Serie TV > Supernatural
Segui la storia  |       
Autore: Aniel_    14/06/2013    5 recensioni
Chicago 1940.
A Dean Winchester, poliziotto di ventotto anni, viene tolto il caso della vita, a cui lavorava ormai da anni. Ma ha una nuova pista che lo condurrà nel luogo più blues di tutta la città.
Incontrare un certo sassofonista e trovarlo "vagamente interessante" non era di certo nei suoi piani.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester, Sam Winchester, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Fandom: Supernatural
Pairing/Personaggi: Dean/Castiel, Sam/Ruby, John Winchester, Missouri, Joshua, Bobby Singer, Rufus Turner, vari.
Rating: NSFW
Chapter: 7/?
Betavampiredrug ♥
Genere: introspettivo, romantico, angst
Warning: AU, slash, OOC
Words: 3569/? (fiumidiparole)
Disclaimer: nessuno mi appartiene, nemmeno il sax di Cas. È così triste, non è vero?
Dedica: a Nadia, che mi rende partecipe dei suoi acquisti di cd blues e jazz, alla quale dovevo dedicare questo capitolo una vita fa. Scusa il ritardo ♥

CAPITOLO 7
Shipwreck Blues

 

Quando Dean fece il suo ingresso al Garden trovò una spossata Missouri adagiata su una sedia, con il viso tra le mani. Nonostante ormai vi si recasse da quasi due mesi alla stessa ora, il poliziotto continuò a stupirsi del silenzio innaturale che avvolgeva quel luogo di giorno.
Lo apprezzava, in ogni caso. Quella calma sapeva essere, per certi versi, rassicurante.
Missouri lo sentì arrivare e alzò il viso, sospirando. «Non è qui.» annunciò mesta, prima ancora che l'altro riuscisse ad aprir bocca.
Dean si raddrizzò e aggrottò la fronte, raggiungendola e posandole una mano sulla spalla. «Non posso essere semplicemente passato a salutare la mia barista preferita?» domandò ironico, ma Missouri non sorrise, né diede segno di voler stare a qualche stupido gioco.
«Non è qui, Dean» ripeté la donna e la sua voce tremò appena.
«Chi?»
«Castiel.»
Il poliziotto annuì distrattamente e si guardò intorno. «Va bene, non è costretto a stare qui tutto il giorno, no? Il ragazzo deve riposare.» replicò, scuotendo un po' la donna.
«Credo che sia a casa. Credo...» deglutì, passandosi una mano sul viso. «... che non verrà a lavorare oggi.»
Dean avvertì un moto di ansia avvolgerlo. Era successo qualcosa, era chiaro. Prese posto accanto a lei, posando la propria mano sulla sua. «Va tutto bene?» domandò incerto, e no!, non andava bene, era palese, ma in realtà non sapeva che altro dire.
Missouri tremò e strinse la sua mano. «Si tratta di Joshua.» rispose. «Lui e Castiel hanno litigato e io non ho potuto fare a meno di ascoltare.»
«E perché hanno litigato?»
Missouri scosse il capo e si alzò. «Non dovrei essere io a dirlo. Penso che in questo momento Castiel abbia proprio bisogno di un amico, Dean.»
Dean non se lo fece ripetere due volte.
 
Dean sospirò, bussando per l'ennesima volta, conscio che l'altro fosse dentro ma che non avesse, a quel che sembrava, alcuna intenzione di farlo entrare.
Poggiò la fronte sul legno tiepido e attese, percependo rumori sommessi, come di passi: a quanto pareva Castiel stava misurando il soggiorno senza sosta.
«Cas so che ci sei, fammi entrare.» disse, cercando di trattenere la preoccupazione. «Missouri mi ha detto cosa è successo quindi per favore, apri questa dannata porta.»
Ma l'altro non rispose, né fece per aprirgli e Dean si sentì a un passo più vicino dal desiderio di sfondare una finestra e farsi largo da solo.
