!
 
Comunque sul serio non so cosa dirvi. Mi sento profondamente bastarda e cretina e spero di riuscire a fare ammenda.
Non recensite, perché altrimenti mi viene ancora di più il senso di colpa. Lasciate che resti lo “0”, perché dev’essere una specie di punizione. Se proprio volete dirmi qualcosa, fatelo in privato, così potete anche insultarmi.
Perdonatemi, sul serio. ç_ç
   
 
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