«Ho perso il conto, Cas. A quale regola siamo arrivati?» domandò, grattandosi la nuca. «La quindicesima, forse? Non lo so, non sono io quello che ricorda bene le cose quindi ci penserai tu ad annotarla o... fare quello che ti pare, insomma. Non nasconderti.» aggiunse. «Hai sentito? Non nasconderti.»
Seguirono pochi istanti di silenzio, fino a quando Castiel non si decise a parlare. «Quattordicesima.» puntualizzò. «È la quattordicesima.» ripeté, aprendo la porta e quello che Dean vide gli fece accartocciare il cuore nel petto.
Probabilmente Castiel non aveva dormito quella notte: gli occhi erano arrossati e circondati da scure occhiaie, le labbra gonfie e le guance pallide.
Dean lo guardò con apprensione ma non si avvicinò né lo trasse a sé. In realtà non aveva idea di come comportarsi: negli ultimi due mesi era stato semplice passare del tempo con Castiel e sebbene non fosse come aveva immaginato, baciarlo, stargli vicino e ascoltarlo suonare era diventato così piacevole e naturale da fargli domandare come avesse vissuto fino a quel momento senza quel tipo di attenzioni.
Ma averlo davanti in quelle condizioni era diverso così come cercare le parole giuste per... consolarlo? Non gli piaceva quell'idea, non voleva consolarlo, Dean voleva solo esserci e dimostrargli, al tempo stesso, che non sarebbe andato via.
Anche se non sapeva come riuscirci, certo.
«Non è un buon momento, Dean.» mormorò Castiel, flebile, puntando lo sguardo sul pavimento.
«Nessuno meglio di me può capire cosa significa tenere testa a un genitore e credimi, so che le liti sono sfiancanti... ma non vale la pena buttarsi giù così, sul serio.» mormorò, prima di afferrare la sigaretta che l'altro teneva pigramente tra le dita e spegnerla senza troppi convenevoli nel posacenere stracolmo. «Questa roba ti ucciderà.»
Castiel rise, afferrandone una nuova dal pacchetto. «Non è un gran problema.»
Non gli piaceva quell'atteggiamento. Dean aveva notato che, alle volte, Castiel sapeva essere autodistruttivo. Aveva avuto quell'impressione la prima volta che gli aveva parlato, dopo averlo salvato dalla banda di Alastair: Castiel non aveva fatto nulla per difendersi, aveva solo incassato colpo su colpo, come se non gli interessasse.
Questo suo modo di affrontare le situazioni lo disturbava.
Dovette reprimere l'impulso di tirargli via la sigaretta dalle labbra e si limitò ad annuire, prendendo posto sulla poltroncina del salotto. Osservò l'altro fare avanti e indietro, in silenzio, attendendo che si sedesse, ma quando capì che Castiel non ne aveva alcuna intenzione, sospirò e gli fece cenno di raggiungerlo.
«Cas, ti prego. Siediti.»
L'altro esitò, apparentemente ignorandolo, ma poi il suo corpo reagì per lui e Dean se lo ritrovò di fronte mentre guardava le punte delle proprie scarpe.
«Vuoi spiegarmi che diavolo è successo? Per favore.» lo pregò, ma Castiel si limitò a ridere, e non era quella risata che Dean aveva imparato ad amare, quella che dalle labbra si spingeva sempre più su, fino agli occhi, e poi pian piano invadeva l'intero corpo del musicista. No, era una risata fredda, innaturale, una risata che sarebbe potuta diventare un pianto da un momento all'altro.
Era agghiacciante.
A Castiel tremavano le mani, così forte che Dean vide l'esatto istante in cui la sigaretta penzolò dalle sue dita e cadde sul pavimento. Una parte di lui sentiva il bisogno di toccarlo, anche solo di poggiare una mano sulla sua spalla, ma Castiel sembrava così lontano - così inavvicinabile- che dovette desistere e aspettare.
«Missouri cosa ti ha detto?» gli domandò Castiel, con un filo di voce.
«Niente. Solo che...» avresti potuto aver bisogno di me «... magari ti serviva qualcuno con cui parlare. Ma se mi stai chiedendo se so il motivo, beʼ, no. Non lo so.»
Castiel annuì diverse volte, torturandosi le mani. «Si tratta di Joshua. Sta morendo.» annunciò tutto d'un fiato.
Dean chinò lo sguardo. «Mi dispiace, Cas.»
«Oh no, non deve dispiacerti!» commentò divertito. «A nessuno deve dispiacere, sai? Non fa che dirlo, che è una sua scelta, che quelle medicine sono inutili, che non ne ha bisogno. Quindi perché dovrebbe dispiacerti? Perché dovrebbe dispiacermi? Cosa vuoi che sia, dopotutto.»
«Cas...»
«Sto bene, Dean.» sbottò, alzandosi in piedi. «Sto più che bene. Non vuole ascoltarmi, non mi ha mai ascoltato, e adesso che posso farmi sentire credi che possa fare la differenza? Non mi importa.»
Dean lo raggiunse, incapace di restare fermo in un angolo e guardarlo esasperarsi in quel modo.
Nelle ultime settimane era diventato quasi... dipendente da lui. Non lo avrebbe mai ammesso ma non riusciva a far passare dodici ore lontano da quella piccola casa che ormai era diventata un luogo sicuro in cui sfogarsi, quando la vita fuori diventava troppo stressante.
Il punto era che la vita di Castiel sembrava così quieta, fatta di sorrisi e musica, che Dean non aveva mai pensato che potesse esserci anche solo una nota stonata.
Castiel sapeva celare bene i suoi demoni, in un modo che il poliziotto non si aspettava.
Posò le mani sulle sue spalle, inclinando appena il capo e cercando i suoi occhi. Voleva che parlasse con lui, voleva guardarlo e aiutarlo perché Castiel lo aveva fatto con lui, anche se non lo sapeva.
Castiel sospirò e crollò in avanti, trovando Dean a sostenerlo, e poggiò la fronte sulla sua. «Non mi importa, Dean.» mormorò e c'era un'angoscia nella sua voce che portò Dean a stringerlo forte.
«Sai che dire qualcosa ripetutamente e ad alta voce è un vano tentativo di auto-convincimento?»
«No, non lo è. Sono abituato. È solo l'ennesima persona che se ne va, la differenza è che Joshua lo conosco da tutta una vita. Tutto qui.» replicò. «Alla fine se ne vanno tutti.»
«Dovrai abituarti ad avermi sempre tra i piedi allora, perché io non me ne vado.» rispose Dean, così in fretta e così spontaneamente da non riuscire a frenarsi in tempo.
Non avrebbe dovuto fare promesse, non nella sua posizione.
Non avrebbe dovuto darsi una possibilità ma Castiel era piombato nella sua vita e non era proprio riuscito a farne a meno.
Promise, sapendo che avrebbe fatto di tutto pur tener fede alla sua parola, perché ne valeva la pena. Castiel ne valeva la pena.
Il musicista poggiò entrambe le mani sul suo petto e lo allontanò, chiudendo gli occhi. «Lo dici adesso, ma potresti farlo.»
«Non posso scappare. Non posso nascondermi. Stiamo creando una regola dietro l'altra che ci tiene incollati qui, insieme. E, Dio!, so già che me ne pentirò perché sei così irritante a volte, e presuntuoso, e arrogante da farmi venire voglia di buttarmi giù da un ponte.» sbottò, prendendogli il viso tra le mani. «Ma non me ne vado. E se vuoi una conferma, bene. Restare. Ti va bene come regola?»
Castiel lo guardò in silenzio, con quella strana espressione che poche volte Dean aveva visto sul suo viso, qualcosa che sapeva di confusione ma con uno sprazzo di felicità. E lo baciò e il poliziotto sentì mancarsi il fiato.
Lo baciò come se farlo fosse essenziale per la sopravvivenza di entrambi. Lo baciò per ringraziarlo, e Dean capì nonostante non avesse detto una parola in più di quanto si aspettasse.
Castiel insinuò le mani sotto la sua camicia, tastando con cura ogni centimetro di pelle. Dean lo scostò appena.
«Ehi, Cas...»
Ma Castiel scosse il capo con forza e si aggrappò a lui come non aveva mai fatto prima. «Dean, resta.»
E Dean non riuscì a dire di no.
 
Castiel emise un verso, una sorta di miagolio ovattato, contro il suo petto che lo fece scoppiare a ridere. Dean circondò le sue spalle con un braccio e avvertì l'ormai familiare sensazione di quelle labbra gonfie e morbide contro il suo collo.
«Smettila» ridacchiò, poco convincente, allontanando la testa e poggiandola un po' più in là sul cuscino, ma Castiel si imbronciò solo un po', iniziando a disegnare ghirigori invisibili con la punta delle dita sullo stomaco dell'altro.
«Stai facendo le fusa» osservò Dean. «È imbarazzante.»
«Non è affatto vero. Sta' zitto.» si lamentò Castiel, impettito, ma troppo stanco per rendersi più convincente.
Il musicista accarezzò ogni centimetro di pelle, soffermandosi per pochi istanti sulle cicatrici sul fianco dell'altro: piccole mezzelune rosee che accarezzò con dolcezza, facendogli il solletico.
«Come è stato?» gli domandò «Quando ti ha fatto queste... come è stato?»
Dean deglutì e guardò il soffitto, respirando lentamente. Non ne aveva mai parlato con nessuno, o meglio, non era mai sceso nei dettagli con nessuno.
Nemmeno con Sam.
Nemmeno con suo padre.
Nell'ultimo anno aveva tenuto ogni particolare di quella notte per sé e non perché ci fosse qualcosa da nascondere o da omettere, quanto perché riteneva quel momento "personale".
Tragico, drammatico, ma personale. Intimo per certi versi. Dopotutto stava morendo e non aveva creduto neppure per un momento di poter scampare ad una certezza del genere.
Ma si era risvegliato in un letto di ospedale e Sam piangeva perché era felice che fosse vivo ma aveva pur sempre perso Jessica e Dean sapeva di non poter reggere il confronto.
Sarebbe morto volentieri pur di non vedere suo fratello in quelle condizioni.
Perché era un codardo Dean, sebbene non riuscisse ad ammetterlo nemmeno a se stesso. Era un codardo perché sarebbe morto cento volte pur di non assistere alla sofferenza delle persone che amava e si sarebbe sacrificato altre cento volte per salvare quelle stesse persone dalla sofferenza, restituendo loro quello che avevano perso.
La vita di Dean era quindi un paradosso: poteva essere un codardo e un eroe nello stesso lasso di tempo? Forse per questo non aveva mai parlato dei suoi problemi a nessuno, perché erano paradossi e alla gente i paradossi non interessano.
Ma a Castiel sì.
Castiel lo aveva sempre ascoltato, senza giudicarlo, senza aprire bocca quando era necessario. Castiel semplicemente gli stava accanto, in silenzio, che lui avesse voglia di parlare o no, ed era... liberatorio. Chiacchierare con Castiel era l'equivalente di una boccata d'aria fresca dopo anni passati in apnea e Dean non poteva fare a meno di sentirsi in colpa perché se gli avesse incasinato la vita - come era solito fare a tutte le persone che lo circondavano- non se lo sarebbe mai perdonato.
«Dean?» lo chiamò l'altro, attirando la sua attenzione, e Dean chiuse per qualche istante gli occhi, prima di rispondere.
«Non fa male. Quando Azazel ha...» deglutì e avvertì la mano di Castiel stringersi attorno alla sua. «... è stato come se qualcosa ti togliesse il fiato nella maniera più violenta possibile. Mi sentivo tutto ad un tratto debole, come se avessi corso per ore, e quando le gambe hanno ceduto mi sono ritrovato con la faccia sul cemento. Sentivo il sangue imbrattare i vestiti ed era, beʼ, fastidioso, come quando indossi una camicia ancora umida. Ma non faceva male. Ricordo che non faceva male.»
«Va tutto bene, Dean.» mormorò Castiel, asciugandogli il viso con il pollice della mano.
Dean aveva iniziato a piangere senza rendersene conto.
«Sai invece cosa ha fatto davvero male? Sapere di essere una pedina, una fottuta pedina messa da parte solo per ferire Sam. Per non parlare di Jessica. Io non- Cas, non l'ho mai detto a Sammy perché sarebbe stato troppo, sarebbe stato...»
Castiel lo strinse forte, impedendogli di tremare, e Dean si sentì tanto un bambino, lui che non poteva permetterselo, lui che un bambino non lo era mai stato perché era cresciuto troppo in fretta.
«Jessica gridava e batteva i pugni contro la finestra. Non riusciva ad aprirla e c'era fumo, così tanto che riuscivo a stento a vederla, e... e volevo fare qualcosa, Cas. Volevo tirarla fuori di lì perché non era giusto, perché lei non c'entrava nulla e non volevo... non volevo che Sam vivesse quello che ha passato mio padre. Ma non ci sono riuscito, era tardi e non sono riuscito- Potevo salvarla, dovevo farlo... per Sam. Non l'ho fatto e mi dispiace. Dio!, mi dispiace così tanto.»
«Shh, Dean va tutto bene. Non è stata colpa tua.» cercò di tranquillizzarlo Castiel. «Ascoltami! Non è colpa tua, è solo che quando devono accadere certe cose non c'è nulla che tu possa fare per evitarlo.»
«Io non credo a queste stronzate, Cas. Che era destino o che fa tutto parte di un piano più grande. Non ci credo, non posso crederci.»
«Perché no?» lo incalzò l'altro. «Te l'ho già detto, non puoi salvare tutti. Ci provi, è il tuo lavoro, ma... non devi addossarti la colpa per tutto. È sbagliato. È distruttivo. Ti chiedo solo di non farlo, ti prego.»
Dean ispirò una boccata d'ossigeno e si calmò, poggiando nuovamente la testa sul cuscino e godendosi quella sensazione.
«Tu lo fai, però.» gli fece notare. «Tu vorresti rimediare a tutto e finisci solo col darti colpe che non hai. Lo fai anche tu, Cas.»
«E allora? Credi che io sia un buon esempio da seguire? Solo perché faccio cazzate, non significa che tu sia autorizzato a fare lo stesso.» lo riprese, seriamente.
«Non mi piace come reagisci e odio come affronti i problemi.»
«Faccio esattamente quello che fai tu, Winchester. Solo che a differenza tua parlo poco, tutto qui.»
Dean non riuscì a trattenere un sorriso. «Credi che questo fantomatico destino ci abbia portati qui perché siamo due idioti dello stesso livello?»
Castiel gli pizzicò un fianco e si alzò dal letto. «Io non sono un idiota. La prossima volta parla per te.»
E Dean rise perché a volte non poteva fare a meno di dargliela vinta.
 

*°*°*

Dean sfogliò pigramente il rapporto terribilmente incompleto di McDermott. D'accordo, quasi tutti in centrale non facevano che consigliargli di mollare il colpo, che a volte quello che accade è esattamente quello che sembra e che, se tutte le tracce portavano alla medesima soluzione, non aveva alcun senso rimuginarci oltre.
Era stato un suicidio. Un suicidio di un uomo rispettabile, senza scheletri nell'armadio e che amava la moglie alla follia.
Tuttavia ripetersi quella manfrina non lo aiutava di certo a crederci, figuriamoci a credersi.
Lanciò il fascicolo sulla pila di scartoffie che sicuramente lo avrebbe tenuto lì fino a tarda sera; Dean odiava tutta quella burocrazia, ma la prima volta che aveva cercato di esulare dal compilare i rapporti, John lo aveva letteralmente mangiato vivo. Non aveva alcuna intenzione di ripetere l'esperienza.
Sospirò e si passò una mano sul viso, ignorando Garth che lo aveva appena raggiunto e gli si era piazzato di fronte con la peggiore delle espressioni stampate in viso.
«Hai l'aria di uno sul punto di mettersi a piangere» commentò sghignazzando, dopo aver lanciato un'occhiata al fascicolo di McDermott. «Amico, smettila di assillarti. A volte quello che sembra è la realtà, non starci troppo a pensare.»
Dean rise, cattivo, alzando lo sguardo su di lui. «A me sembri un perfetto idiota, dovrebbe essere indicativo, non credi?»
Garth incassò il colpo senza replicare, sorridendo mogio. «Sei un po' stressato, lo capisco. Ecco, tieni» gli disse, porgendogli una piccola busta, «sono riuscito a salvare qualche ciambella prima che le divorassero.» aggiunse, per poi tornare alla propria scrivania senza aggiungere altro.
Dean si sentì in colpa quasi subito: Garth poteva anche essere un idiota, ma lui sapeva essere proprio uno stronzo quando ci si metteva.
Imprecò a denti stretti e fece per dirigersi verso Garth e scusarsi - era stanco ma non un maleducato!- ma John gli fece cenno di raggiungerlo nel proprio ufficio e Dean fu costretto a rimandare le scuse dopo la ramanzina che lo aspettava.
Entrò in ufficio e si chiuse la porta alle spalle, alzando le mani in segno di resa. «Sì, lo so, devo consegnare i rapporti e sono in ritardo. Lo so. Ci sto lavorando. Andiamo, mi hai pure visto, sto lavorando sodo!»
«Siediti.» ordinò John, glaciale, e Dean obbedì, sentendosi esattamente come quando, da ragazzino, combinava qualche guaio e poi veniva scoperto. Anche allora si ritrovava a pensare, in un paio di secondi, a tutto quello che aveva combinato, cercando di capire quale guaio fosse il peggiore.
«Qualcosa non va?» domandò esitante dopo pochi secondi di silenzio che gli parvero decenni.
«Abbiamo preso Jimmy Roberts. Quell'idiota non sa coprire bene le sue tracce e non è stato poi così difficile scoprire dove si era cacciato.»
Dean spalancò le palpebre. «Lo schiavetto di Alastair? Quel Jimmy?» chiese, incredulo. «Con quale scusa lo avete arrestato?»
«Traffico di droga, lo abbiamo colto sul fatto. Purtroppo il capo non era lì, e nemmeno il suo secondo animaletto domestico.» continuò John.
C'era qualcosa nella sua voce che Dean non riusciva a capire: sembrava quasi che stesse caricando un'arma e che da lì a poco lo avrebbe colpito.
Calò nuovamente il silenzio e Dean attese fin quando, convinto che la discussione fosse terminata e che suo padre non avesse più nulla da dirgli, non fece per alzarsi, tentando di congedarsi nel modo più indolore possibile. «Se non altro è un passo avanti. Ora dovrei tornare a lavoro, quindi...»
«Sai qual è la cosa buffa, Dean?» lo fermò, costringendolo a restare al proprio posto. «Che proprio ieri ho scambiato due chiacchiere con Roberts e quello che mi ha detto è stato... uhm... singolare.»
Dean deglutì, a disagio. «E sarebbe?»
«Mi ha detto che qualche settimana fa hai passato una serata in quel bordello da quattro soldi di North Avenue e, sai, a me non interessa cosa fai fuori di qui. Il punto è: lì lavora Meg Masters o mi sbaglio? È una coincidenza che tu abbia chiacchierato con una nostra informatrice o cosa?» domandò John, scettico.
«Come hai detto tu, non ti riguarda dove passo le mie serate.»
John rise, alzandosi dalla sua scrivania. «Quindi Roberts non stava per freddarti, vero? E quel tuo amico strambo non era con te, vero? Non solo mi hai disobbedito quando ti avevo espressamente ordinato di tenerti fuori dalla questione, ma hai anche portato con te un civile, Dean. Poteva succedere qualsiasi cosa perché tu sei troppo stupido per eseguire gli ordini!» ringhiò.
«Non è come sembra e ne stai facendo una tragedia!» obiettò Dean, accennando un sorriso. «Dammi cinque minuti con Roberts e ti farò avere tutte le informazioni che ci servono. Sai che sono in grado di farlo.» aggiunse.
John sospirò e serrò la mascella, guardando un punto indefinito in mezzo alla stanza, prima di indicare al figlio la porta. «Vai a casa, Dean. Lascia il distintivo qui e vai a casa.»
«Mi stai prendendo in giro? Cosa- no!»
«È un ordine.» replicò, ferreo, e Dean non riuscì a non scoppiare a ridere, cacciando fuori il distintivo e lanciandolo senza troppe cortesie sulla scrivania.
«Non sono uno stupido, papà, e non puoi pensare di poter fare tutto da solo.» mormorò, prima di lasciare l'ufficio.
Dean aveva avuto tante brutte giornate, ma quella stava raggiungendo livelli sconosciuti.
Non si sarebbe scusato con Garth quel pomeriggio, ma lo avrebbe fatto presto.
Non sarebbe andato a casa di Sam a comunicargli la notizia perché qualcosa gli diceva che suo fratello sarebbe stato il prossimo della lista.
Non avrebbe rimuginato oltre perché non aveva bisogno di un distintivo per fare il suo dovere.
Ma afferrò quasi subito il telefono e chiamò Castiel perché, quando si trattava di qualcuno con cui parlare di padri esasperanti, lui era la scelta più ovvia.
 
Castiel posò il sax sul tavolo e afferrò il telefono, lasciando che non squillasse un secondo di più. Sospirò di sollievo quando sentì la voce familiare di Dean attraverso la cornetta.
«Ehi, tutto bene?»
«Sì. Dove sei?» domandò Dean, teso.
Castiel rise. «Hai chiamato a casa, genio. Dove vuoi che sia? Sto per andare al Garden.»
Dean tacque per pochi istanti e Castiel lo sentì deglutire. «Posso restare da te stanotte?» domandò, come se gli costasse una gran fatica.
«Se non sparisci domattina, certo.»
Castiel terminò la telefonata con una strana sensazione all'altezza dello stomaco.
Si chiese se fosse normale capire perfettamente lo stato d'animo dell'altro da poche frasi sconnesse scambiate per telefono.

 Continua...
 


Note dell'autrice: sono viva e vergognosamente in ritardo, lo so. Chiedo perdono ma sono stata sommersa dagli impegni e dagli esami e la JIB mi ha davvero rallentata. Ma eccomi qui, con un nuovo capitolo. È un po' più corto dei precedenti, ma quello che doveva racchiudere c'è tutto. 
Volevo ringraziarvi per l'affetto, per aver atteso pazientemente, di aver inserito la storia nelle preferite/seguite/ricordate e di ogni singola recensione. Per il prossimo capitolo ci sarà da aspettare - sessione estiva maledetta- quindi non posso dirvi con certezza quando arriverà. Dopo gli esami prometto che rispetterò tempi più accettabili.
Un abbraccio,
E.

 

   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Supernatural / Vai alla pagina dell'autore: Aniel_